I dirigenti dell’Associazione, ritenuti “padri padroni”, prima di essere tali sono stati dei semplici soci, che probabilmente più di altri si sono impegnati nella vita associativa. L’impegno associativo comporta molti sacrifici e rinunce sul piano personale e familiare, una buona preparazione inerente le varie normative nazionali, regionali e locali, una grande disponibilità di tempo e attenzione all’accoglienza dei soci, per i quali è necessario individuare il percorso più utile al loro recupero. Chi si appresta a questo impegno, trova molto facilmente persone pronte a delegargli la soluzione dei propri problemi. Questi dirigenti operando sul campo, migliorano costantemente la loro preparazione e i loro rapporti personali con gli aderenti all’Unione, che molto spesso si traducono in consenso nell’ambito delle assemblee. A volte accade che alcuni di questi dirigenti particolarmente impegnati, si trasformino in “padri padroni”, sia per la propensione ad un ruolo di potere, sia perché chi li contesta si limita alla lamentazione senza sacrificare la propria persona in un grande impegno associativo per acquisire il necessario consenso, che nessuno regala. Lo statuto, con la limitazione dei mandati, tenta di favorire il rinnovamento nell’ambito delle cariche associative, ma coloro che godono del consenso dei soci sono e saranno determinanti nella scelta dei nuovi dirigenti. Chi conosce lo stato delle cose oltre la nostra Unione, sa che è così nelle organizzazioni sindacali, di partito e del terzo settore. La mia esperienza mi fa dire che nell’Unione vi sono aspetti più positivi che altrove. Quel che emerge fra noi ciechi è la propensione a voler sempre spaccare il capello in quattro e dare la colpa all’UICI di ogni cosa che non va, compresa l’attuale siccità. Il ricambio delle persone negli incarichi nazionali, risulterà sempre più semplice rispetto alla periferia, perché il rapporto con i soci non è così diretto e determinante come nelle sempre meno partecipate assemblee di Sezione ed è più numeroso il numero dei possibili candidati. L’Unione anche in altri tempi ha sempre avuto i propri problemi, ma l’importanza degli obiettivi da conseguire hanno sempre fatto da collante portandoci a superare le difficoltà che non sono mai mancate. Il senso di solidarietà nei confronti di coloro che se la passavano peggio è sempre prevalso sulle differenti opinioni e diversità caratteriali. L’Unione è vicina al centenario della sua fondazione ed esaminando l’attuale situazione dei ciechi,dovremmo prendere atto che il suo ruolo è stato determinante per ciascuno di noi, che dovremmo recuperare quel senso di solidarietà che con il miglioramento della nostra condizione sembra svanire.
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Diario di una giornata trascorsa tra Palazzo Chigi e il carcere di Regina Coeli, di Carlo Carletti
Nel lontano 1979, con la legge 382 , l’Unione guidata dal Presidente Giuseppe Fucà, aveva
conseguito per i ciechi civili assoluti l’equiparazione dell’indennità di accompagno a quella percepita dai ciechi assoluti per causa di guerra, che ne ha determinato , un considerevole incremento economico. Dopo circa 2 anni, vi fu un ulteriore aumento dell’indennità dei ciechi di guerra, ma nonostante che la legge lo prevedesse , non vi fu il conseguente e analogo aumento anche per i ciechi civili. Tale ingiusta situazione impegnò i dirigenti dell’Associazione in estenuanti quanto inutili incontri con i Dirigenti del Ministero del Tesoro, dell’Interno e con i gruppi parlamentari. Pertanto, nel corso di una riunione informale di dirigenti sezionali nazionali Con l’allora Presidente Nazionale Roberto Kervin, fu deciso di affidarmi l’incarico di effettuare per il giorno 22 ottobre 1982, una manifestazione per sollecitare direttamente la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il mattino del giorno convenuto giunsero a piccoli gruppi, presso Piazza Colonna, davanti al Palazzo del Governo, circa 1.000 disabili visivi provenienti dalle Sezioni del Lazio e da altre Regioni. Come già convenuto , ho guidato una delegazione, che fu ricevuta dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio on. Vittorio Olcese, il quale, ritenendo fondate le ragioni della nostra richiesta relativa all’equiparazione dell’indennità di accompagno, assicurò che avrebbe sollecitato, il giorno stesso, i Ministeri competenti per la piena attuazione della legge . .Soddisfatti per il risultato conseguito, ringraziando tutti lasciammo gli uffici della Presidenza del Consiglio. Appena fuori, mi recai presso una cabina telefonica per informare dell’esito dell’incontro, il Presidente Kervin, che attendeva presso il suo ufficio di via Borgognona. Pur dicendosi soddisfatto , ma forse un po’ incredulo al cospetto di tanta inattesa disponibilità, mi consigliò di ritornare alla Presidenza del Consiglio, per chiedere la diffusione di un comunicato stampa che avrebbe rassicurato tutti . L’on Olcese, chiamato al telefono, si espresse favorevolmente e mentre mi avviavo verso l’ingresso di Palazzo Chigi per ritirarne una copia, fui avvicinato dal Commissario di Polizia dott Stella, il quale mi intimò di sciogliere con immediatezza la manifestazione. Pur avendolo informato che ero atteso per acquisire il comunicato stampa contenente l’accoglimento delle richieste avanzate dai ciechi, che avrebbe automaticamente posto fine alla manifestazione, non volle sentire ragioni. Ebbi solo il tempo di dire al Presidente della Sezione di Latina Giuseppe Bernardi, di rassicurare i manifestanti sull’andamento positivo dell’incontro e soprattutto di mantenerli a distanza dal cordone di polizia, che il Commissario ordinò agli agenti, fra lo stupore dei presenti, il mio immediato arresto, in quanto responsabile della manifestazione non autorizzata . Erano le ore 12.30, quando fui prelevato dagli Agenti che mi portarono nell’atrio di Palazzo Chigi, consegnandomi al Comandante Migliorini , del nucleo di polizia presso la Presidenza del Consiglio, il quale cercò di tranquillizzarmi dicendomi che l’accaduto aveva dell’incredibile, perché il tutto si era svolto nella massima correttezza , della quale poteva esserne testimone. La notizia del mio arresto arrivò ai manifestanti, i quali non credendo vera la notizia dell’esito positivo dell’incontro con il Governo, si mostrarono più rumorosi e agguerriti, tanto che il Dirigente dell’UICI della Sicilia Alfio Polizzi, munito di megafono , li invitava all’occupazione di Palazzo Chigi. L’amico Bernardi, che aveva il compito di evitare il contatto tra i ciechi e gli agenti di polizia, si trovò nel bel mezzo prendendo spintoni e calci dall’una e dall’altra parte. Il suo dimenarsi fu notato dal Commissario Stella che ne ordinò l’arresto e anche lui fu portato dentro palazzo Chigi. Impegnato nel contenere i manifestanti non si capacitava delle ragioni del suo arresto e tentò di protestare per l’ingiusto trattamento, ma Due agenti gli portarono le braccia dietro la schiena e gli misero le manette ai polsi. Continuò a protestare e fu colpito dal Commissario Stella con un pugno allo stomaco. Bernardi dal dolore si piegò in avanti e ricevette anche una ginocchiata al basso ventre che lo stordì, riducendolo al silenzio. Le manette gli furono messe male e gli sanguinavano i polsi. Nel frattempo nella piazza gli animi si fecero sempre più tesi ed entrò in azione il Presidente della Sezione di Frosinone, un cieco assoluto di grande stazza, che individuata la giusta direzione verso il portone , con i suoi circa 170 chili, si diresse di corsa verso il palazzo. Gli agenti si scansarono e altri aprirono del tutto il portone semichiuso. Durini arrestò la sua corsa dentro l’atrio del palazzo e ansimante per lo sforzo, chiese dove fosse finito. Avvertito che era nel palazzo, affermò di volerlo occupare, ma intervenne ancora una volta il Commissario Stella, che comunicò anche a lui lo stato di arresto. Dopo aver accertato le nostre identità, fummo fatti salire sul furgone della polizia e portati al Commissariato del primo distretto di Roma. Dopo una sosta per ulteriori accertamenti, erano le ore 15,quando fummo tradotti al carcere di Regina Coeli, dove ci attendeva il Comandante delle guardie carcerarie dott. Marino, il quale vedendosi consegnare un cieco assoluto e due mezzi accecati quali eravamo io e Bernardi, mostrando si sorpreso e a disagio , fu molto comprensivo nei nostri confronti e non fece mancare espressioni di disappunto sull’operato del Commissario Stella. Nell’ambiente del carcere vi era molta agitazione, perché lo stesso giorno era stata arrestata la terrorista ligas e altri appartenenti alle Brigate rosse. Da una porta socchiusa , ci fu possibile ascoltare una telefonata del Comandante delle Guardie del Carcere , che rivolgendosi al Commissario Stella lo rimproverava di averlo messo in grande difficoltà consegnandogli tre non vedenti. Gli disse: non ti sei accorto che sono ciechi e che anche volendo non potrebbero scappare? , li stai trattando come se anche loro fossero brigatisti. Da alcuni Agenti fummo fatti accomodare in una cella di sicurezza, poi ci portarono in una stanza dove un fotografo immortalò le nostre facce sia di fronte che di profilo. Successivamente fummo portati alla rilevazione delle impronte digitali, l’uno dopo l’altro fummo invitati a