Autore: Pierfrancesco Greco
L’antica residenza ducale del borgo delle Serre ha fatto, ieri sera, da proscenio al “Don Giovanni”, proposto, con la regia di Katia Ricciarelli ed Enzo Dimatteo, in un allestimento accattivante, prodotto, inerentemente al cartellone di “Basilicata Opere in Atto”, dalla Camerata delle Arti, che ha esaltato un’azione teatrale e musicale di livello assoluto, sostenuta dall’Orchestra del Cerisano Opera Festival e dai solisti del progetto Opera Studio 2.0, i quali, diretti dal Maestro Direttore e Concertatore Francesco Zingariello, hanno saputo porre in evidenza la sublime universalità artistica e psicologica di un’Opera senza tempo. Stasera, alle ore 21, la replica.
L’ombra argentea
aspersa dalla metà assolata dell’astro lunare già tergeva gli angoli tufacei
del maniero e l’eco delle luci del tramonto indugiava ancora a scivolar lungo
la volta del crepuscolo, che andava insinuandosi tra i merli sovrastanti la
sublime ribalta del Cortile, a cui l’ivi incastonato Pozzo del ducale Palazzo
di Cerisano, che vi si avviluppa attorno, fa da diadema, quando le prime note
dell’ouverture del “Don Giovanni” di Wolfgang Amadeus Mozart hanno fatto
irruzione tra i sensi e i volti della platea, adagiata sul secolare selciato,
afferrandone tosto l’attenzione; una fresca notte d’estate ha così assunto
nuovi colori, quelli che solo l’animo può vedere, i medesimi che il genio di
Mozart sa miscelare, trovando splendida sintesi nella seconda delle tre opere
“italiane” più famose scolpite dal prodigio salisburghese sul pentagramma, da
egli stupendamente modellato fra i versi vergati dal prestigioso librettista Lorenzo
Da Ponte, il quale, oltre che per il “Don Giovanni”, la cui prima
rappresentazione ebbe luogo a Praga, nell’ottobre del 1787, pose la sua vis
poetica a disposizione di Mozart anche afferentemente alle altre sue due opere
connotate dalla nostra lingua madre, quali “Le nozze di Figaro”, terminata nel
1786, e “Così fan tutte”, andata in scena all’inizio del 1790. Una creazione,
il “Don Giovanni”, ove l’opera buffa palesa tratti propri dell’opera seria, in
un continuo, avvolgente e ricorrente intreccio di vita e morte, riflessione e
pulsione, sentimento e lussuria, amore e odio, tenerezza e vendetta, moralità e
licenziosità, commedia e dramma, a cui l’ispirazione musicale mozartiana, con il
suo stile, i suoi ritmi, i suoi accordi, i suoi vocalizzi, le sue coloriture,
dona corpo, forza, energia, in un’apoteosi emotiva veicolante la tensione
traente vigore dai contrasti che solcano la vicenda e la psicologia delle
figure, straordinariamente narrate da melodie e armonie, tra arie celebri ed
espressivi recitativi, da cui si staglia potentemente un abbandono alla
bellezza estrema, debordante, anche violenta, destinata, in ultima analisi, a
fagocitare, fino alle estreme conseguenze, l’anarchica, smisurata e
individualistica sensualità del nobile e dissoluto protagonista, in un finale
tragico e, nel contempo, eroico, che si presta a diverse letture, sia
valoriali, andanti oltre le evidenti sfumature critiche di stampo “politico” e la
mera accezione moralizzatrice dell’opera, con i sentimenti di ribellione che si
manifestano sul palcoscenico contro il potente Don Giovanni, empio e prevaricatore,
che termina la sua parabola nella punizione inflittagli, relativamente al caso
in questione, da un’entità ultraterrena, e tracimanti, con ogni probabilità al
di là delle intenzioni dell’accorto librettista e del divino compositore,
persino nel campo del libero pensiero, ridestato, all’epoca di Mozart, dalla
cultura illuminista, trovante spazio, come si dirà più avanti, nella
personalità sincretica di Don Giovanni, sia artistiche, focalizzate sul
