Matera 20 febbraio 2019
Uno dei concetti fondamentali che ci dice la pedagogia, e con essa la pedagogia che si occupa e preoccupa delle persone con disabilità, è quello della Educabilità, intesa come senso profondo dell’umanità che è in ciascuno di noi.
Sembra quasi ovvio insistere, qui, sul principio della educabilità di chi non vede anche se ritengo importante ribadire quei concetti dati per consolidati ma che in realtà, per i più, non lo sono. Basta seguire un po’ la stampa generalista e quella specializzata del settore e leggere quasi quotidianamente episodi di mala scuola, di cattiva inclusione per carenze amministrative e burocratiche connesse con la politica del personale docente ma, credetemi anche a volte, per mancanza sia di sensibilità educativa che di conoscenze. E il Braille è, tra quelle, una delle conoscenze specifiche più peculiari e importanti che la scuola, sia dell’infanzia che dei gradi successivi, deve possedere quando accoglie alunni disabili visivi.
In questi ultimi anni, in occasione della Giornata Nazionale del Braille sono stato invitato più volte ad esporre, insieme ad altri colleghi, riflessioni sul Braille (chi scrive ha insegnato nella scuola media per ciechi, poi integrata per ciechi e vedenti all’Istituto di Milano, praticando direttamente con i ragazzi il Braille) e sempre tutti abbiamo evidenziato l’alto valore culturale del Braille.
Un sistema che va sempre tenuto “in focus”, proprio in questo momento storico in cui la tecnologia è uno degli elementi costitutivi della società. Infatti, se da un lato il mondo digitale ha valicato diversi confini e sicuramente ha portato soluzioni per molti problemi dall’altro, specialmente nella sfera della relazione umana e nell’insegnamento di qualcosa a qualcuno, (soprattutto nella primaria o comunque nel primo ciclo) la tecnologia ancora non offre risposte perché forte è il bisogno del bambino di legami emotivi e di motivazioni affettive. In una scuola che purtroppo, spesso, naviga sull’onda di questa moda associata ad una tecnologia pervasiva anche in campo didattico (una dimensione didattica adatta, a mio parere, a saperi freddi) il Braille corre dei rischi, sopraffatto da affermazioni tipo “con il computer il Braille è ormai superato” e altre superficialità non appartenenti certo alla cultura tiflopedagogica.
Allora, pur se per brevi tratti, cerchiamo, qui, di potenziare il valore del Braille soprattutto partendo dal rispetto per il bambino non vedente oggi, il giovane e l’adulto di domani, pensati però come cittadini ai quali è dovuta la difesa del principio del diritto allo studio a partire dal saper leggere e scrivere. Con questa particolare sottolineatura: saper leggere e scrivere AUTONOMAMENTE, senza mediatori, in modo diretto, intimo, personale. Dove il gesto del fermarsi, del procedere, del tornare indietro nella lettura o nella scrittura, non richiede comandi da digitare su una apparecchiatura ma dipendono esclusivamente dalla mano ovvero dalla volontà di chi legge o scrive.
Altra considerazione che intendo proporre è questa: il Braille è stata ed è una soluzione geniale di un problema. Il Braille non è nato dal buon cuore di qualcuno, con tutto il rispetto per gli atti di buon cuore, è nato dallo sforzo intelligente, geniale appunto, di chi non vedendo, ha sentito innanzitutto l’indomabile esigenza di accedere là dove tutte le strade sembravano precluse: la scrittura e la lettura. In che modo? In modo DIFFERENTE. Quante cose nella storia dell’umanità sono cambiate proprio perché ad un certo punto qualcuno le ha guardate o considerate in modo differente o, semplicemente si è chiesto il perché?
Possiamo definire il Braille una DIFFERENZIAZIONE INCLUSIVA? Sì, e per diverse ragioni, a partire proprio dalla sua differenza.
DIFFERENTE perché insiste sulla modalità TATTILE e non su quella visiva; DIFFERENTE perché il codice tattile non ha nulla in comune con quello grafico visivo; INCLUSIVA perché il Braille, con la sua specificità insiste in un contesto comune, di tutti: saper leggere e scrivere nella propria lingua madre e/o nelle altre lingue. In buona sostanza è come andare in un negozio in aeroporto e pagare gli acquisti con monete diverse, differenti, specifiche. Le diverse monete vengono accettate. Lo scopo rimane comune.
Già da questo semplice esempio si evincono gli elementi che collocano il Braille in una dimensione “normale” che non deve spaventare gli insegnanti vedenti che operano con bambini ciechi.
Il Braille è inevitabile. Il Braille non è una soluzione didattica per far capire, in modo più efficace al bambino non vedente, un contenuto, un concetto ecc. Il Braille è ciò che serve al bambino non vedente per la costruzione del proprio bagaglio cognitivo, così come l’alfabeto grafico-visivo lo è per chi vede.
Nell’apprendere a leggere e scrivere (il Braille) il bambino compie operazioni cognitive che lo rendono consapevole della parola, dello spazio fra le parole, dell’ortografia, della dimensione ritmata tra righe e pagina, un insieme di atti motori, di motricità fine e di affinamento senso-percettivo che, nello stesso tempo, costruiscono i concetti, la corrispondenza con la realtà. Saper scrivere una pagina reale diventa un passaggio indispensabile per “sapere scrivere una pagina virtuale”. Significa avere cognizione di quale sia la dimensione, la quantità di ciò che si deve leggere, 5 o 10 pagine non sono la stessa cosa, significa saper costruire riferimenti spaziali concreti ai quali potranno essere associate, poi, misurazioni anche temporali.