premere le dita su un piano di gomma- piuma intriso di inchiostro e poi su un foglio bianco. Vicino era posto uno straccio per ripulirci dell’inchiostro che aveva impregnato le nostre dita. Durini, cieco assoluto, al suo turno, eseguì il tutto , ma nessuno lo avvertì che si poteva pulire la mano sporca di inchiostro, che si passava sul viso e sui vestiti. Quando gli dicemmo che , così imbrattato, era irriconoscibile e sembrava un negro proveniente dall’Africa e non il ciociaro proveniente da Frosinone. Accolse il fatto con qualche battuta di spirito. Nonostante l’accaduto e il luogo in cui eravamo riuscimmo a mantenere una certa tranquillità, aiutati anche dagli agenti di custodia , che ci dicevano di non preoccuparci troppo perché sarebbe arrivato un Magistrato, che dopo il nostro interrogatorio, avrebbe sicuramente deciso il nostro rilascio. Verso le ore 19, fummo avvertiti che il Magistrato non era stato rintracciato ed essendo di Venerdì, avremmo dovuto attendere nella cella di sicurezza del braccio2 fino a prossimo lunedì. A questo annuncio, una forte preoccupazione cominciò ad invadere la mia mente. Sentivo di essere stato un irresponsabile per aver lasciato mia moglie e i miei figli senza alcuna notizia. Anzi, il mattino quando ho lasciato casa, pensando ad una normale e tranquilla giornata non li avvertii nemmeno che sarei andato ad una manifestazione. Il fatto che non avevo più la possibilità di comunicare con loro per spiegare l’accaduto e per rassicurarli, contribuì ad aumentare il mio senso di colpa.. In un attimo scomparve quel senso di goliardia che accompagnava le nostre manifestazioni. Ormai rassegnati, Accompagnati dagli agenti ci avviammo verso la nuova cella e ci avvertirono che saremmo restati anche senza cena perché la nostra presenza non era prevista . Arrivati in prossimità della nuova destinazione, con sorpresa e sollievo , fummo richiamati perché era arrivato il Magistrato che ci avrebbe interrogato. Quando accedemmo alla stanza dell’interrogatorio, mi venne incontro il sostituto Procuratore dott. Gianfranco Ferro, che avevo conosciuto in altre occasioni, in quanto avevo già frequentato le aule dei Tribunali per altre manifestazioni non proprio regolari. Il Magistrato mostrando meraviglia, per doversi occupare ancora una volta di me, affermò che delle mie manifestazioni ormai conosceva tutto, ma le offese e le violenze a pubblico ufficiale, delle quali risultavamo accusati rappresentavano una grave e spiacevole novità. Raccontai tutto l’accaduto, mi assunsi la responsabilità della manifestazione e gli dissi che Bernardi e Durini non erano colpevoli di nulla , se non di aver partecipato alla manifestazione della quale ero io l’unico responsabile. Dal momento che eravamo accusati anche di violenza a pubblico ufficiale invitai il dott. Ferro a costatare le ferite provocate dalle manette e dai colpi ricevuti da Bernardi, lo invitai a mettersi in contatto con il dott. Migliorini, Comandante del nucleo di polizia della Presidenza del Consiglio. . Dopo l’interrogatorio di Bernardi con ai polsi evidenti ferite e quello di Durini, il Magistrato si allontanò per circa 30 lunghissimi minuti, e quando rientrò nella stanza , si mise a scrivere, ma fu interrotto dallo squillo del telefono e rivolgendosi all’interlocutore lo sentimmo dire: si , sto ancora facendo gli accertamenti e la informerò subito dopo, ma non credo che possano emergere particolari rilievi e complicazioni. Riprese a scrivere, erano ormai le 21,quando consegnò ad un agente all’ordine per la nostra scarcerazione . Nel salutarci, il magistrato ci disse che la nostra presenza in quel luogo era determinata da evidenti malintesi e da incomprensioni e che manifestare per le ragioni come le nostre era un diritto. Quando gli chiedemmo quali potevano essere le conseguenze per essere stati in quel luogo, ci rassicurò e ci salutò dicendoci che null’altro ci sarebbe accaduto. Fummo accompagnati fuori dal carcere salutati dagli agenti di custodia, che abbiamo ringraziato per la loro cortesia e attenzione. Ad attenderci , trovammo il Presidente Kervin con l’autista Nicodemo, ed altri dirigenti e soci dell’ UIC. Abbiamo da loro appreso che dal momento del nostro arresto, tutti si sono adoperati per far intervenire in nostro favore i massimi esponenti dei partiti. Tomatis fece intervenire Bettino Craxi, intervennero anche Rutelli, il Sindaco di Roma Vetere, e altri, ma fu determinante l’intervento sollecitato dal Presidente Kervni al Ministro di Grazia e Giustizia On. Clelio Darida, quello che aveva telefonato al Magistrato, prima per farlo intervenire subito evitandoci il fine settimana in carcere e poi per conoscere l’andamento dell’interrogatorio. Abbiamo saputo che molti non vedenti di Latina e Frosinone sono restati a Piazza Colonna fino alle ore 20 in attesa di notizie, poi hanno dovuto abbandonare perché i pullmann dovevano rientrare . Con il Presidente Kervin , con il Segretario Merendino, che tanta parte ha avuto nella buona riuscita della manifestazione , con Di Maio, Tomatis, Ballardini, Recce, Ciccio Coppola, Fortini Notari, Paglia e molti altri, ci siamo salutati e siamo stati accompagnati alle nostre rispettive abitazioni . Io fui accompagnato a Cisterna, dove era in corso la riunione del Consiglio Comunale del quale ero componente. Entrando nella sala riunioni, avvertii un certo mormorio e un compagno di Partito mi chiese come potevo essere li se la radio e la televisione avevano annunciato il mio arresto insieme ad altri due ciechi. Preoccupato per quanto riferito, mi precipitai a telefonare a mia moglie che dal mattino non aveva mie notizie . La chiamai e le dissi di trovarmi presso il Comune, che avevo avuto qualche problema , ma che tutto si era risolto bene. Mia moglie piuttosto arrabbiata per la mancanza di notizie mi riattaccò il telefono. Quando andai a casa, non volle ne ascoltarmi ne rivolgermi la parola. Al mattino quando cominciarono ad arrivare telefonate dai dirigenti dell’Associazione da ogni parte d’Italia, che chiedevano mie notizie, e dopo essere stata informata di quanto accaduto, dall’amico Di Maio, cominciò a comprendere che non avevo passato una grande giornata. Si recò a comprare i giornali i quali riportavano con evidenza l’arresto di tre ciechi, Carletti , Bernardi e Durini. Dal momento che nessun organo di informazione aveva dato la notizia della nostra scarcerazione, grande era la sorpresa di coloro che mi incontravano nei luoghi da me frequentati o che mi sentivano rispondere al telefono. Non fu certamente semplice far comprendere ad amici, parenti e a mio figlio ,che può accadere di essere arrestati, senza per questo essere dei poco di buono. Ritornato in ufficio presso la Banca d’Italia, il giorno lunedì 25 ottobre, con grande sgomento appresi di essere stato sospeso dal lavoro. Nel corso della giornata ho potuto dimostrare che, nonostante l’arresto, non risultava alcun reato a mio carico e con grande sollievo, fui riammesso in servizio lo stesso giorno. Nel pomeriggio , uscito dal lavoro, mi recai presso la sede Regionale dell’UIC dove mi raggiunse un giovane agente di polizia, presente al mio ingiusto arresto. Disse che Aveva la mamma cieca ed era originario di Bagnara Calabra, un paese vicino a Scilla, dove era nato Fucà. Mi raccontò la sua amarezza per l’accaduto e che meditava di lasciare la Polizia. Lo ringraziai per gli attestati di stima e per la disponibilità a testimoniare in mio favore in un eventuale processo, ma lo esortai a non lasciare quel lavoro , perché era più opportuno che quel ruolo lo ricoprisse uno come lui e non uno che poteva pensarla come il Commissario Stella. Mi disse che appena dopo il nostro arresto il Commissario aveva ordinato con i tre squilli di tromba la carica per lo sgombro della piazza, ma gli agenti si rifiutarono. Minacciando gli agenti che non vollero malmenare i manifestanti, per meglio controllare la situazione , chiese l’intervento anche del gruppo degli agenti della Celere. Al cospetto dei tanti giornalisti, delle telecamere e dei molti politici giunti sul posto, l’ordine di sgombro non fu più ripetuto. Dopo alcuni giorni , a seguito dei numerosi articoli sulla stampa e delle numerose interrogazioni di parlamentari appartenenti a vari gruppi politici, delle proteste degli Agenti e dei loro sindacati di categoria, il Commissario Stella fu trasferito dal primo Distretto di Roma ad altro nella periferia della Provincia. Successivamente nel riprendere l’attività Associativa, mi restava ancora sospeso il richiesto incontro con il Sindaco di Roma Ugo Vetere, al quale, per sollecitarlo inviai il seguente telegramma: Caro Sindaco, come tu ben sai, a Via de la Lungara ce sta ‘n gradino, chi nun sale quelo nun è romano e ne trasteverino. Dal momento che ormai sono cittadino romano e trasteverino a tutti gli effetti, ritengo che tu non possa più esimerti dal volermi incontrare. Ti sono grato per esserti interessato per la soluzione del mio arresto. Il giorno successivo fui accolto molto cordialmente in Campidoglio dal Sindaco, il quale, dopo una dissertazione sul detto che si diviene veri cittadini romani soltanto dopo aver varcato il gradino del carcere, prestò molta attenzione alle problematiche che gli furono esposte, assicurando agevolazioni sul trasporto urbano e l’assunzione di due centralinisti.