carattere innovativo dell’opera, che valica i canoni del tempo, risolvendosi in
un’osmosi perfetta tra composizione musicale e trama dalle venature drammatiche,
in originale congruenza con quelli che saranno gli elementi propri delle
rappresentazioni in musica dell’epoca Romantica. Caratteri, questi, che hanno
avuto possente riverbero nella serata di ieri sera, che vivrà una replica
stasera, alle ore 21, in una sorta di prologo al prossimo Festival delle Serre,
“fortemente voluto – ha affermato, in apertura, il Sindaco di Cerisano, Lucio
Di Gioia – dall’amministrazione che mi
onoro di guidare, la quale, fin dall’inizio del suo mandato, ha fissato
l’obiettivo di rendere lustro alla grande tradizione artistica, musicale e
culturale di Cerisano, intraprendendo con coraggio una strada intesa a fare del
nostro paese un faro di bellezza nel panorama creativo del mezzogiorno”. Una
strada che ieri sera ha portato nel borgo delle Serre un allestimento
particolare, ove l’apicale levatura dell’Opera e il carattere semiscenico,
adottato per l’occasione, si sono simbioticamente integrati con l’austera
atmosfera di Palazzo Sersale; un allestimento accattivante, che, prodotto inerentemente
al cartellone di “Basilicata Opere in Atto”, dalla Camerata delle
Arti di Matera, con la regia curata da una delle maggiori icone della Lirica
italiana e mondiale, qual è Katia Ricciarelli, in collaborazione con Enzo
Dimatteo, ha esaltato un’azione teatrale e musicale di livello assoluto,
sostenuta dall’Orchestra del Cerisano Opera Festival e dai solisti del progetto
Opera Studio 2.0, i quali, diretti dal Maestro Direttore e Concertatore Francesco
Zingariello, già lo scorso anno impegnato, contestualmente alla medesima
location, nella direzione di una grandiosa rappresentazione di Cavalleria
Rusticana, hanno saputo porre in evidenza la sublime universalità artistica e
psicologica di un’opera che, in occasione della prima rappresentazione praghese
nel 1787, stregò perfino Giacomo Casanova, emblema storico, alla stregua di Don
Giovanni, suo alter ego scenico, di quell’epicureismo moderno destinato a
entrare nell’immaginario collettivo, artistico, musicale e letterario della
contemporaneità, quale filosofia vitalistica votata alla ricerca sistematica e
alla pratica radicale del piacere, in un’esistenza altrimenti grigia, monotona,
ordinaria. Un’universalità che, ieri sera, gli artisti hanno saputo elargire
con quella consonanza di grazia e impeto, severità e ironia, propria dello
spirito e dello spartito mozartiano, arrivando a inebriare gli astanti,
costantemente attenti nel seguire le peripezie di Don Giovanni, egregiamente
interpretato da Eldar Akhmedov, di Leporello a cui ha dato voce e presenza
scenica un eccelso e applauditissimo Cesare Filiberto Tenuta, eccezionale,
oltre che nel cantare l’agire del personaggio, col suo superbo registro basso,
anche nell’evidenziare i suoi tratti di bramosia, impudenza e pusillanimità,
temperati da una vena comica e da un’umanità di fondo sconosciuta a Don
Giovanni, dell’ambigua Donna Anna, impersonata da Laura Ulloa Hernandez, del
temibile Commendatore, espresso da Gianluca Convertino, del debole Don Ottavio,
incarnato da Nicola Pisanello, dell’innamorata e tormentata Donna Elvira, proposta
da Antonella Orofino, dell’inizialmente ingenua Zerlina, portata sulla scena da
Elena Finelli, e del geloso Masetto, rappresentato sul proscenio da Mattia
Rossi. In questi personaggi, con i loro chiaroscuri, nelle inclinazioni, tra esse
dissimilissime e, comunque, tutte inquiete, ognuno dei presenti, forse, avrà
colto uno o più caratteri, anche reconditi, della propria personalità, quella di
donne e uomini che vivono le difficoltà e la caducità di questa vita, provando,
