Esperimento riuscitissimo al Museion di Bolzano, di Andrea Bianco

Autore: Andrea Bianco

Ieri ho partecipato all’Educational day che si teneva presso il Museion, il museo di arte contemporanea di Bolzano
Ero stato invitato a spiegare alle persone come toccare le statue.
Come non vedente ho narrato un pochino della mia esperienza di scultore e poi sono arrivato al momento clow. Raccontando dei musei che ho visitato dove erano messe a disposizione alcune opere per essere toccate dai non vedenti siamo arrivati al concetto dell’accessibilità.
Le persone erano particolarmente attente e entusiaste ad apprendere idee per loro ancora non troppo familiari.
Abbiamo analizzato il modo pratico con cui si esplorano col tatto le opere e poi siamo passati finalmente a considerare la statua realizzata da Francesco Vezzoli in cui reinterpreta un lavoro di Boccioni.
Qui la situazione era piuttosto complessa, perché l’opera non è figurativa, ma è abbastanza astratta per rappresentare lo slancio verso il futuro, verso l’innovazione.
Tutti i presenti hanno avuto la possibilità di toccare con i guanti in lattice l’opera. E’ stato interessantissimo cogliere lo stupore di coloro che non avevano mai fatto un’esperienza simile. Questo approccio tattile ha lasciato a bocca aperta più di una persona.
Un signore ha notato che le ali ai piedi rappresentate nella statua davano un’idea di leggerezza se guardate con gli occhi, mentre appesantivano la figura se analizzate con le mani. A questo punto si è aperto un interessante spazio di considerazioni a riguardo. Ci si è posti la domanda se allora l’effetto illusorio è solamente da considerarsi un effetto visivo oppure se lo si può rappresentare anche da un punto di vista tattile.
Al termine un neurologo ha spiegato quali sono i meccanismi nel cervello che accompagnano l’uso dei sensi. Quindi l’analisi è stata presa in considerazione sotto vari aspetti.
La cosa molto interessante dell’incontro di ieri è stato il fatto che l’opera in questione non è stata resa accessibile solamente ai non vedenti (che sarebbe già una cosa importante), ma a tutti. Assolutamente a tutti.
La riflessione più ampia che si apre è se non sia possibile che ciò accada in tanti musei. Ma non come esperimento, bensì come prassi.
Perché, prese le dovute precauzioni del caso (opere in sicurezza da un punto di vista di stabilità, di controllo…), non si lasciano visibili tattilmente diverse sculture a tutto il pubblico di visitatori?
Andrea Bianco (www.biancoandrea.it)

Una non vedente modello per Manfredonia, di Sipontina Prencipe

Autore: Sipontina Prencipe

Mi chiamo Sipontina Prencipe, ho 35 anni, sono laureata in Lingue Straniere (Inglese e Spagnolo) all’università La Sapienza di Roma e lavoro al centralino dell’USL Foggia, presidio ospedaliero di Manfredonia. Nel 1994 All’età di 14 anni dopo aver terminato la scuola media inferiore, ho vissuto A Roma, presso l’Istituto Per Ciechi Sant’alessio, dove ho svolto varie attività riabilitative: autonomia personale e domestica, cucina, orientamento e mobilità, musica, ecc.. E’ stata una bella esperienza, perché ho avuto un buon metodo di studio ed imparato a gestire la mia vita quotidiana. Ogni giorno, mi recavo con gli assistenti e gli obiettori di coscienza, all’istituto Jean Jack Rousseau, dove ho frequentato il Liceo Linguistico. Mi sono diplomata nel 1999 con 87/100. Nello stesso anno, ho iniziato la mia carriera universitaria e il corso di centralinista telefonico. Il corso prevedeva 2 esami: regionale per la qualifica e statale per l’iscrizione all’albo nazionale dei centralinisti. Ho superato brillantemente gli esami e, dopo un anno circa, sono stata contattata dagli uffici di collocamento per lavorare. Nel 2001, feci la domanda per avere la casa dello studente. La  determinazione ha vinto e mi ha consentito di proseguire gli studi. Dal 2002 al 2005, ho vissuto nella casa dello studente. Mi sono trovata benissimo, perché ho conosciuto gente nuova, avevo una camera tutta per me, c’era un servizio socio assistenziale sempre a disposizione mia e dei diversamente abili, mi organizzavo le giornate con gli obiettori di coscienza per seguire le lezioni all’università, comprare i libri e andare al ricevimento dei professori, per concordare i programmi. Nel 2005 mi sono laureata in Lingue Straniere con 105/110. L’argomento della mia tesi di laurea era il romanzo “To The Wedding” Festa Di Nozze”, scritto dall’autore della letteratura inglese contemporanea, John Berger. A dicembre 2005, ho organizzato la mia festa di laurea all’Unione Ciechi Di Foggia e per l’occasione, l’ex presidente Dottor Corcio Michele, mi ha scritto una lettera di onoreficenza; cito alcune frasi della stessa: “L’unione ha bisogno di dirigenti come te, attenti e culturalmente preparati. Tanti non vedenti non si sono laureati, tu invece, hai raggiunto con impegno il tuo obiettivo, nonostante la strada fosse faticosa da percorrere.” Nel 2006, ho organizzato a Manfredonia con il patrocinio dell’amministrazione comunale, il convegno sulla disabilità. Il Sindaco mi ha premiata con una targa, per la tenacia che ho avuto nel mio percorso di studi. A Manfredonia molti mi conoscono e mi ammirano, perché continuo a prefiggermi tanti obiettivi e realizzarli con dedizione. Ho molti impegni dal punto di vista sociale: faccio volontariato presso l’associazione di protezione civile P.A.S.E.R (Pubblica Assistenza Soccorso Emergenza Radio), canto al livello amatoriale nelle varie manifestazioni, scrivo articoli per la testata giornalistica Stato Quotidiano, conduco programmi in una radio locale. Grazie al corso di orientamento e mobilità svolto nel 2011, ho imparato a muovermi per il paese con i mezzi pubblici. Concludo il mio articolo con un messaggio di conforto che, vorrei trasmettere ai diversamente abili, in particolar modo ai non vedenti: “Spesso diciamo che, la vita non riserva nulla nel presente e nel futuro, non è così. Quanto meno ce l’aspettiamo, qualcuno che conosce le nostre abilità, ci terrà presente per eventuali opportunità di lavoro, eventi musicali ed attività dirigenziali da svolgere anche all’Unione Ciechi. Forza e coraggio, non vi abbattete!”