Con il tempo ho potuto molto riflettere sul fatto che quando organizzai la Manifestazione del 22 ottobre 1982, possedevo ancora un residuo visivo, che con l’ausilio di una lente a contatto, mi consentiva una certa autonomia, ma la cecità totale mi ha raggiunto dopo alcuni anni, ed anch’io ho potuto usufruire di quella indennità di accompagno , per la quale avevo lottato. , quando ancora il problema non mi apparteneva. L’aver pensato, solidarizzato e lottato con i ciechi assoluti di allora, ho, di fatto, contribuito anche alla mia miglior condizione attuale. Erano presenti alla manifestazione anche altri ipovedenti che spero non abbiano avuto la necessità di dover ricorrere a questo beneficio.
Biografia Pietro Paleocapa, di Gianni Laiolo
Vi presento la biografia di un grande ingegnere e progettista in seguito divenuto ministro in vari governi sabaudi nel diciannovesimo secolo, nell’apice della Sua carriera perdette la vista, ma la Sua grande volontà e tenacia gli permisero di portare avanti grandi progetti che cambiarono le comunicazioni nel nostro paese. A questo illustre personaggio, che ha contribuito tanto allo sviluppo delle comunicazioni nella nascente Italia, Torino ha intitolato una piazza nel centro storico, dove vi è una statua che lo rappresenta seduto con accanto un bastone bianco.
Nato nel bergamasco da famiglia di antiche origini greche che si era trasferita nei domini della Serenissima dopo la conquista ottomana di Creta (Candia) nel XVII secolo.
Dopo gli studi in Legge e in Matematica a Padova, proseguì la sua formazione all’Accademia Militare di Modena, ottenendo il grado di tenente nel Genio.
Militò per due anni nelle milizie napoleoniche, e nel 1817 entrò nel “Corpo degli Ingegneri di Acque e Strade” di Venezia, occupandosi in particolare di idraulica; studiò progetti nel settore delle ferrovie, dei trafori e dei canali navigabili, contribuendo significativamente alla costruzione di molte infrastrutture essenziali.
Nel 1840 diventò direttore generale delle Pubbliche Costruzioni a Venezia, promuovendo la regolamentazione del Brenta, del Bacchiglione, dell’ Adige, di diverse zone paludose nei pressi di Verona e occupandosi della costruzione di una diga nel porto di Malocco. Trattò anche il Tartaro e il Canal Bianco.
Patriota convinto e liberale moderato, partecipò al governo provvisorio veneziano del 1848 e, dopo la missione presso Carlo Alberto di Savoia, fu fautore dell’annessione di Venezia al Piemonte. Dopo l’annessione, diventò deputato al Parlamento Subalpino e Ministro dei Lavori Pubblici nel governo sabaudo di Gabrio Casati (Governo Casati).
Nel 1849 fu eletto nuovamente Ministro nel governo d’Azeglio e, quasi senza soluzione, fino al 1855 in quello che Cavour amava definire Paleocapa un uomo “ricco di accortezza e malizia ellenica”.
Divenuto cieco, fu costretto dalla malattia a lasciare l’incarico ai Lavori Pubblici, restando dal 1857 al 1859 ministro senza portafoglio.
A Torino promosse lo sviluppo ferroviario, con l’obiettivo di collegare i mercati sabaudi oltre l’arco alpino e condusse a compimento la progettazione del Traforo Ferroviario del Frejus.
Infine, al 1855 in poi, collaborò – avendo un ruolo fondamentale – alla progettazione del canale di Suez, insieme a Luigi Negrelli.
La statua dedicata a Pietro Paleocapa (1788-1869) fu eseguita da Odoardo Tabacchi (1831-1905) e posta nel 1871, nella piazza a lui dedicata. Il ministro dello Stato Sabaudo, promotore dello sviluppo delle infrastrutture stradali e ferroviarie, è ritratto seduto in posa naturale.
Andrea Bianco: ho perso la vista dopo un grave incidente, oggi faccio lo scultore, di Vittoria Diamanti
Caro Andrea, potresti fare una tua piccolissima presentazione?
“Certo. Mi chiamo Andrea Bianco. Ho 47 anni e sono di Bolzano. Sono sposato con Lara e sono padre di 4 figli. Dal 1991 sono non vedente a causa di un incidente d’auto”.
Ci racconti di più di questo avvenimento?
“Fino a quel 28 marzo 1991 la mia vita scorreva bella, spensierata, comoda, interessante, senza pormi mai quesiti su argomenti profondi.
Un giorno, dopo aver sostenuto un esame all’Università, decisi con la mia fidanzata Lara (adesso mia cara moglie), di andare in montagna a Solda, paesino ai piedi dell’Ortles. Qui successe l’inimmaginabile. Sulla via del ritorno, all’altezza di Prato allo Stelvio, imbocco con la mia Peugeot 205 un lungo rettilineo. La strada è sgombera, se non fosse per un camion che procede lentamente davanti a noi. Mi accingo a superare questo mezzo. Mi metto sulla corsia di sorpasso, ma mentre sono al suo fianco il camion, senza preavviso, svolta in maniera decisa a sinistra, per entrare in una piccola via secondaria. Mi accorgo della manovra infelice e immediatamente penso a cosa devo fare. “Ormai la frittata è fatta! Se freno non risolvo nulla. Non mi resta che accelerare, così forse il camion colpisce in modo minore la macchina”. Faccio così e, in effetti, il mezzo urta la Peugeot non sulla portiera di Lara, come sarebbe avvenuto, ma più indietro. In ogni caso l’impatto è violentissimo e la nostra macchina viene scaraventata contro un platano che era sul bordo della strada. Subito la situazione si mostra drammatica. Lara si è fatta poco e niente, ma io sono in fin di vita. Dopo lungo tempo arrivano i soccorsi e vengo portato in elicottero all’ospedale di Bolzano. In volo, sopra Merano, ho anche un arresto cardiaco.
