Davide Cervellin, di Antonio Greco

Autore: Antonio Greco

Cervellin! Cervellin! Chi è costui? E’ vero; chi è costui. Si dice che è fuori dal tempo; invece è qualcuno che ha ancora la testa sulle spalle, al contrario di tanti altri che, o per emulazione o per illusoria convinzione o per scarsa competenza, sostengono ancora l’ integrazione scolastica, così come prolifica oggi. Si disse, a suo tempo, che non è bello che i bambini stiano lontani dai genitori; è vero anche questo; ma è vero anche che col mondo di oggi, coi mezzi rapidi di comunicazione è possibile raggiungere facilmente gli Istituti o dagli Istituti le famiglie. Però, se lo stare vicini li danneggia, è meglio stare in posti educativi e salutari. Non bisogna dimenticare che, specialmente in Inghilterra, le migliori famiglie iscrivono i propri figli nei migliori college del Regno. Si disse che finalmente si poteva socializzare col mondo dei vedenti e tante e tante altre illusioni realizzate nel futuro fino ad oggi.
Fumo al vento. Non mi prolungo a dire ciò che ancora si decantò; mi fermo, invece, a ciò che erano gli Istituti per i ciechi e a ciò che è l’integrazione oggi.
Chissà quanti, come me, si ricordano della vita che pullulava negli Istituti, salvo qualche caso sporadico o qualche neo, come ascoltare la messa ogni mattina, ma quelli erano i tempi. Negli Istituti si apprendeva un po’ di tutto; basta ricordare la vita che si svolgeva nell’Istituto per ciechi di Lecce: ci si levava la mattina, si andava a messa, a colazione e poi in classe.
Pomeriggio.
Dopo il pranzo delle 12,30, ricreazione fino alle 15. Dalle 15 fino alle ore otto, un’ora di pianoforte; un’ora di lavoro che consisteva nell’apprendere ad impagliare sedie normali; sedie di Vienna; stuoie e tappeti; lavoro in vimini per cestini di qualsiasi formato; divani in vimini eleganti e meno; lavori in legno e fil di ferro e altre primizie. Dalle ore 17,00 alle 19,00, in classe per letture amene e la preparazione dei compiti per il domani. Si usciva dalla classe e ci si recava in chiesa per suffragare i defunti più cari. Alle ore 20,00 la cena, mezz’ora di ricreazione e poi a letto.
Il sabato pomeriggio e la domenica ci si divertiva in tanti modi. Si giocava al calcio, prima con lattine, poi col vero pallone coi sonagli. Ma non era solo questo: si inventavano tanti altri giochi che, non solo avevano il fine di divertire, ma anche di educare. Giochi di orientamento, di localizzazione ed esercizi mentali che la facevano da padrone. Per esempio: Tra ragazzi più portati alla musica, si creavano cori di ogni genere. I ragazzi più disinvolti e autonomi inventavano altri giochi che non erano adatti per tutti: due ragazzi andavano nel dormitorio, si impossessavano di un cuscino e, dispostisi alla distanza tra tre letti o quattro, si lanciavano il cuscino l’un l’altro: la bravura consisteva nel riuscire ad afferrarlo al volo mentre arrivava; e chi non riusciva, andava giù di un punto. Altro gioco, fatto sempre tra due ragazzi, consisteva nel disporsi in un corridoio lungo dai 10 ai 15 metri e lanciare coi piedi reciprocamente una latta schiacciata, e con gli stessi piedi riuscire a bloccarla. in una sala veniva collocato in un angolo un cestino vuoto. Si costruiva una pallottola di carta e dall’angolo opposto la si lanciava, cercando di indovinare il cestino come bersaglio. Non mancava il gioco della “palla artificiale”: si realizzava scegliendo un ragazzo bassino, tondeggiante per palla. Due squadre di tre o quattro ragazzi contrapposte si disponevano in un campo di circa 40 o 50 mq e si contendevano la “palla” che, spesso, andava a finire in un posto non rilevato; allora era la stessa “palla” ad esclamare: “son qui! Son qui”.
Sorvoliamo tutto il resto e passiamo al secondo punto: il lavoro.
Dall’istituto di Lecce ogni anno si licenziavano tre categorie di allievi: avviamento al lavoro per Firenze; avviamento allo studio del pianoforte per Bologna; avviamento per gli studi letterari a Bologna. Ne uscivano grandi personaggi, sia nel campo della musica che in quello letterario, e i ciechi vivevano agiatamente. Si arrivava alla laurea o ai diplomi senza nemmeno l’ombra di insegnanti di sostegno. La preparazione che dava l’Istituto rendeva autonomi e capaci gli studenti di ogni genere. Anche oggi i ciechi vivono agiatamente, ma per ragioni differenti. Ora analizziamo i due mondi opposti: Istituti e integrazione scolastica.