Corse mattutine effettuate nelle strade solitarie di campagna, di Michele Sciacca

Autore: Michele Sciacca

Come può un non vedente correre da solo per le strade solitarie di campagna?
Rispondo garantendo che può farlo.
Anni addietro io lo facevo quasi ogni mattina, approfittando delle belle giornate di sole.
Mi avvalevo di una canna da pesca munita di apposito mulinello, carico di filo per la pesca.
Io, accompagnato da un giovane militare, raggiungevo in macchina strade solitarie nelle zone circostanti al paese di Mascali, dove sarebbe stato possibile fare cautamente avanti e indietro, lasciando scorrere la mia mano sul filo del mulinello. Una volta legata la parte terminale del filo allo specchietto della macchina, il collaboratore si allontanava da essa, snodando circa trecento metri di filo, poi teneva la canna da lancio in mano ad altezza d’uomo.
Io, in tuta e scarpe da tennis, con la mano appoggiata al filo, facevo regolarmente avanti e indietro a passo di marcia, finché non mi sarei stancato.
Dopo mi mettevo immediatamente in macchina, nel giro di pochi minuti mi ritrovavo già sotto la doccia e, dopo essermi asciugato e abbigliato per bene, mi sentivo meglio, dal momento che la corsa e lo stretching mi consentivano di liberare la dopamina che è l’ormone della felicità.
Dalla corsa piacevole e lo stretching rilassante fatti in aperta campagna, adesso passo a descrivere un episodio tragicomico realmente accaduto ad alcuni giovani randazzesi, i quali a bordo della loro macchina vollero scendere in spiaggia per provare nuove emozioni e il tratto di spiaggia da loro visitato, brulicava di pescatori dilettanti, fra cui, ovviamente c’era anche chi scrive.
Mentre si pescava, ad un certo momento si vide arrivare una grossa macchina con quattro giovani randazzesi a bordo, i quali, ignari delle immancabili difficoltà cui sarebbero potuti andare incontro, posteggiarono l’automobile a pochi passi dalla battigia, per vedere il mare da vicino.
Una volta messi i piedi sulla sabbia, cominciarono a manifestare tutta la loro allegria, scherzando e ridendo gioiosamente.
In quel posto i quattro giovani rimasero più di mezz’ora.
Essi guardarono le acque agitate del mare e i numerosi pescatori dilettanti che si muovevano in quella zona.
Dopodiché, si misero di nuovo in macchina per riprendere la via del ritorno, ma non poterono partire per il fatto che le ruote della macchina erano sprofondate nella sabbia.
Essi fecero diversi tentativi per tirarsi fuori da quel brutto impaccio ma alla fine non vi riuscirono, anzi rimasero più insabbiati di prima.
I quattro mal capitati, non sapendo più cosa fare, decisero di chiedere aiuto ai pescatori dilettanti presenti.
Essi a malincuore smisero di pescare e bestemmiando si misero a spingere la grossa macchina che, dopo sforzi notevoli, fu ricondotta finalmente in strada.
Così i quattro imprudenti giovani randazzesi, grazie all’aiuto dei pescatori dilettanti, poterono tornare al paese d’origine con la loro stessa macchina.
Mentre gli stessi pescatori tornavano in spiaggia trafelati, andavano dicendo fra loro:
«Forse quei quattro sprovveduti giovani randazzesi non avevano mai visto da vicino il mare».
Michele Sciacca

Il tempo passa, i sentimenti non mutano, di Mario Censabella

Autore: Mario Censabella

E’ notte, sono le 3, non posso dormire, debbo scrivere.
Ieri 15 febbraio 2016 apprendo dai “necrologi” del Corriere della Sera” della scomparsa di Bianca HOEPLI e subito mi si apre un bagaglio di ricordi che non posso, non voglio dimenticare.
La mia vita, da quando ho avuto la consapevolezza di essere un uomo è girata intorno alle attività dell’Unione Italiana Ciechi di Milano, da quel “mondo” ho tratto sempre conforto, gratificazioni, e ora anche tanti ricordi.
La mia personalità si è formata anche attraverso importanti insegnamenti, “tutti” hanno lasciato un segno e nostalgie.
L’Ing. Maurizio Galimberti era un sciur, famiglia benestante originaria di Fiumelatte, il padre medico, brillanti studi universitari, gare di atletica attraverso il G.U.F., ma soprattutto la passione per l’aereo, a vent’anni ne possedeva già uno. Giovanissimo ha partecipato a qualche battaglia aerea, la guerra era per finire.
Poi la passione per il volo a vela, è stato proprio con un aliante che ha perso la vista: Forlanini, manifestazione aerea, il suo velivolo ha un guasto ai freni aerodinamici, per non cadere sulla folla ritorna sul campo di volo, chi deve partire dopo di lui ha avuto panico e anziché sgombrare la pista, ha abbandonato il suo apparecchio; Galimberti atterrando ha avuto un impatto violento, da lì la cecità.
Quando ci siamo più assiduamente frequentati, lui era Presidente ed io vice Presidente dell’Unione Ciechi di Milano.
Era un uomo di grande cultura, mi ha insegnato tantissimo, persino come sostenere la bandiera nelle manifestazioni ufficiali.
Ho imparato da lui l’iniziativa, tuttora perdura, di visitare nella circostanza del Natale i non vedenti ricoverati nelle case di riposo. Soprattutto in quella circostanza lo accompagnava una signora alta, bionda, con una Fiat 1300, era Bianca Hoepli. Maurizio Galimberti parlava spesso degli Hoepli, di Bianca, di Gianni e di altri della famiglia, erano certamente stati compagni di Università, di giochi e di mondanità.
Tutti pensavamo che tra Maurizio e Bianca Hoepli vi fosse gran simpatia. Un giorno, non ricordo, era d’estate, siamo stati, solo gli amici con i quali aveva maggiore familiarità, invitati a un pranzo a Varenna, ospiti di Maurizio. Enzo Zaniboni, segretario sezionale dell’Unione di allora, con il quale mi interrogavo su questa iniziativa era convinto che vi fosse in quella circostanza un’importante notizia: matrimonio?
Al brindisi grande euforia, Galimberti con una coppa in mano annunciò che era felice di essere con tanti amici anche non vedenti, poiché quello era il giorno anniversario nel quale egli era divenuto cieco.