Giunto a destinazione ci si accorge subito che le speranze di sopravvivenza sono minime. Riporto frattura della base cranica, degli zigomi, del palato, del mento, del setto nasale, dei denti, edema ed ematoma cerebrale, schiacciamento polmonare, frattura delle costole, del femore sinistro in dieci pezzi, dei malleoli, schiacciamento del nervo sciatico, rottura dell’arteria giugulare. A quell’epoca a Bolzano non esisteva la neurologia. A complicare il tutto bisogna aggiungere che era giovedì di Pasqua e quindi il personale era ridotto. A questo punto si decide un trasferimento. A Monaco non sembra il caso, perché in quelle condizioni non sarei stato in grado di sorvolare le Alpi. Allora si pensa a Verona. Giunto a Borgo Roma mi accoglie un giovane dottore del reparto maxilofacciale. In dialetto veronese dice: “ghe pensi mi” (ci penso io).
Vengo sottoposto ad un’operazione piuttosto lunga e complicata. Il dottore, dopo l’intervento, era talmente stressato che fumava contemporaneamente tre sigarette. Ho fatto venti giorni di coma. I miei genitori hanno chiesto al dottore come ne sarei uscito. La risposta è stata: “Non lo sappiamo, perché non esistono statistiche. Solitamente non si sopravvive a certi incidenti”. Vorrei anche aggiungere che questo medico aveva perso due mesi prima un fratello in un incidente di macchina e quindi mi aveva un po’ identificato con lui. Così, mi copriva di attenzioni e mi veniva a visitare ogni volta che gli era possibile. Dopo alcuni mesi a Verona sono stato trasferito all’ospedale di Bolzano per altri due mesi. Sono stato sottoposto ad una dozzina di interventi ed ho fatto lunghe e dolorose sedute di riabilitazione. Alla fine i risultati si sono avuti. Fisicamente mi sono rimesso abbastanza bene. Il problema era la vista. L’ematoma e l’edema cerebrale avevano compresso i nervi ottici compromettendo irrimediabilmente la vista. Ci siamo recati anche a Boston negli USA, dove c’era l’ospedale ritenuto migliore in questo ambito, ma anche qui la risposta è stata negativa.
Devo dire che ho avuto la grazia di non disperarmi mai. C’è stato qualche breve momento di sconforto, ma di breve durata, mai in grado di intaccare una tranquillità di fondo”.
Come vivi la tua cecità?
“Sinceramente vorrei dire che non mi definisco cieco, ma ‘non vedente’. Questa non è una pignoleria, ma una differenza sostanziale. Credo che l’essere non vedenti sia un handicap fisico dovuto ad una malattia o ad un incidente; l’essere ciechi, secondo me, riguarda più la sfera etica e morale e non ha nulla a che vedere con il numero delle diottrie. Spesso ci sono tra i non vedenti due eccessi: c’è chi si piange continuamente addosso e c’è chi ha un senso di rivalsa nei confronti del mondo e deve fare il superuomo. Io ho un’opinione diversa. Senza rinnegare il mio handicap, cerco di vivere mettendo a frutto le mie capacità, per avere una vita più piena, ricca e bella possibile. È vero che mi manca un senso, ma me ne rimangono altri quattro. Il messaggio che spesso lancio durante le conferenze che faccio è: “non guardiamo a ciò che ci manca. Guardiamo ciò che abbiamo”. Questo vale sia per i non vedenti che per qualsiasi altra persona. Se cerchiamo solo ciò che ci manca saremmo degli eterni scontenti”.
Come stai ora?
“Ora sono felice. Mi sento realizzato. Ho una famiglia bella con cui condividere le gioie della vita. Ho amici da frequentare e ho la possibilità di vivere in pienezza ogni istante della mia esistenza”.
Cosa ti ha permesso la creatività?
“La creatività è innata. O ce l’hai o non ce l’hai. Non puoi acquisirla o impararla. Detto ciò bisogna sottolineare una cosa: mi capita alcune volte di sentir dire “io non so neppure tenere la matita in mano”. Non è assolutamente vero. Dietro a frasi del genere si nasconde solamente pigrizia. Se è vero che ci sono persone più o meno portate per l’arte è anche vero che tutti possiamo arrivare a dei risultati, anche se minimi. Mi ricordo che una professoressa mi ha detto proprio una frase del genere durante una mia conferenza in una scuola. Le ho chiesto: “Lei cosa insegna?”. “Inglese”. “Bene. Allora tra i suoi studenti ci saranno alcuni che si trasferiranno in America e apriranno in quel Paese la loro attività. Altri andranno in Inghilterra. Altri ancora avranno imparato solo le nozioni base per poter viaggiare o ordinare un pasto. In ogni caso tutti avranno riportato un risultato dal suo insegnamento. Chi avrà la predisposizione per le lingue farà i passi ulteriori, chi non ce l’ha avrà imparato il minimo necessario”.
Cosa ti dà la scultura?
“La scultura è un mezzo straordinario per esprimermi. Attraverso le mie opere desidero instaurare un dialogo con il visitatore. Quando scolpisco metto nel mio lavoro tutto me stesso: desideri, limiti, sogni, ambizioni, delusioni. Spesso mi viene detto che le mie opere “hanno un’anima”. Con questa espressione colorita capisco che le persone hanno percepito che ho realizzato il mio lavoro con trasporto e non in modo asettico. Lavoro marmo, legno, argilla e bronzo. Ogni materiale è adatto per un tipo specifico di lavoro e per trasmettere alcune sensazioni. Cerco sempre di individuare quello più adeguato. Non voglio assolutamente presentarmi come scultore non vedente, bensì come scultore e basta. Questo non perché mi vergogni del mio handicap, assolutamente. Ma, per il fatto di essere non vedente, non voglio né essere avvantaggiato né essere penalizzato. Devo potermi rapportare e confrontare con tutti. Per questa ragione spesso mi consulto con scultori vedenti. Lo faccio alla pari. Non voglio neppure utilizzare la mia cecità come foglia di fico per nascondere i limiti. Se qualcosa non mi riesce mi impegno il doppio per realizzarla e non dico che ciò non mi è possibile”.
Come fai a scolpire da non vedente?
“Questa è una domanda che mi viene posta tante volte. Scolpisco utilizzando il tatto. Si tratta di un senso che deve essere riscoperto. Nel caso mio è fondamentale, ma è importantissimo anche per le persone e gli scultori vedenti. Spesso non viene considerato e utilizzato a sufficienza. In ogni caso devo dare un posto particolare alla sicurezza. Con poche precauzioni si può ridurre il rischio quasi al minimo. Nell’arco di pochi anni sono riuscito ad apprendere diverse tecniche ed a raggiungere un livello che mi permette di esporre i miei lavori sia a livello nazionale che a quello internazionale”.
Che visione hai della vita?
“La vita è un dono immenso. Quando siamo in salute non ci rendiamo conto né di questo valore né del dono della salute, perché la riteniamo normale, quasi dovuta. In ogni caso la vita, secondo me, va amata in ogni forma essa si presenti”.
Cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto la cecità?
“Secondo me la cecità, ma la malattia in genere, dà la possibilità di vedere la vita e il mondo in maniera diversa. Si cambia la scala dei valori e delle priorità. Si riesce a scendere nel profondo senza fermarsi alla superficie degli avvenimenti o delle persone. Nel caso mio, non essendo influenzato da un senso così predominante come la vista, sono facilitato ad andare alla sostanza delle questioni. Nell’ambito della scultura la cecità mi ha reso più libero. Mi spiego meglio: volente o nolente la vista ci crea degli schemi. Non avendola sono libero da tali schemi e le immagini mentali che ho dalla mia memoria visiva col tempo spesso si offuscano. Detto ciò, mi ritengo libero di poter interpretare le mie opere e le forme superando molti confini”.
Che uomo sei diventato?
“Sono diventato una persona più riflessiva e più combattiva. Non intendo dire che sono diventato un estremista, ma cerco di individuare i miei limiti e se posso trovo la via per aggirarli, altrimenti ne prendo atto e li accetto. Non vivo da rassegnato, ma desidero sempre migliorarmi. In questo modo voglio rendere la mia vita e quella di chi mi sta vicino più ricca ed interessante”.
Cosa ti ha permesso di superare una situazione dolorosa e difficile come il tuo incidente?
“Ci ho pensato a lungo e ho capito che sono stato avvantaggiato dall’affetto della famiglia. Un altro punto di forza è sicuramente il mio carattere testardo. Importantissima è certamente anche la fede che ho incontrato proprio durante la mia degenza e che mi ha aiutato a vedere diversamente tutto il mio passato e il mio futuro”.
Ci puoi lasciare i tuoi recapiti per vedere i tuoi lavori ed essere al corrente delle esposizioni che farai?