magari, pietà, o addirittura simpatia, se non proprio empatia, per l’amorale
Don Giovanni, impavido e spericolato nell’affermare la propria volontà di
sprezzante trasgressione e determinato, fino all’ultimo istante, nel rifiutare il
pentimento, che, se da una parte gli avrebbe garantito la salvezza dell’anima,
dall’altra avrebbe significato il riconoscimento del fallimento di un’intera
esistenza; prospettiva inaccettabile per lui, un cultore estremo della vita, il
quale preferisce, perciò, restare saldo nei suoi “principi”, anche nella morsa
letale della statua del Commendatore, del Convitato di Pietra, al termine di un
confronto senza speranza, ove la personalità di Don Giovanni, irrazionale e,
insieme, calcolatrice, trasudante una tensione ottimistica d’impronta
illuminista che va a interagire con un titanismo autodistruttivo dal richiamo
romantico, in aderenza, del resto, al ciclico andamento ossimorico di tutta
l’opera, trova la forza di accettare le fiamme dell’inferno e la dannazione
eterna, piuttosto che il tradimento della propria voracità mondana, la quale,
se ci riflettiamo, è, nel contempo libertà e schiavitù, della propria pertinace
condotta gaudente, di se stesso, insomma. In tal modo, Don Giovanni fa sì che
la fatale sconfitta si riveli, invece, una definitiva vittoria su quelle
regole, su quella morale, su quelle virtù che egli non aveva mai accettato,
calpestandole baldanzosamente, fino all’ultimo respiro. Un respiro a cui ha
fatto seguito il fragoroso applauso, con cui il pubblico ha salutato la
conclusione della rappresentazione, offerta ieri sera secondo il canovaccio
proprio della versione meno aderente allo standard tradizionale dell’opera
tragicomica settecentesca, ossia di quella rappresentata, per la prima volta,
nel maggio del 1788, sul palcoscenico del Burgtheater di Vienna, con l’opera
che trova conclusione nella discesa agli inferi del protagonista e non nella
scena successiva, presente, invece, nell’originaria versione praghese, dove
trova spazio la sentenza morale emessa dagli attoniti personaggi verso “chi fa
mal”, verso i “perfidi”, la cui morte “Alla vita è sempre ugual”: una scena che
è “moralizzatrice”, evidenziando il carattere potenzialmente sovversivo
(senz’altro troppo sovversivo, alla fine del diciottesimo secolo, per
l’uditorio della capitale asburgica) di un’opera in cui un nobile snaturato
paga con la vita l’esecrabilità dei suoi abusi, e anche “normalizzatrice”, rispetto
al “pericolo” di offrire a quella “Alma ingrata” di Don Giovanni, cantata e amata
dalla povera Donna Elvira, la possibilità di vedere, in un certo qual modo,
rischiarata la propria grettezza da un’aura epica; una scena ove, comunque, va
a palesarsi il senso di vuoto che la dipartita dello scellerato protagonista,
lascia, paradossalmente, nell’animo e nell’esistenza degli altri personaggi,
accorsi con l’intenzione di vendicarsi, ponendo Don Giovanni di fronte alle sue
responsabilità. Nel caso della rappresentazione di ieri, l’omissione
dell’originaria ultima scena, ha effettivamente contribuito a tratteggiare in
maniera più audace e articolata, e meno etica, la figura di Don Giovanni e la
sua filosofia di vita, ben compendiata nel “Vivan le femmine, viva il buon
vino! Sostegno e gloria d’umanità”, declamato poco prima dell’arrivo, presso il
suo banchetto, del Convitato; un tratteggio apprezzato dal pubblico, il cui
applauso, oltre a esternare il giusto tributo verso gli artisti che, insieme
alla voce recitante di Maria Grazia Zingariello, hanno splendidamente reso onore
al capolavoro mozartiano, recava insita l’ammirazione, di più, una propinquità
interiore, prescindente l’ovvio, semplicistico e, diciamolo pure, banale