Al ritorno mi sentivo frastornato, forse perché avevo bevuto troppo, a Milano non mi sono più trovato il mio nuovo Bulova Braille che si caricava con il movimento del polso.
Il giorno successivo ho riferito a Galimberti dello smarrimento dell’orologio. Dopo qualche giorno mi giunge da Maurizio una telefonata dal quale apprendo che il mio orologio, non so da quale forza soprannaturale l’avesse appreso, era in un tombino e che era irrecuperabile: grande il mio rammarico, mi era costato 80 mila lire.

Oggi ho un nuovo Bulova, identico, che per una sorta di scaramanzia l’ho indossato dopo diversi anni, non ricordo come l’abbia ricevuto: acquistato, o un dono di Galimberti? O da altrove?

Maurizio Galimberti ha lasciato il suo cospicuo patrimonio con un testamento olografo, valido in quanto non aveva perso la capacità di scrivere correttamente, alla scuola cani guida di Limbiate fondata dai Lions Club e che ora porta il suo nome. Nel suo testamento, fra le altre, vi era una postilla che disponeva che …a Enzo Zaniboni e a Mario Censabella fossero consegnati, a giudizio dell’esecutore testamentario, due suoi piccoli ricordi.

Galimberti parlava spesso dei suoi amici editori, un impegno improrogabile mi ha impedito di partecipare alle esequie nella chiesa di Santa Maria della Passione in Milano. Sarebbe stato come tornare indietro di tanti anni riaprendo il bagaglio di sentimenti e ricordi mai sopiti.

Reminiscenze: anche i sciur hanno le loro debolezze e possono apparire tirchi, impegnati sempre a difendere anche nelle piccole cose il loro patrimonio. Eravamo a Napoli per partecipare a un convegno organizzato per l’Unione Italiana Ciechi. Eravamo giunti all’hotel aiutandoci reciprocamente, un dipendente ci accompagna nelle nostre camere con i relativi bagagli, il sciur dà la mancia, richiedendomi poco dopo la mia parte.

Apro e consulto il mio Bulova sono le 4 e 45.
Maurizio Galimberti, 1915 – 1993, gli ho voluto bene.