“Certamente. Ho un sito dove pubblico le foto dei miei lavori, alcuni articoli di giornale e alcuni video: www.biancoandrea.it. La mia pagina Facebbok sta crescendo velocemente. La aggiorno ogni settimana. Si chiama “Andrea Bianco scultore”. Lo stesso nome ha anche la mia pagina Instagram.
Vi lascio anche il mio indirizzo e mail, così sono schedato del tutto: andrea.bolzano@gmail.com
Caro Andrea, ti ringrazio per questo dialogo.
“Grazie a te e mando un forte abbraccio a tutti coloro che leggeranno questo scritto. Buona vita gioiosa a tutti!”.
Goal. Venticinquesimo anniversario delle stragi di Capaci e via d’Amelio, di Gabriele Sacchi
Ai ragazzi che chiedono un lavoro onesto e spazi per una partecipazione vera alla vita sociale; a chi chiede semplicemente di sentirsi dignitosamente parte di un paese fatto di cittadini onesti; alle tante associazioni e movimenti, come “libera” di Don Ciotti e “adesso ammazzateci tutti”, che si oppongono all’omertà e al perpetrare del crimine:
“non vi arrendete! Gli uomini passano, le idee restano e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini” (G. Falcone).
1992-2017: Sono passati esattamente venticinque anni da quei terribili giorni che hanno segnato per sempre le coscienze di ognuno di noi; chi oggi scrive era appena nato all’epoca dei fatti, ma i nomi di Falcone e Borsellino e il loro amore per lo Stato non sono certo a lui sconosciuti.
Vie, piazze, scuole, aeroporti, perfino un asteroide sono oggi dedicati alla memoria di questi eroi; davanti a quella che fu l’abitazione di Giovanni Falcone, a Palermo, sorge “l’albero di Falcone”, sul quale i visitatori lasciano pensieri per i due giudici che hanno combattuto la mafia fino all’estremo sacrificio; dal porto di Civitavecchia e di Napoli, ogni anno, salpano le navi della legalità piene di migliaia di giovani; Insomma, nonostante qualcuno a Capaci e via d’Amelio abbia cercato di far sparire per sempre esempi di vita da seguire, l’opinione pubblica non dimentica, non si piega.
“Chi ha paura muore due volte, chi non ha paura muore una volta sola”, così rispondeva Paolo Borsellino a chi gli chiedeva come riuscisse a compiere il suo dovere di magistrato impegnato a combattere la mafia in Sicilia negli anni in cui essa sferrava un attacco cruento agli “uomini dello Stato”, in particolare dopo il chiaro avvertimento lanciato dai Clan con la “spettacolare” uccisione del suo amico e collega Giovanni Falcone il 23 maggio 1992.
Eliminare la piaga della “piovra mafiosa”, era questo il fine del “pool antimafia” del quale i due Magistrati facevano parte; applicare dunque senza remore il reato di “associazione mafiosa” introdotto per la prima volta con il voto della legge “La Torre-Rognoni” ( a seguito degli omicidi di Pio La Torre, il 30 Aprile 1982, e del Gen Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 Settembre dello stesso anno).
Indubbiamente la posta in gioco era alta; non solo la “mente” e il “braccio armato” di “Cosa Nostra” venivano minacciati, ma perfino la sua torre di comando: “Cupola”.
10 Febbraio 1986. inizia il maxi processo che porta a più di 360 arresti, ingenti confische di beni illeciti e una miriade di iscrizioni nel registro degli indagati, per associazione a delinquere, di nomi “illustrissimi”.
Nel bel paese soffia vento di bufera:
l’ombra del patto Stato/Mafia si fa largo all’orizzonte.
Un goal da cineteca dunque per i due Magistrati!
Peccato che il premio partita li attenda da un’altra parte.
Gabriele Sacchi.
Motivi e aspetti dell’affezione e della disaffezione associativa, di Francesco Fratta
Sarà capitato più di una volta, e non solo a me, di chiedersi per quale motivo una certa persona cieca o ipovedente, che conosciamo piuttosto bene, stimiamo per la sua cultura e/o la sua preparazione in qualche campo specifico – e della quale magari siamo pure amici – si tenga lontano dalla nostra associazione e non voglia neppure prendere in considerazionel’eventualità di farne parte e di metterle a disposizione le proprie competenze.
Quella che segue vuol essere una riflessione prima di tutto sul d’onde derivi un tale atteggiamento, e, in secondo luogo, sul se e sul come lo si possa eventualmente modificare in modo da attrarre verso l’UICI persone che costituirebbero indubbiamente per essa nuove ed utili risorse.
Innanzi tutto chiediamoci: sono sempre TUTTE buone le ragioni dell’attaccamento all’UICI, e sono sempre e soltanto deplorevoli le ragioni di chi invece sceglie di restarne fuori? Proviamo a metterle entrambe sul tavolo con quanta più possibile obiettività e sforzandoci di tenere da parte i pregiudizi.
In prima battuta possiamo dire che vi sono ragioni buone e meno buone da entrambe le parti.
La scelta di entrare in e di appartenere ad una associazione come la nostra, può essere dettata dall’avvertire acutamente certi problemi legati alla presenza della menomazione visiva e dal rendersi conto che una risposta basata su strategie personali, ancorchè efficace per bravura soggettiva e per circostanze fortunate (un buon contesto sociale, buone amicizie, ecc.), è troppo aleatoria, e che occorrono pertanto garanzie legislative che individualmente non siamo in grado di ottenere, e pertanto entriamo in una associazione abbastanza grande e forte da esser capace di portare avanti iniziative a questo livello. E fin qui nulla da dire: si tratta di ottime ragioni: desiderare di liberarsi quanto più è possibile dalle limitazioni connesse alla condizione di cecità, e confidare in una azione comune e organizzata è senz’altro segno di buon senso e di maturità civile. Tuttavia non sempre ciò si traduce in vero e proprio impegno nella vita associativa e in assunzione diretta di responsabilità al suo interno. E ciò sta comunque nell’ordine delle cose. Chiameremo questo atteggiamento “affezione moderata”, e possiamo aggiungere fin d’ora che essa è contraddistinta da notevole stabilità.
Ma vi possono essere anche altre ragioni, un po’ meno encomiabili, anche se umanamente comprensibilissime: quelle di chi non pensa affatto ad un percorso di emancipazione e di conquiste crescenti di autonomia, ma solo ad avere qualche agevolazione in più, di tipo prevalentemente economico, che semplicemente gli permetta di vivere un po’ più comodamente dentro la sua condizione e i suoi limiti, senza minimamente proporsi di superarli, ma anzi brandendoli come un’arma per rivendicare sempre più agevolazioni e vantaggi di tipo economico e nient’altro. Tra i soci di questo genere è frequente l’atteggiamento da un lato estremamente passivo, rispetto a qualsivoglia impegno associativo anche minimo venga loro richiesto e implicante ovviamente la delega totale ai dirigenti di ogni ordine e grado, dall’altro la facile critica dell’operato della dirigenza medesima, accusata spesso – più a torto che a ragione – di fare poco o niente, come i bambini che pretendono dalla mamma la soddisfazione piena e immediata dei loro desideri, senza ovviamente chiedersi quanto siano legittimi e quanto realizzabili. Chiameremo tale atteggiamento “affezione precaria”, poichè dettata spesso (ma non solo) da mera convenienza legata a momenti e bisogni contingenti (avvio della pratica pensionistica, ricerca di un posto di lavoro, necessità di trasferimento, accesso ad agevolazioni fiscali, ecc.), dopodichè tali persone non si vedono più, neppure alle assemblee annuali – e magari per anni non rinnovano neppure la tessera associativa -, fino al prossimo bisogno. Precaria anche perchè spesso queste persone vanno e vengono da una associazione all’altra, con periodi di latitanza pressochè totale da tutte le associazioni di categoria. Potremmo aggiungere che in esse non è ben chiaro il senso e il significato dell’associazione, per cui la trattano un po’ come la mutua: è lì, un servizio a disposizione, se sto male ci vado, se no me ne sto a casa mia, e ritengo di aver tutte le ragioni di lamentarmene quando non mi da quel che vorrei e che ritengo mio indiscutibile diritto.
E tuttavia, è proprio l’avvertire, sia pur confusamente, la limitatezza delle proprie risorse soggettive e di quelle del proprio specifico contesto sociale, che bene o male, anche se a fasi alterne, tiene queste persone legate alla nostra e/o ad altra associazione.