giudizio di valore, all’antieroe carnale, ipocrita, cinico e, tuttavia, capace,
di affrontare con fiera dignità la tremenda pena comminatagli da un potere
superiore, in espiazione delle sue colpe, dei suoi delitti e, soprattutto, del
suo ripudio di ogni forma di rimorso. Già, forse questo ha pervaso i pensieri e
le emozioni della platea raccolta nell’antico Palazzo, un tempo dimora dei
Signori di Cerisano, un esponente dei quali, secondo alcune fonti ascrivibili,
in verità, più alla dimensione leggendaria che alla documentazione
storiografica, avrebbe avuto ben poco da invidiare alla natura materialistica,
malestrua e degenerata di Don Giovanni; una natura che, secondo tali
narrazioni, aveva crudele estrinsecazione nello ius primae noctis, ovvero nel preteso
diritto del Duca cerisanese di trascorrere la prima notte di nozze con le donne
che si sposavano all’interno del feudo. Una leggenda che, nella percezione
dello scrivente, ha reso ancor più intense le sensazioni indotte dal
monumentale effluvio musicale e poetico espirato da questo dramma giocoso nel
seducente proscenio della dimora signorile di Cerisano, nei pressi di quel
Pozzo prima menzionato, a cui è legata la succitata leggenda del dissipato
emulo locale di Don Giovanni, in base alla quale una delle novelle spose,
scelte Duca per dar sfogo ai suoi più biechi istinti, avrebbe deciso di difendere
la propria dignità, di ribellarsi a quella violenza, preferendo togliersi la
vita, lasciandosi cadere proprio nel Pozzo posto al centro del Cortile ove i
cantanti e gli orchestrali hanno ieri sera deliziato i sensi di tanti cultori
della passione lirica. Certo, come detto si tratta solo di una leggenda, ma è
affascinante accostare la vicenda di Don Giovanni, delle sue conquiste e delle
sue vittime, vogliose di rivalsa, a quella del Duca, delle novelle spose
abusate e della fanciulla, ribelle fino alla morte: vicende diverse, nella
psicologia, nella natura e nell’agire delle figure, e non certo sovrapponibili,
mancando, ad esempio, nel caso del Duca qualsiasi traccia di fierezza eroica e titanica
paragonabile a quella ergentesi, pur nella depravazione, in Don Giovanni e che,
invece, si riscontra, in foggia lineare e consona a un animo privo di ombre,
nella ragazza cerisanese che si erge a sfidare il prepotente feudatario, al
fine di salvaguardare la sua purezza, uscendo vincitrice dall’inegual tenzone,
seppur nel supremo sacrificio; vicende diverse, accomunate, però, da quell’eterna
dicotomia tra virtù e vizio, che nell’Opera, a differenza di quanto riportato
dalla leggenda cerisanese, appare sovente nebulosa, perennemente oscillante
nella mente e nelle azioni di personaggi difficilmente definibili in maniera
manichea. Una dicotomia sovente sfociante nel capitale epilogo, in cui
l’empietà e la purezza vanno a collimare, a volte confondendosi in quel pozzo
imperscrutabile che è la nostra disarmonica esistenza, da cui solo l’Amore, con
le sue somme espressioni di bellezza, arte, musica, poesia, può elevarci,
dandoci il respiro per anelare a quella melodiosa perfezione immanente sul cui
orizzonte Mozart proiettava il sospiro della sua genialità. Sì, questa è la
riflessione sovvenuta quando le luci si sono riaccese; questo il pensiero
levatosi sul selciato secolare e distesosi nella mente, insieme alle note, al
momento di allontanarsi da quel diadema attorno a cui si avviluppa, a Cerisano,
il Palazzo ducale, da quel Pozzo, incastonato ivi, nel Cortile, in quella
ribalta sublime sovrastata dai merli, tra cui stanziava del crepuscolo la
volta, lungo la quale era ormai scivolato il tramonto e delle sue luci l’eco, che
sol prima risuonava sul maniero e sui tufacei angoli tersi dal lunare astro,
con la sua assolata metà aspergente argentea l’ombra.