Le “Lettere inedite di Louis Braille”, di Emanuele Rapisarda

Autore: Emanuele Rapisarda

Alcune lettere della corrispondenza privata di Braille sono state recentemente scoperte per noi italiani dal Prof. Gianluca Rapisarda negli archivi dell’Institut National des Jeunes Aveugles di Parigi (2011). Nello stesso anno, lo scrivente ne ha curato la traduzione in italiano per conto dell’Università di Catania (Edizione Bonanno).
Nel 2009 l’Institut National des jeunes aveugles, allora diretto da Gérard Gonzalez, ha pubblicato, grazie all’interessamento dell’archivista Zoubeïda Moulfi, la trascrizione, in duecento esemplari, dei facsimili di alcune lettere di Louis Braille e del fratello Louis-Simon scritte di proprio pugno, dettate a uno scrivano o scritte al rafigrafo. La scoperta di queste lettere veniva a colmare una lacuna già ravvisata dal maggiore biografo di Braille, Pierre Henri, che nel 1952 sottolineava come l’assenza di corrispondenza privata aveva fino ad allora impedito l’approfondimento della personalità del personaggio. Queste lettere, quindi, hanno gettato nuova luce su Braille e, come tali, diventano un documento essenziale per tutti coloro che si interessano alla storia dei ciechi e alla loro condizione nelle società del passato.
Ora, grazie alla traduzione di cui sopra, anche noi Italiani abbiamo avuto finalmente l’opportunità di ricavare un’immagine nuova, più intima di Louis Braille, che, senza togliere niente alla sua inestimabile e preziosa attività svolta a favore dei non vedenti, ci fa conoscere un Braille un po’ meno simbolo ed emblema, ma un po’ più uomo in carne ed ossa.
Questo volume è nato dalla collaborazione fra l’Istituto per ciechi “Ardizzone Gioeni” di Catania, l’Institut National des Jeunes Aveugles di Parigi ed il Centro di Studi Storici sulla Disabilità’ di Catania ed ha inaugurato anche la prima Collana dedicata interamente agli studi storici sulla disabilità. Se, infatti, ormai consolidati sono gli studi sul mondo dei poveri e dei marginali, ancora pochi sono gli studiosi che hanno lavorato sulla disabilità e sulla cecità in particolare. Con questa pubblicazione, realizzata anche in Braille e su supporto audio, si è inteso quindi da un lato cominciare a fornire un contributo a un filone della ricerca storica finora, soprattutto in Italia, fin troppo esiguo, dall’altro permettere, anche ai non vedenti, una maggiore conoscenza e comprensione storica della condizione dei disabili che “furono”.
Tali “Lettere inedite” si possono sostanzialmente dividere in tre gruppi: le lettere scritte di proprio pugno dallo stesso Braille tra il 26 agosto 1831 ed il 1 ottobre 1835; quelle dettate a degli scrivani tra il 2 gennaio 1832 ed il 2 ottobre 1833; quelle scritte al raffigrafo da Braille tra il 14 giugno 1842 ed il 25 febbraio 1851.
Le epistole scritte di proprio pugno dallo stesso Louis Braille sono dieci e sono indirizzate tutte al Direttore dell’Institut, Monsieur Pignier. Ognuna di esse fu scritta dalla cittadina natale di Coupvray nel periodo compreso tra i mesi di agosto ed ottobre, quando Braille si recava per trascorrere le vacanze dopo la fine dell’anno scolastico e per rimettersi in salute. Da questi documenti si palesa la devozione e l’amicizia del giovane Braille per il suo direttore, al quale il mittente si rivolgeva con rispetto (le lettere si chiudevano quasi sempre con la formula «mi onoro di essere il suo rispettoso ed affezionato allievo»).
Le epistole evidenziano, inoltre, il grande attaccamento di Braille per la sua famiglia e un rapporto ambivalente con il suo luogo di nascita. Nell’agosto del 1831, ad esempio, scriverà: «a Coupvray mi ritornano tristi ricordi ai quali non posso sottrarmi», ma già due mesi dopo non esita a comunicare che «la campagna è il mio unico luogo specifico» o ancora, due anni dopo parla dei «piaceri della campagna durante le belle giornate d’autunno». Il desiderio di Parigi resta comunque forte: «occorre che la mia famiglia e la mia salute mi siano molto care per resistere al desiderio che avevo di ritornare a Parigi» scrive infatti il 29 settembre del 1834.
Una grande attenzione veniva dedicata alla sua salute e a quella degli altri. Il 2 ottobre del 1831 scriveva a Pignier: «innanzitutto vivere, poi lavorare: la salute è un tesoro di cui non conosciamo il prezzo fino a quando non la perdiamo» e, ancora due anni dopo, il 22 ottobre 1833: «Bodoin è probabilmente ancora come me, ahimè. Poveri ragazzi che siamo, non avremo questa felicità. Quanto a me, non soffro tanto quanto altri della nostra infermità, ma essa non ne è meno grande». Collegata a ciò è la profonda religiosità dell’autore («era quello che mi ero proposto, ma l’uomo ordina e Dio dispone» scrive il 26 agosto del 1831).
Braille, poi, con estremo riserbo, tradisce una certa stima e considerazione per la sorella di Pignier. Presenta infatti i suoi rispetti ed i suoi garbati saluti alla donna praticamente in ogni sua lettera manoscritta ed in una di esse, in quella del 22 ottobre 1833 scrive: «spero di passare piacevolmente ed utilmente il nostro prossimo anno scolastico, soprattutto approfittando della compiacenza della sua buona sorella che mi ha promesso di aiutarmi nei miei studi».
Non manca poi anche di un certo senso dell’umorismo e di una certa impertinenza. Dirà l’11 ottobre 1831: «sono già quindici giorni che non ho avuto l’onore di avere sue notizie. Se volessi fare dello spirito insipido, le direi che sono persuaso che mi abbia scritto e che bisogna anche che reclami la sua lettera alla posta»; o il 20 settembre del 1831: «ho dimenticato di parlarle, prima della mia partenza, di Roustant che potrebbe essere ammesso alla classe superiore se lei lo giudica opportuno. Non mi dica: accidenti a te, chiudi la bocca. Ancora una parola e finisco per parlarle dell’ammissione dei nuovi retori alla classe di storia».
Dalle lettere si evince anche una personalità poliedrica, piena di interessi e premurosa con gli allievi e gli amici (11 ottobre 1831: «mi fanno delle letture, accordo pianoforti, gioco a carte e a scacchi e sto bene”, o il 22 ottobre del 1833 «dò delle lezioni di canto») e il 22 ottobre 1833: «fra otto giorni sarò…fra i miei compagni che mi hanno provato così bene la loro amicizia».