E’ al quanto evidente che questo tipo di affezione o disaffezione, (i termini hanno qui un valore quasi equivalente) precaria, è ben diversa dalla disaffezione netta di chi, proteso ad una emancipazione piena e puntando al massimo di autonomia ed integrazione sociale, pensa non solo di poter contare esclusivamente sulle proprie risorse e di non aver quindi bisogno di alcuna associazione, ma anzi teme che l’entrare a farne parte e magari assumere un ruolo attivo in essa lo rinchiuda in una logica di ghetto, riassorbendolo al suo interno e togliendogli tempo per dedicarsi al proprio entourage amicale e ai propri interessi personali.
Colui che abbiamo appena definito “nettamente disaffezionato” è come se dicesse: “io sono Tizio, amico, marito, amante di Tale, tal’altra e tal’altra ancora, me la cavo discretamente e son riconosciuto per le mie passioni e le mie capacità…; nell’associazione divento prima di tutto un cieco, costretto a rappresentare anche chi non sento affatto come affine a me e vicino ai miei interessi e all’esterno dell’associazione apparirei inevitabilmente simile a chi non sento affatto di rassomigliare, identificato per lo più e mio malgrado con quella immagine di essere limitato, debole e bisognoso da cui invece è tutta la vita che cerco con ogni mezzo di emanciparmi”. Una persona simile accetterebbe – forse – di appartenere a una associazione di categoria solo a condizione che vi facessero parte – specie nel suo gruppo dirigente – esclusivamente persone che, come lui, fossero protese principalmente verso la vita all’esterno dell’associazione stessa. Ne risulta inevitabilmente un’intima contraddizione, poichè, pur rendendosi eventualmente conto dell’importanza di un’azione politica e culturale collettiva e strutturata, una tale persona sente la vita associativa, il prendersicura della sua organizzazione e della sua continuità, come contrastante con le sue ambizioni più profonde: egli non cerca l’affermazione del proprio progetto emancipativo all’interno dell’associazione, diventandone magari dirigente, ma cerca di affermarsi nella vita comune, nella sua professione, nella sua personale rete relazionale, come individuo libero e largamente autosufficente.
E’ chiaro infatti che assumere cariche e incarichi dentro una qualsivoglia organizzazione comporta necessariamente una conoscenza approfondita non solo delle tematiche specifiche e delle sue regole di funzionamento, ma anche delle caratteristiche dei soci e dei suoi dirigenti ai vari livelli, ottenibile solo attraverso una frequentazione piuttosto intensiva delle strutture e della vita associativa: insomma, non si può starci dentro a metà. Tuttavia ragioni siffatte per restarne fuori non sono nè incomprensibili nè condannabili a priori: è indfatti tutt’altro che facile venire a capo della contraddizione tra il dedicarsi interamente all’impegno personale della propria emancipazione e il dedicare gran parte del proprio tempo alle varie questioni della vita associativa, che per loro natura comportano anche non pochi momenti nè emancipativi nè gratificanti, nei quali l’impegno profuso appare spropositato rispetto ai risultati conseguiti.
Ed ora chiediamoci: che cosa muove chi sceglie di dedicarsi completamente all’impegno associativo, con tutto ciò che comporta in termini di dispendio di tempo e di frequentazioni obbligate? Qui il discorso si fa ancora più complesso, poichè, oltre alle motivazioni – diciamo – ideali, entrano in gioco inevitabilmente anche ambizioni e modi di fare di tipo personale, e non è detto che le prime siano sempre e per tutti quelle realmente prioritarie, nonostante non si trovi praticamente nessuno disposto ad ammettere una simile eventualità. Ammesso dunque (ma non senza riserve concesso) che tutti i dirigenti d’ogni ordine e grado siano animati in primo luogo dal desiderio di rendere sempre più forte ed efficente l’associazione con l’obiettivo principale di favorire la maggior emancipazione ed autonomia possibile di tutti i ciechi e gli ipovedenti, soffermiamoci a considerare il tipo di “Affezione” di quei dirigenti di vario livello che, per ovvi motivi, non possono rientrare nè nella categoria degli “affezionati precari”, nè in quella dei “disaffezionati netti”. Si tratta dunque di quelli che all’inizio di queste riflessioni abbiamo definito “affezionati moderati”? Neppure, mi pare, poichè essi non sembrano vivere particolari contraddizioni interiori, e dedicano tutto o quasi il loro tempo alla vita associativa. Non solo, ma ambiscono spesso a riconfermare e possibilmente ad ampliare sempre più il proprio ruolo al suo interno. Ed anche questo è assolutamente umano e comprensibile: nessuno si mette in gioco se non è spinto da un pizzico almeno di ambizione personale di affermarsi tra quanti aspirano ad acquisire una certa carica ritenuta più o meno importante.
Ma il problema, ovviamente, non è questo. Il problema sorge quando – come in politica – si considera la carica conquistata come occasione per affermare un qualche proprio potere personale, più che un’incombenza che pone di fronte a precise responsabilità, non solo e non tanto verso i vari gradi della gerarchia, quanto in primo luogo verso i soci. A questo proposito va detto che particolarmente importante e delicato è il ruolo dei consigli e dei presidenti sezionali, poichè sono loro ad avere il contatto più diretto e quotidiano col corpo associativo, tanto da costituirne la vera spina dorsale. E’ a questo livello, prima di tutto, che occorrerebbe trovare in modo largamente diffuso un tipo di affezione associativa che definirei “netta ed equilibrata”. Non “moderata”, che non basta per mettere in campo la dedixione e il tempo necessario, nè, tanto meno, “precaria”, poichè ondivaga e biecamente rivendicativa. Netta, dunque non disposta a mettere in discussione l’appartenenza e l’impegno associativo all’insorgere di difficoltà o di venti di dissenso verso il proprio operato, ma “equilibrata”, nel senso che deve stare sì in ascolto dei bisogni e delle richieste della base – anche di quelle provenienti dagli “affezionati precari” -, ma non dimenticando mai di farsi promotrice di iniziative autenticamente volte all’emancipazione dei disabili visivi, anche quando esse provengono per così dire dall’esterno, ovvero dai “disaffezionati netti”. Guai se si perde questo equilibrio, se si diventa sordi alle critiche, se ci si rinchiude nel proprio ruolo difendendolo con ogni mezzo efacendo indebitamente appello all’unità associativa pur di metterlo al riparo da possibili ridimensionamenti: così si scivola inevitabilmente verso un’affezione sì fortissima, ma determinata più dall’attaccamento personale alla propria posizione di potere all’interno della gerarchia associativa che da un’autentica adesione alla causa dell’emancipazione dei ciechi e degli ipovedenti, si cominciano a trattare tutte le questioni in modo strumentale (a seconda che siano più o meno funzionali alla conservazione del proprio status, e si finisce col trattare questo o quel socio, questo o quel consigliere a seconda che lo si senta come amico (ovvero fedele alleato e sostenitore( o semplicemente come nemico.
Un’affezione siffatta avrebbe come effetto interno, quindi, la progressiva emarginazione di tutti i “non amici”, guardati con sospetto e ostacolati in ogni modo nelle loro eventuali iniziative ed ambizioni, e come effetto esterno quello di convincere vieppiù i perplessi e gli esitanti – e tanto più se dotati di buone competenze e capacità – a scegliere di allontanarsi sempre di più da ogni ipotesi di coinvolgimento nella vita associativa.
Dirigenti simili, laddove esistono (e qualcuno ne esiste davvero), pur se “affezionatissimi”, non si può dire che costituiscano fattori positivi di coesione interna e di capacità attrattiva di nuove ed utili risorse umane esterne. In più non offrono una gran bella immagine del cieco, assai meno di quella offerta da chi magari non parrtecipa alla vita associativa ma per come conduce la sua vita professionale e relazionale , è rispettato e financo ammirato nella realtà in cui vive.
Quando parliamo di rinnovamento, allora, per prima cosa sforziamoci tutti, dirigenti e non, di promuovere a tutti i livelli un’affezione quanto più possibile netta ed equilibrata, ricordandoci delle contraddizioni che essa obbliga a gestire e dell’impegno che comporta il mantenerla e il diffonderla. Solo a partire da essa, infatti, possiamo sperare di rafforzare la coesione interna e di attrarre verso l’Unione nuove risorse capaci di arricchirla di sempre nuove esperienze e competenze.