Abbiamo esaminato la bontà degli Istituti; ora esaminiamo i disastri della legge dell’integrazione scolastica.
Escluso qualche centro più grande, la frequenza scolastica è un disastro. Conosciamo abbastanza bene la situazione degli insegnanti di sostegno; è inutile parlarne. Parliamo d’altro.
In genere i vedenti, se non ci conoscono da vicino, ci immaginano come poveri disgraziati, per cui, se un cieco nella scuola fa qualcosa ritenuta degna di lode, gridano al miracolo, e allora li valutano con buoni giudizi. Basterebbe che io vi raccontassi una mia esperienza e ve la racconto:.
Sono un ex docente di filosofia, pedagogia e psicologia nell’Istituto Magistrale st. di Maglie. Provengo dal classico. Venni convocato dalla preside del liceo-ginnasio di Martano per aiutare un ragazzo iscritto al quarto ginnasio. All’inizio lo assistevo in classe; ma non era il luogo adatto perché si creava disturbo tra il docente e me che cercavo di spiegare alla meglio al ragazzo. La classe veniva distratta e non potevo intervenire come sarebbe convenuto. Chiesi di poterlo seguire a domicilio e mi fu concesso. Quando cominciai ad assaggiare la preparazione di questo studente, misi le mani nei capelli: scriveva con la dattilobraille; non sapeva dividere le parole in sillabe; la S impura ad una riga e il rimanente nell’altra. A malapena conosceva il braille; cercai di saggiarlo in geografia: gli chiesi, su una carta geografica dell’Italia, di indicarmi la posizione di Lecce; dopo strisciate, mi indicò la punta più occidentale della Sicilia. Non conosceva l’alfabeto del greco classico, e dopo tre mesi di pietosa assistenza, dovetti abbassare la guardia: dissi alla preside che gli facesse cambiare indirizzo scolastico, ma non fui ascoltato. Seppi dopo che lo avevano iscritto al ginnasio per mancanza di numero degli alunni, per cui si rischiava di perdere una classe.
Questo è l’andamento dell’integrazione scolastica in tutta Italia. Non ci facciamo illusioni. Nei grandi centri, Milano, Roma, Napoli, Palermo ed altri centri, lì la vita è un po’ differente, perché il numero dei non vedenti è in grado di incontrarsi e di vivere diversamente dai ciechi dei piccoli centri; anche perché è più facile che siano aiutati dalle associazioni di categoria. I ciechi devono stare insieme, perché così si trovano più a loro agio; prova ne sia il centro delle vacanze a Tirrenia. Molti ciechi preferiscono trascorrere le vacanze in quel posto che altrove, perché hanno la possibilità di meglio svagarsi e divertirsi. Io ho appreso l’uso del computer per l’80 per cento dagli amici non vedenti. La possibilità di stare insieme garantisce scambi di esperienze, di cultura ed altro. Ecco perché l’integrazione è risultata un fallimento, e non capisco ancora perché grandi geni dell’uici e di altre associazioni sostengano ancora l’infelice integrazione scolastica. Son passati quassi quaranta anni dalla legge dell’integrazione scolastica e, se non si cambia registro, ne passeranno altrettanti. Dovranno provvedere i governi che fin ad oggi hanno sonnecchiato, lasciando i non vedenti allo sbaraglio. A quando si provvederà ad una degna scuola di metodo per insegnanti di sostegno? A quando si provvederà a diffondere nelle scuole l’insegnamento della musica in braille? Quando si cercherà di creare, almeno in ogni provincia, attività manuali per fanciulli e ragazzi che vengono alla vita? Mi piacerebbe conoscere risposte sagge a queste tre domande principali. Qualche timido tentativo di ritorno alle scuole speciali si scorge, come a Brescia e a Padova, ma è ancora una goccia nella sabbia. In passato abbiamo avuto celebri concertisti, celebri letterati, celebri lavoratori. Oggi dove stanno i musicisti? Di laureati abbiamo sempre meno. Allora qual è il miracolo della scuola integrata? Non sono certo i tiflopedagogisti o tiflodidattici se devono essere sparsi nei paesini di tutta Italia, ma, per me, l’unico toccasana sono le scuole speciali negli Istituti di una volta, dove ogni tiflop e tiflod può essere impegnato nell’opera educativa non solo per uno o due o tre educandi, ma per dieci, venti ed oltre; solo così si potrà tornare agli splendori di cinquanta anni fa.
Ecco perché, per me Davide non è cervellin, ma Cervellon.
Antonio Greco