Le otto lettere dettate da Braille ad uno scrivano pubblico tra il 1832 ed il 1833, oltre a confermarci alcuni aspetti già evidenziati (la stima per Pignier, l’interesse per la sorella, la nostalgia dei compagni) ci rivelano altri aspetti della personalità di Braille. In particolare, da questo gruppo di lettere emerge una certa malinconia ed un desiderio di solitudine. Detterà a Coupvray il 23 settembre 1833: «leggo quando scende la nebbia ed il resto del tempo vado nei campi. Evito anche di trovarmi in società per non parlare molto».
Alcune lettere ci informano, poi, su una vicenda che caratterizzò la vita di Braille nel suo soggiorno a Coupvray del 1832: la possibilità, poi fallita, di diventare organista della città di Meaux, capoluogo del dipartimento dove è situata Coupvray. E’ lo stesso Braille che riferisce di questa sua opportunità ed ambizione. A tal proposito, a Lagny, il 6 settembre 1832, dettò una lettera in cui informava Pignier che l’organista di Meaux era morto la settimana precedente. Nelle successive lettere riguardanti quest’affare Braille informerà delle motivazioni che lo porteranno a rinunciare a quell’incarico da cui si evince tutta la sua sagacia. Infatti, nella lettera dettata il 28 settembre 1832 da Meaux faceva scrivere: «il posto di organista è di 350 franchi, un accordatore di pianoforti ha l’intenzione di stabilirsi a Meaux e vi sono davvero poche cattedrali. Dal consiglio dei miei genitori e, conformemente alle sue buone intenzioni per me, ho detto a Monsignore l’abate Pelais che rinuncio al posto. Ho dimenticato di dire che la vita è diventata cara a Meaux…». Il 18 ottobre dello stesso anno, poi, dettava: «permetta, signore, che osi di correggere l’errore del mio precedente scrivano, pregandola di dire ai miei compagni l’esito del mio affare di Meaux perché è giusto che lo conoscano poichè hanno fatto dei voti e dei sacrifici per farlo riuscire; mi parlano ogni tanto ancora di quel posto e mi dicono che la principale fonte di guadagno consista nei balli dei borghesi, di conseguenza, bisogna spesso passare la notte fuori casa nei castelli vicini, condizioni che non possono combaciare con un posto in seminario, ma io ho rinunciato completamente a quel progetto» ed ancora il successivo 30 ottobre: «quello che più ci affligge è che i suoi sforzi e dei suoi amici siano diventati inutili…Tuttavia lei mi avrebbe preso per folle se avessi obbedito alla vanità che voleva farmi fare l’organista a qualunque costo. Quest’affare mancato mi sarà più propizio di quanto lei non pensi nell’Istituzione».
L’ultimo gruppo di lettere è costituito da quattro epistole scritte al raffigrafo da Braille per il caro Pignier.
Nella prima e nella seconda di esse, scritte il 14 giugno ed il 2 novembre 1842, Braille scrive di un ricevimento di un tale sig. Pasquier, per partecipare al quale, chiedeva a Pignier, con la consueta delicatezza ma anche con una certa insistenza, se gli poteva procurare due biglietti di accesso: ne vien fuori l’immagine di un Braille attratto anche da qualche piacere mondano.
Ma è la terza di tale gruppo finale di lettere che è particolarmente significativa. Essa fu scritta da Braille l’11 ottobre del 1844 a Chamalieres, dove egli si trovava in soggiorno durante i mesi di vacanza dall’Istituzione. In tale epistola, infatti, da un lato, possiamo avere delle conferme al piacere che gli dovevano procurare sia la campagna ed il sole di settembre, che facevano maturare l’uva e lo facevano stare bene, sia la musica, che in quel periodo egli suonava in un trio di pianoforte, voce e violoncello che elettrizzava il vicinato. D’altra parte, nella stessa lettera Braille riferiva pure della tristezza che gli metteva l’avvicinarsi della brutta stagione, che gli annebbiava l’orizzonte del futuro e avrebbe potuto impedirgli di realizzare al ritorno a Parigi il suo ardente desiderio di passare i pomeriggi dalla signorina Pignier, nonché della sua preoccupazione per le condizioni della sua povera madre, che non vedeva da tempo, e per la propria salute, ormai, purtroppo, sempre più instabile per l’aggravarsi della tubercolosi, che sebbene appariva migliorata per via del soggiorno in campagna, era sempre appesa ad un filo (scriveva: «è la corteccia e non l’albero stesso che è divenuta migliore»).
Vi sono, poi, all’interno di questo corpus di lettere, anche due epistole erroneamente attribuite a Louis Braille e che in realtà furono scritte da suo fratello maggiore Louis-Simon. Questi spedirà due missive a Pignier nel 1831: la prima il 30 maggio e la seconda il 3 giugno. Nella prima lo informa delle gravi condizioni di salute del padre e, a nome di quest’ultimo, lo ringrazia delle attenzioni riservate al fratello Louis, raccomandandosi a lui ed alla sorella affinché non abbandonino mai Louis. Nella seconda lettera, dopo il doloroso decesso del padre, parla di tale infausta notizia a Pignier, riferendogli che la partecipazione dello stesso e della sorella all’afflizione di tutta la famiglia Braille per la recente morte del padre era consolatrice. Dunque, non è difficile arguire il profondo legame affettivo reciproco esistente tra la famiglia Braille e i due Pignier, nonché il grande senso di gratitudine e riconoscenza che i familiari di Louis Braille provavano per il Direttore dell’Institution e la sorella per le loro benevole premure verso il loro sfortunato congiunto.
Il Louis Braille che è possibile desumere da queste lettere è una personalità ricca, per certi versi geniale, ma allo stesso tempo articolata: se da un lato l’immagine che se ne ricava è quella di un uomo colto, ricco di interessi e aperto al mondo circostante, dall’altro risulta evidente anche una certa sofferenza interiore derivata dalla sua condizione. Su questa personalità dovette sicuramente influire anche la nuova condizione dei ciechi nella società del tempo: se da un lato i non vedenti beneficiavano dei nuovi processi sociali e culturali che li riguardavano in prima persona, dall’altro doveva ancora completamente avviarsi la loro completa emancipazione. Di tutto ciò queste lettere, che ci restituiscono il clima del tempo e la personalità di Braille, ne sono una preziosa testimonianza.