Francesco Fratta
“Cellulari tradizionali o Smartphone”?, di Patrizia Onori
on ricordo più da quanto tempo non ricevo una lettera scritta a mano, dato che la tecnologia spesso ci porta a dimenticare l’emozione di poter inserire i nostri pensieri in modo che rimangano impressi su carta.
Quanti bei momenti ho trascorso attendendo con ansia l’arrivo del postino per poter leggere attraverso la scrittura braille con attenzione le lettere che ricevevo da amici i quali mi scrivevano dalle diverse città d’Italia in cui vivevano.
Quell’attesa era indescrivibile e l’arrivo di quelle lettere lo era altrettanto ed era altrettanto indescrivibile poter leggere pian piano quei sognanti racconti, potermi immedesimare grazie a quelle storie tutte molto diverse ma nello stesso tempo, in ognuna di loro trovavo qualcosa di bello e di particolare da apprendere.
Oggi però, nonostante l’arrivo di smartphone e tablet, whatsapp messenger e facebook, mi diverto ancora a scrivere biglietti di auguri Natalizi, Pasquali e di compleanno e mi emoziona ancora fortemente spedire i miei piccoli scritti agli amici più cari.
Nonostante sia particolarmente coinvolgente scrivere e spedire le lettere nella maniera tradizionale, attualmente grazie alla tecnologia abbiamo varie possibilità di approcciarci agli altri in modo semplice e veloce ma soprattutto molto comodo.
Infatti, possiamo servirci dei cellulari tradizionali o degli Smartphone, con i primi è possibile produrre chiamate, messaggi, interagire nella rubrica dove ovviamente sono inseriti tutti i nostri contatti, chiamare e scrivere ai nostri amici ecc.
Con gli Smartphone, sicuramente più moderni, è possibile realizzare le stesse cose ma questi meravigliosi apparecchi, ci offrono ulteriori possibilità di comunicazione, dato che possiamo interagire con i nostri contatti anche attraverso applicazioni più moderne come facebook, messenger, watsapp ecc, oltre ad interagire attraverso la tradizionale messaggistica e naturalmente le consuete telefonate.
Alcune persone sono però al quanto titubanti ad avvicinarsi a questi moderni ausili, dato che molti tra i cellulari correnti, non sono provvisti della tastiera fisica ma possiedono una tastiera virtuale fruibile attraverso il touch screen “schermo tattile”, quindi non avendo la sensazione di toccare fisicamente i tasti con le proprie dita, preferiscono fare a meno di questi utili e comodi mezzi di comunicazione.
Io stessa, essendo affetta da disabilità visiva, non riuscivo a comprendere come un disabile visivo potesse utilizzare tali tipologie di cellulari, poichè ero aggrappata alla tradizionale tastiera, non tanto riguardo le telefonate da effettuare quanto la comunicazione attraverso la scrittura, poichè avendo un’assoluta padronanza della tastiera fisica, ho sempre creduto che scrivere toccando i tasti fosse più rapido e sicuro.
Ho notato però con mio immenso stupore, che grazie alle sintesi vocali di apple e di android, è assolutamente possibile comunicare anche scrivendo, dato che tali sintetizzatori vocali riescono tranquillamente a descrivere ciò che tocchiamo sullo schermo scorrendo con le dita.
Esistono due tipologie di Smartphone, infatti abbiamo la tecnologia apple con un sintetizzatore vocale denominato “Voice Over” considerata probabilmente più accessibile ai non vedenti ed abbiamo la tecnologia android con una buona sintesi vocale denominata “TalkBack”, che ci permette comunque di interagire tranquillamente con i nostri contatti e di fruire delle applicazioni più all’avanguardia.
In particolare, trovo molto comodo dato che lo utilizzo regolarmente, un cellulare con tecnologia android per altro ad un costo molto accessibile, poichè è provvisto di entrambe le opzioni infatti, grazie a questo telefono che è un vero e proprio Smartphone abbiamo la possibilità di interagire sia attraverso la tastiera fisica, sia attraverso il touch screen ed il tutto è supportato dalla sintesi vocale “TalkBack” di google.
Esiste questa tipologia di cellulare con tecnologia android e come ho appena descritto questo dispositivo è provvisto sia del touch screen sia della tastiera fisica ma so che ne esistono anche altri provvisti di entrambe le opzioni, quindi invito tutte le persone disabili visive, le persone affette da altre disabilità e le persone anziane ad usufruire di questi comodi mezzi di comunicazione, poichè credo sia giusto che tutti possiamo sentire più vicino chiunque viva lontano da noi, dato che grazie a questi ausili, ci viene offerta la possibilità di essere comunque presenti con le persone a cui teniamo pur vivendo a diversi chilometri di distanza.
Pronto? Chi parla?
Stabiliamo in autonomia, in libertà ed in modo veloce attraverso il cellulare, o con un comando vocale richiamando il nome dell’interlocutore, o agendo in modo tradizionale attraverso la tastiera richiamandolo dalla rubrica nuovi contatti di comunicazione fra le persone per trarne il meglio da tutto ciò!
E’ ovvio che la tecnologia non sostituisce e non sostituirà mai l’emozione di inviare o di ricevere una bella lettera cartacea, però ci offre numerose opportunità di relazione e particolarmente, ci mette nelle condizioni di esprimerci e di conoscerci in maniera più approfondita attraverso una costante comunicazione stando fuori casa senza dover utilizzare il computer.
Con questi dispositivi utilizzabili tranquillamente anche da noi disabili visivi, dopo un minimo di istruzione, è possibile ad esempio per mezzo dell’applicazione denominata whatsapp, inviare messaggi nel formato testo o audiomessaggi, ricevere ed inviare foto, attraverso un apposito programma è possibile inoltre interagire via mail tramite la ricezione e l’invio dei messaggi di posta elettronica, abbiamo inoltre l’opportunità di farci vocalizzare dalla sintesi vocale istantaneamente l’orario, la data e le previsioni meteo, di comunicare attraverso facebook e messenger, di leggere libri nel formato testo, audiolibri ecc.
Pensate a quante realtà è possibile ottenere grazie a questi semplici dispositivi e pensate soprattutto, alla magnificenza di poter realizzare tanto in breve tempo!
Patrizia Onori
Esperienza e riflessione di una giovane tirocinante extracurriculare, di Ylenia Vatano
Vi racconto una breve storia. Sono una ragazza di 24 anni, mi sono laureata da poco in “Scienze dell’Amministrazione” presso la facoltà Unitelma Sapienza di Roma. Dal 6 marzo scorso sono impegnata in un tirocinio formativo extracurriculare presso la sede territoriale UICI di Vibo Valentia. Questa opportunità è nata dal fatto che esiste una convenzione (stipulata nel 2015) tra l’Ateneo e la Presidenza Nazionale UICI. Sono entusiasta di vivere questa esperienza perché, giorno dopo giorno, mi arricchisco sia sotto il profilo professionale (sto mettendo in pratica tutte le conoscenze acquisite durante la mia formazione universitaria) che sotto il profilo umano. La realtà dell’UICI di Vibo Valentia mi ha colpito da subito e questo perché le persone intorno a me si sono dimostrate cordiali e disponibili, tanto da coinvolgermi immediatamente in tante attività associative. Le ore di tirocinio scorrono velocemente perché mi trovo perfettamente a mio agio: l’aria che si respira all’interno è serena e tranquilla, dove tutti aiutano tutti con il sorriso sulle labbra, soddisfatti di poter essere utili agli altri. Quello che posso dire è che mi sento di far parte di una grande famiglia allargata! Come è già noto in questi giorni, l’aria festosa che si respira in Sezione è stata offuscata da un velo di tristezza: è scomparso prematuramente il Presidente territoriale Giovanni Barberio e questo è motivo di grande dolore per tutti noi. Il Presidente lascia la moglie Francesca e un figlio in tenera età. Anche io sono coinvolta in questa sofferenza perché ho avuto la fortuna di conoscere il Presidente e capisco bene la perdita subita dalla Sezione tutta. Il Presidente mi ha dato da subito la sensazione di un uomo carico di vitalità e con tanta voglia di vivere. Proprio per questo, era una persona benvoluta da tutti, chiunque l’abbia conosciuto lo descrive come un vulcano in azione, pieno di idee, di iniziative e di progetti. Certamente nella sua vita terrena ha lasciato una traccia: una vita spesa al servizio degli altri. Approfitto di questa mia occasione per fare dei ringraziamenti: al mio tutor aziendale Tommaso, a Paolo della segreteria di Vibo Valentia e un ricordo certamente al Presidente Barberio e a tutti quelli che mi hanno sostenuta e consentito di vedere realizzato il sogno di poter applicare nei servizi del terzo settore le mie conoscenze. Sono onorata e orgogliosa di essere il primo caso in Italia a eseguire un tirocinio extracurriculare presso l’UICI e aver dato un’idea a quanti vogliano vivere la mia stessa esperienza, anche in altre sezioni territoriali dell’UICI.
Ylenia Vatano
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“…nemmeno con un fiore”, di Mattia Gattuso
Donne…violenza…giustizia è il titolo della conferenza organizzata dal Gruppo Rotariano Comunitario Sicilia Lux Mundi di Catania, presieduto dal vice questore aggiunto della Polizia di Stato dott.ssa Adriana Muliere, tenuta il 12 marzo 2017 presso il Castello Leucatia di Catania.
L’evento ha visto il coinvolgimento del Rotary Catania Duomo 150 presieduto dal dott. Angelo Alaimo e la condivisione delle Associazioni Città Solidale, Anteas e Dyogene & Athena.
La moderatrice èstata la stessa dott.ssa Muliere mentre i relatori sono stati il dott. Maurizio Catania, grande amico dell’UICI, e fra i relatori, oltre alla dott.ssa Grazia Lizzio, funzionaria della Prefettura di Catania, all’attrice e pittrice Maria Athena Perconti, ho svolto la mia relazione anche io, nella duplice veste di avvocato e di consigliere della sezione provinciale etnea dell’Uici.
Riassumo di seguito il mio intervento.
“…nemmeno con un fiore”
L’argomento che ho trattato, per evidente affinità professionale, è stato quello della giustizia o, purtroppo, dell’ingiustizia che colpisce le donne in generale e quelle disabili in particolare.
Ho dovuto sgombrare subito il campo da equivoci, infatti, facile parlare di parità dei sessi ma la parità si ha quando si parte dallo stesso punto di partenza e, lungo il percorso, si hanno le medesime possibilità.
Invece, checché ne pensino i branditori di parità a parole, la natura ha frapposto un ostacolo naturale alla parità stessa: per natura l’uomo è fisicamente più forte della donna e l’atto di violenza fisica che promana da un uomo è certamente più devastante di quello che può giungere da una donna. Se poi la donna è disabile, ed in particolare priva della vista, le possibilità di difendersi si riducono veramente al lumicino.
Per questo l’uso del termine femminicidio, come specificazione di quello più generico di omicidio, ha una sua ragion d’essere.
Nella mia regione adottiva, la Sicilia, era diffusissima la pratica della cd. Fuitina (il rapimento della donna che andava a convivere con l’uomo), che rappresentava un vero e proprio manifesto pubblicitario di avvenuta consumazione carnale del rapporto, cui doveva obbligatoriamente seguire il matrimonio riparatore.
La Fuitina era, però, un reato plurimo aggravato e continuato consistendo quantomeno di un rapimento, di una violenza sessuale e di una coartazione morale che si protraeva spesso per tutta la vita.
Il più delle volte infatti la Fuitina coinvolgeva donne non consenzienti e spesso minori di età che, dopo essere state “disonorate”, avevano solo la strada del matrimonio per salvaguardarsi dagli strali dell’occhio sociale.
Non bisogna essere dimentichi, e mi rivolgo in particolare ai giovani, che prima del 1976, data di entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, la potestà sui figli era solo patria, essendo riservata solo al padre, e non vi era parità fra marito e moglie.
L’adulterio, previsto nell’art. 559 codice penale, solo nel 1968 fu dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. Perciò se tradiva l’uomo nulla quaestio ma se tradiva la moglie era reato e se l’uomo commetteva il delitto passionale, cioè l’uccisione della donna, e spesso dell’amante, colta in flagrante, scontava una pena attenuata.
Sto parlando di appena 50 anni fa.
L’attuale eco mediatica che hanno i fatti di violenza contro le donne ha di differente, rispetto al passato, la diversa coscienza sociale e la possibilità di diffusione universale delle notizie che è ben differente dal lenzuolo macchiato di sangue appeso davanti alla casa a dimostrazione dell’illibatezza della donna.
Abbiamo dovuto attendere il 2009 affinché il legislatore raccogliesse le istanze della società per l’individuazione di una nuova figura di reato che si occupasse della persecuzione nei confronti delle donne, cosa avvenuta con il D.L. 11/2009, convertito con la legge 38/2009, che ha inserito nel codice penale l’art. 612 bis meglio conosciuto come stalking, dall’inglese to stalk, che significa “fare la posta”.
Al momento della promulgazione, siamo nel 2013, del decreto legge di modifica di una disciplina rivelatasi insufficiente, lo stesso Capo dello Stato ha ritenuto che “il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti ad inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla difesa delle donne e di ogni vittima di violenza domestica”.
Né il codice né la legge forniscono una definizione di femminicidio, sicché è utile adottare le nozioni già esistenti nel linguaggio comune e nella letteratura criminologica.
Dal primo punto di vista pare senz’altro azzeccata la definizione fornita dal più recente Devoto – Oli per cui la parola femminicidio comprende “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.
In ambito criminologico, inoltre, la donna è stata individuata come un tipo vittimologico, posto che il femminicidio racchiude “l’insieme di pratiche violente esercitate da un soggetto di sesso maschile in danno di una donna “”.
La reiterazione delle condotte persecutorie, idonee, alternativamente, a cagionare nella vittima un “perdurante e grave stato di ansia o di paura”, a ingenerare un “fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva” ovvero a costringerla ad alterare le “proprie abitudini di vita” rappresentano ciò che caratterizza il reato ed il cui avverarsi integra la fattispecie in parola.
Per quel che concerne poi la particolare aggravante contenuta nell’art. 612 bis c.p. essa si riferisce espressamente anche alle persone portatrici di handicap ex art. 3 legge 104/92 . La norma, però, non fa differenza fra portatori di handicap in situazione di non gravità ex comma 1 e in condizioni di gravità ex comma 3.
Dal punto di vista procedurale la querela, remissibile solo in ambito processuale, può essere proposta entro 6 mesi.
La disciplina prevede anche una tutela anticipata di natura amministrativa che si può attivare tramite ricorso al questore che, fatti i debiti accertamenti, può ammonire il persecutore affinché interrompa i propri comportamenti.
La legislazione svolge il suo compito, cioè fornire ai magistrati gli strumenti per perseguire e condannare coloro che violano la norma ma, il vero cambiamento, deve essere culturale.
Relazione sulla partecipazione alla Stramilano, di Benedetto Dieghi
Domenica 19 marzo, ho partecipato insieme alla sezione di Mantova e ad altre città della Lombardia dell’unione ciechi, alla Stramilano. Tra gli ospiti d’onore a questa edizione della manifestazione non competitiva vi erano anche l’atleta paralimpica Giusy Versace e il canoista Rossi. Hanno preso il via da piazza Duomo, in pieno centro Città, migliaia di persone di qualsiasi età, disabili e associazioni che si occupano dell’integrazione degli immigrati in particolare quelli ospitati nella caserma Montello in provincia di Milano. La competizione è partita alle 9.30 da Piazza Duomo e si è disputata su tre distanze rispettivamente 5 km, mezza maratona (10 km) e maratona competitiva (21 km) .
Prima di partire gli organizzatori della Manifestazione hanno fornito a tutti i partecipanti la maglia con la pettorina di colore azzurro, cibi, bevande e un fascicolo dove erano descritte le prove previste, inoltre menzionati i vincitori e le vincitrici delle scorse edizioni, gli interventi delle autorità Locali e Regionali (il sindaco Sala, il presidente della Regione Lombardia Maroni gli Assessori Turismo, Politiche sociali e giovanili, Sport). Al termine della corsa il gruppi dell’unione ciechi si sono recati alla mensa della sede cittadina dell’U.I.C.I. per il pranzo, è per poi spostarsi verso le stazioni milanesi per rientrare nelle rispettive città. è stata una giornata trascorsa nel segno della solidarietà , della socializzazione e dello sport dove l’importante è stato partecipare e non vincere in quanto la maggior parte dei partecipanti non erano né atleti né famosi, ma persone comuni che hanno deciso di mettersi in gioco chi correndo chi camminando prendendo parte alla manifestazione.