Davide Cervellin, di Antonio Greco

Autore: Antonio Greco

Cervellin! Cervellin! Chi è costui? E’ vero; chi è costui. Si dice che è fuori dal tempo; invece è qualcuno che ha ancora la testa sulle spalle, al contrario di tanti altri che, o per emulazione o per illusoria convinzione o per scarsa competenza, sostengono ancora l’ integrazione scolastica, così come prolifica oggi. Si disse, a suo tempo, che non è bello che i bambini stiano lontani dai genitori; è vero anche questo; ma è vero anche che col mondo di oggi, coi mezzi rapidi di comunicazione è possibile raggiungere facilmente gli Istituti o dagli Istituti le famiglie. Però, se lo stare vicini li danneggia, è meglio stare in posti educativi e salutari. Non bisogna dimenticare che, specialmente in Inghilterra, le migliori famiglie iscrivono i propri figli nei migliori college del Regno. Si disse che finalmente si poteva socializzare col mondo dei vedenti e tante e tante altre illusioni realizzate nel futuro fino ad oggi.
Fumo al vento. Non mi prolungo a dire ciò che ancora si decantò; mi fermo, invece, a ciò che erano gli Istituti per i ciechi e a ciò che è l’integrazione oggi.
Chissà quanti, come me, si ricordano della vita che pullulava negli Istituti, salvo qualche caso sporadico o qualche neo, come ascoltare la messa ogni mattina, ma quelli erano i tempi. Negli Istituti si apprendeva un po’ di tutto; basta ricordare la vita che si svolgeva nell’Istituto per ciechi di Lecce: ci si levava la mattina, si andava a messa, a colazione e poi in classe.
Pomeriggio.
Dopo il pranzo delle 12,30, ricreazione fino alle 15. Dalle 15 fino alle ore otto, un’ora di pianoforte; un’ora di lavoro che consisteva nell’apprendere ad impagliare sedie normali; sedie di Vienna; stuoie e tappeti; lavoro in vimini per cestini di qualsiasi formato; divani in vimini eleganti e meno; lavori in legno e fil di ferro e altre primizie. Dalle ore 17,00 alle 19,00, in classe per letture amene e la preparazione dei compiti per il domani. Si usciva dalla classe e ci si recava in chiesa per suffragare i defunti più cari. Alle ore 20,00 la cena, mezz’ora di ricreazione e poi a letto.
Il sabato pomeriggio e la domenica ci si divertiva in tanti modi. Si giocava al calcio, prima con lattine, poi col vero pallone coi sonagli. Ma non era solo questo: si inventavano tanti altri giochi che, non solo avevano il fine di divertire, ma anche di educare. Giochi di orientamento, di localizzazione ed esercizi mentali che la facevano da padrone. Per esempio: Tra ragazzi più portati alla musica, si creavano cori di ogni genere. I ragazzi più disinvolti e autonomi inventavano altri giochi che non erano adatti per tutti: due ragazzi andavano nel dormitorio, si impossessavano di un cuscino e, dispostisi alla distanza tra tre letti o quattro, si lanciavano il cuscino l’un l’altro: la bravura consisteva nel riuscire ad afferrarlo al volo mentre arrivava; e chi non riusciva, andava giù di un punto. Altro gioco, fatto sempre tra due ragazzi, consisteva nel disporsi in un corridoio lungo dai 10 ai 15 metri e lanciare coi piedi reciprocamente una latta schiacciata, e con gli stessi piedi riuscire a bloccarla. in una sala veniva collocato in un angolo un cestino vuoto. Si costruiva una pallottola di carta e dall’angolo opposto la si lanciava, cercando di indovinare il cestino come bersaglio. Non mancava il gioco della “palla artificiale”: si realizzava scegliendo un ragazzo bassino, tondeggiante per palla. Due squadre di tre o quattro ragazzi contrapposte si disponevano in un campo di circa 40 o 50 mq e si contendevano la “palla” che, spesso, andava a finire in un posto non rilevato; allora era la stessa “palla” ad esclamare: “son qui! Son qui”.
Sorvoliamo tutto il resto e passiamo al secondo punto: il lavoro.
Dall’istituto di Lecce ogni anno si licenziavano tre categorie di allievi: avviamento al lavoro per Firenze; avviamento allo studio del pianoforte per Bologna; avviamento per gli studi letterari a Bologna. Ne uscivano grandi personaggi, sia nel campo della musica che in quello letterario, e i ciechi vivevano agiatamente. Si arrivava alla laurea o ai diplomi senza nemmeno l’ombra di insegnanti di sostegno. La preparazione che dava l’Istituto rendeva autonomi e capaci gli studenti di ogni genere. Anche oggi i ciechi vivono agiatamente, ma per ragioni differenti. Ora analizziamo i due mondi opposti: Istituti e integrazione scolastica.
Abbiamo esaminato la bontà degli Istituti; ora esaminiamo i disastri della legge dell’integrazione scolastica.
Escluso qualche centro più grande, la frequenza scolastica è un disastro. Conosciamo abbastanza bene la situazione degli insegnanti di sostegno; è inutile parlarne. Parliamo d’altro.
In genere i vedenti, se non ci conoscono da vicino, ci immaginano come poveri disgraziati, per cui, se un cieco nella scuola fa qualcosa ritenuta degna di lode, gridano al miracolo, e allora li valutano con buoni giudizi. Basterebbe che io vi raccontassi una mia esperienza e ve la racconto:.
Sono un ex docente di filosofia, pedagogia e psicologia nell’Istituto Magistrale st. di Maglie. Provengo dal classico. Venni convocato dalla preside del liceo-ginnasio di Martano per aiutare un ragazzo iscritto al quarto ginnasio. All’inizio lo assistevo in classe; ma non era il luogo adatto perché si creava disturbo tra il docente e me che cercavo di spiegare alla meglio al ragazzo. La classe veniva distratta e non potevo intervenire come sarebbe convenuto. Chiesi di poterlo seguire a domicilio e mi fu concesso. Quando cominciai ad assaggiare la preparazione di questo studente, misi le mani nei capelli: scriveva con la dattilobraille; non sapeva dividere le parole in sillabe; la S impura ad una riga e il rimanente nell’altra. A malapena conosceva il braille; cercai di saggiarlo in geografia: gli chiesi, su una carta geografica dell’Italia, di indicarmi la posizione di Lecce; dopo strisciate, mi indicò la punta più occidentale della Sicilia. Non conosceva l’alfabeto del greco classico, e dopo tre mesi di pietosa assistenza, dovetti abbassare la guardia: dissi alla preside che gli facesse cambiare indirizzo scolastico, ma non fui ascoltato. Seppi dopo che lo avevano iscritto al ginnasio per mancanza di numero degli alunni, per cui si rischiava di perdere una classe.
Questo è l’andamento dell’integrazione scolastica in tutta Italia. Non ci facciamo illusioni. Nei grandi centri, Milano, Roma, Napoli, Palermo ed altri centri, lì la vita è un po’ differente, perché il numero dei non vedenti è in grado di incontrarsi e di vivere diversamente dai ciechi dei piccoli centri; anche perché è più facile che siano aiutati dalle associazioni di categoria. I ciechi devono stare insieme, perché così si trovano più a loro agio; prova ne sia il centro delle vacanze a Tirrenia. Molti ciechi preferiscono trascorrere le vacanze in quel posto che altrove, perché hanno la possibilità di meglio svagarsi e divertirsi. Io ho appreso l’uso del computer per l’80 per cento dagli amici non vedenti. La possibilità di stare insieme garantisce scambi di esperienze, di cultura ed altro. Ecco perché l’integrazione è risultata un fallimento, e non capisco ancora perché grandi geni dell’uici e di altre associazioni sostengano ancora l’infelice integrazione scolastica. Son passati quassi quaranta anni dalla legge dell’integrazione scolastica e, se non si cambia registro, ne passeranno altrettanti. Dovranno provvedere i governi che fin ad oggi hanno sonnecchiato, lasciando i non vedenti allo sbaraglio. A quando si provvederà ad una degna scuola di metodo per insegnanti di sostegno? A quando si provvederà a diffondere nelle scuole l’insegnamento della musica in braille? Quando si cercherà di creare, almeno in ogni provincia, attività manuali per fanciulli e ragazzi che vengono alla vita? Mi piacerebbe conoscere risposte sagge a queste tre domande principali. Qualche timido tentativo di ritorno alle scuole speciali si scorge, come a Brescia e a Padova, ma è ancora una goccia nella sabbia. In passato abbiamo avuto celebri concertisti, celebri letterati, celebri lavoratori. Oggi dove stanno i musicisti? Di laureati abbiamo sempre meno. Allora qual è il miracolo della scuola integrata? Non sono certo i tiflopedagogisti o tiflodidattici se devono essere sparsi nei paesini di tutta Italia, ma, per me, l’unico toccasana sono le scuole speciali negli Istituti di una volta, dove ogni tiflop e tiflod può essere impegnato nell’opera educativa non solo per uno o due o tre educandi, ma per dieci, venti ed oltre; solo così si potrà tornare agli splendori di cinquanta anni fa.
Ecco perché, per me Davide non è cervellin, ma Cervellon.
Antonio Greco

Ophelia’s friends on air

Si segnala una interessante iniziativa di una scrittrice lucana.

OPHELIA’S FRIENDS ON AIR una trasmissione radiofonica di carattere letterario, ideata e condotta da Stefania Romito che va in onda ogni martedì su Web Radio Network alle ore 17 http://webradionetwork.eu/ e tutte le domeniche su Radio Punto alle ore 13 (dopo il notiziario) http://www.radiopunto.it/. Sono entrambe emittenti che vanno in onda sia in FM che via web.

La trasmissione è suddivisa in tre parti. Le prime due sono dedicate agli scrittori del  gruppo letterario di Facebook “Ophelia’s friends” (che conta più di 1700 iscritti https://www.facebook.com/groups/716878585107500/?fref=ts), mentre l’ultima parte è destinata a Ophelia, l’enigmatica protagonista del suo romanzo thriller a puntate dal titolo “Ophelia, le vite di una ghost writer”. In quest’ultima parte del programma (che dura circa 15 minuti) la conduttrice leggerà di volta in volta un brano come una sorta di sceneggiato radiofonico. Al fine di rendere l’ascolto degli episodi il più accattivante possibile, sono stati inseriti anche dei suggestivi effetti sonori e coinvolgenti brani musicali.
Brevi cenni sul personaggio:
Ophelia Moris è una ghost writer, giovane e bellissima, molto ambita dalle celebrità di tutto il mondo. Il suo brillante intuito e la sua innata curiosità la portano puntualmente a indossare i panni della confidente e della detective, trasformando ogni ingaggio in un’avventura dai risvolti sconcertanti. Vicende scabrose, segreti inconfessabili, delitti impuniti emergono prepotentemente dal passato e la pongono ogni volta di fronte al dilemma se sia il caso di far scoppiare lo scandalo oppure no. Apparentemente sicura di sé, Ophelia nasconde nel suo intimo un profondo disagio causato da un trauma infantile rimosso che emergerà in maniera frammentata durante i vari episodi, dando vita a un’escalation di emozioni contrastanti che genereranno in lei ansia e turbamento e che troveranno, nella rivelazione finale, un inaspettato momento catartico. Puntata dopo puntata verrà alla luce la sua sfaccettata personalità e la sua storia personale intrisa di mistero e traumi rimossi che riaffiorano da un oscuro passato.

Verso l’emancipazione socio-culturale, di Cesare Barca

Autore: Cesare Barca

Vedere ad occhi chiusi

Non intendiamo proporre soluzioni magiche. Vogliamo semplicemente cercare di far comprendere con assoluta chiarezza come i ciechi e gli ipovedenti possano accedere ad una valida formazione culturale attraverso la scrittura e la lettura grazie all’utilizzo semplice e funzionale del metodo Braille. Si tratta di un codice estremamente razionale ideato dal giovane francese Louis Braille nella prima metà del secolo XIX che si basa sull’utilizzo di 6 punti che, variamente combinati con criteri di assoluta semplicità, danno luogo a 64 segni utili per la lettura, la scrittura, il calcolo e la composizione musicale.
Perciò il metodo, per la sua razionale semplicità, consente di essere utilizzato in qualsiasi lingua e ha condotto alla nascita di vere e proprie biblioteche indispensabili per le persone con disabilità visiva.
L’invenzione ha acceso in tutto il mondo una luce rigenerante permettendo l’inclusione scolastica e dei ragazzi ciechi e ipovedenti, ha spalancato le finestre ad un raggio di sole rivitalizzante.
Il nostro Parlamento, con Legge n. 126 del 3 agosto 2007 ha fissato al 21 febbraio di ogni anno la celebrazione della Giornata Nazionale del Braille conformemente alla convenzione delle Nazioni unite per l’integrazione sociale, scolastica e lavorativa per quanti sono affetti da disabilità visiva.
Le nuove tecnologie vengono sempre più a colmare gli svantaggi di chi non vede senza escludere l’alfabeto braille, ma piuttosto integrandosi nel facilitare e promuovere la conquista indispensabile dell’autonomia personale e la possibilità di conquistare gli approfondimenti culturali che conducono una sempre maggior integrazione.
Il senso del tatto, pertanto, è divenuto fondamentale per consentire anche ai ciechi l’accesso all’autonomia personale ed è stato quindi possibile introdurre segnali tattili sull’utilizzo di molti servizi e, in particolare, sui farmaci e sulla corretta conoscenza del valore dell’euro. È proprio per questa attenzione sociale che l’Unione italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Verona desidera ringraziare la banca d’Italia che, in numerose occasioni, si è prodigata per far conoscere il corretto utilizzo delle banconote

Proprio per celebrare questa giornata “di luce” sarà ancora la nostra sede veronese della Banca d’Italia che lunedì 22 alle ore 9,30 offrirà la presentazione ai disabili visivi e ai cittadini attenti alla promozione delle tematiche sociali, le nuove banconote da 20 euro perfettamente riconoscibili anche attraverso gli sviluppi integrativi del metodo Braille.
La strada che stiamo percorrendo è ancora in salita, ma non ci lasceremo sorprendere da nessuna stanchezza dal momento che il percorso non è più affrontato in solitudine.

Cesare Barca

Lettera al Direttore, di Mario Censabella

Un amico di indubbia saccenza ma un poco… reprobo, permeato di una fede cattolica condizionata dai propri convincimenti, mi suggerisce quasi perentoriamente, di rivolgermi al Presidente nazionale dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti Mario Barbuto affinché attraverso le proprie potenzialità abbia a realizzare un documentario sulla vita di Louis Braille, che ripercorra tutta la sua storia dall’infortunio che lo ha reso cieco comprese tutte le sottolineature di una vita nella quale la sofferenza e… l’incomprensione gli hanno resa dura l’esistenza prima che la sua invenzione potesse essere acquisita e diffusa nel mondo.
Il travaglio e le angosce hanno minato profondamente la salute di Braille tanto da non permettergli di vivere oltre i 40 anni.
Quel mio amico avrebbe un’altra pretesa, questa volta è quasi un paradosso, cioè che vi fosse qualcuno che intraprendesse presso Papa Francesco un processo di beatificazione per Louis Braille di Coupvray: i miracoli, la salute e l’equilibrio di milioni di ciechi che attraverso l’alfabeto braille hanno sconfitto la ciechitudine conquistando nel mondo equilibrio e dignità. In francese Saint Louise Braille de Coupvray? Perché no?

 
Risposta del Presidente Nazionale Mario Barbuto

Caro Mario, caro Cavaliere,
a quel tuo amico tanto fervido di idee e di proposte, potresti intanto far sapere quanto ti scrivo qui di seguito.
L’idea del documentario è molto accattivante, ma ne esiste già uno bellissimo, realizzato qualche anno fa dall’Istituto Cavazza che forse il tuo amico potrebbe visionare per vedere se soddisfa le sue aspettative.

Quanto a Papa Francesco, mi spiace molto per il nostro Louis Braille, ma io mi sono già permesso di disturbarlo per un’altra causa, per me, ancora più importante. Gli ho chiesto, mentre ci tenevamo in un abbraccio, di pregare per la nostra Unione.
Sai, non vorrei abusare della Sua pazienza con un sovraccarico di raccomandazioni.

Mario Barbuto

“Speciali ringraziamenti”, di Patrizia Onori

Autore: Patrizia Onori

Quando ho inviato il racconto che ho intitolato “La mia rinascita” con il quale ho descritto la mia esperienza di vita, l’ho fatto con l’intento di inviare a tutti un messaggio di positività, non credevo affatto di ricevere così tanti apprezzamenti, non sapevo che un racconto così semplice e lineare potesse suscitare negli altri qualcosa di così bello e notevolmente interessante.
Ho saputo inoltre che il messaggio ha portato tanto coraggio e speranza ad alcune persone che stanno vivendo momenti difficili, questo mi fa sentire bene poiché ho sempre avuto un pensiero speciale per coloro che soffrono e che sono in difficoltà.
Come posso non ringraziarvi per aver letto il mio racconto e per averlo così largamente apprezzato?
Ringrazio tutti voi e ringrazio la vita, poiché nonostante a volte mi abbia riservato momenti bui, mi ha regalato anche momenti di intensa gioia e di intensa felicità.
Infatti, credo che nella vita bisogna sempre trovare un motivo di gioia e di soddisfazione, nonostante a volte il solo essere se stessi comporta un’importante battaglia.
Anche se devo ammettere che vivo un po’ fra fantasia e realtà, mi sento assolutamente di affermare di vivere in uno straordinario miracolo, la vita!
Spesso non ci rendiamo conto di avere tanti amici e tante persone che ci stimano e ci amano, mi sono invece resa conto di avere tante persone amiche che con questo mio racconto hanno unicamente apprezzato la mia semplicità condividendo la mia esperienza.
Grazie per ogni messaggio affettuoso che mi avete inviato.

Patrizia Onori