Molte delle considerazioni scientifiche sull’apprendimento ci dicono che scrivere, saper scrivere, migliora la comunicazione verbale, la memoria, la coordinazione motoria, le capacità organizzative, la capacità attentiva, il pensiero astratto. La letto-scrittura alimenta l’attività cognitiva. Leggere il Braille, scrivere in Braille, fa parte di questa attività del pensiero, della mente per chi non vede.
Ciò fa riflettere inoltre su quanto sia importante l’AGIRE individuale, con le mani, sulla parola “scritta da me e che sento sotto le mie dita”, e non essere sempre AGITI, nella condizione di semplici recettori passivi. Anche l’utilizzazione futura di tutto il mondo web non può prescindere dalla condizione di autonomia che trova però le sue radici, ineludibili, nel possedere la competenza nella letto-scrittura Braille. L’era digitale, anche per chi non vede, ha sostituito la scrittura? Direi di no.
La cultura della scrittura, del libro, ha aperto la via a pratiche e funzionamenti cognitivi e psichici che non possono essere tralasciati. Quello della cultura del libro è un paradigma che oggi, certo, deve fare i conti con la cultura del digitale (e dello schermo per chi vede) ma noi siamo tra quelli che pensano sia importante, anzi fondamentale, salvare dapprima l’acquisizione della scrittura vissuta tra le dita, sentita, costruita in modo personale, autonomo e successivamente, esercitata in modo libero e volontario, con le diverse modalità acquisite, per navigare nell’oceano del digitale.
In EDUCARE AL COMPRENDERE Howard Gardner ci ha detto che non è possibile istruire se prima non si è provveduto alla costruzione dell’identità. Ebbene cosa è il Braille per chi non vede se non uno dei mattoni costitutivi della sua identità? Un codice che permette di conoscere la propria lingua madre e di saperla riprodurre, un codice che mette in comunicazione, che NON separa. Anche chi non vede è portatore di intelligenze e tra queste intelligenze multiple, (sempre ricordando Gardner), quella linguistica, logico-matematica, musicale, solo per fare qualche esempio, sarebbero possibili senza la conoscenza e l’uso (della letto-scrittura) del Braille?
È ancora necessario ribadire la qualità inclusiva del Braille? Un codice differente sì, come lo sono tanti altri codici di cui siamo a conoscenza a seconda dei nostri interessi o ambiti professionali, ma un codice che include! Man Ray (famoso fotografo e pittore dadaista) ha scritto che non si chiede mai ad un pittore quali pennelli usa o a uno scrittore che macchina usa per scrivere, quel che conta è ciò che crea, ciò che scrive, è l’idea non la macchina.
Se pensiamo al sistema Braille abbiamo l’evidenza della verità di questa affermazione: il codice tattile ci offre l’esempio che ciò che conta è ciò che si esprime non la modalità o lo strumento con i quali ci si esprime. E quello del Braille non è uno specialismo escludente bensì esclusivo nel senso di peculiare, prezioso. Richiede una competenza che tutti abbiamo, quella tattile, una competenza però, quando manca la vista, che diventa SPECIFICA e, nello stesso tempo, IRRINUNCIABILE e IMPRESCINDIBILE, da sviluppare in termini educativi e cognitivi rispettando le fasi di sviluppo e apprendimento in relazione alle caratteristiche, all’età e alla unicità della biografia del bambino non vedente.
Lo specialismo esasperato, in ambito educativo intendo, indirizza la persona disabile su versanti non scolastici, adiacenti alla scuola e alla persona (es. ambiti terapeutici) ma NON scolastici.
La specificità caratterizza e, se (ri)conosciuta, include.
Il Braille non è qualcosa che ripara il danno, è uno strumento per la cultura di chi non vede, è per tutti perché, se ci pensiamo bene, “butta giù parecchie barriere”. È una modalità differente di scrivere e leggere che non è in mano ai terapeuti di qualsiasi natura bensì agli educatori.
Incontrare sul proprio cammino scolastico insegnanti che conoscono e sanno insegnare il Braille significa incontrare figure educative che sanno “riconoscerti come bambino che non vede, nella tua peculiarità e contribuire, così, seriamente alla costruzione e consolidamento della tua identità”. Dove riconoscere, nel senso più bello dell’insegnare, significa “stare accanto”.
Da un’altra angolazione insegnare il Braille, sempre sul piano della costruzione dell’identità, significa imparare a rispettare, attendere i tempi del bambino non vedente, dello sviluppo del suo apprendimento, per permettergli di padroneggiare il codice che, nel futuro, gli consentirà di utilizzare con sicurezza tutti gli altri diversi mezzi e sistemi utili per accedere alla conoscenza.
L’inclusione sociale ha come premessa imprescindibile l’inclusione scolastica. Se non avviene nella scuola non avverrà nemmeno, a pieno titolo, nella società.
Il grande poeta argentino Borges in una delle sue illuminanti riflessioni ha scritto “… cos’è il libro? Il libro, la scrittura, è l’estensione della memoria…”.
A chi irresponsabilmente afferma un dubbio, o peggio, un No al Braille, per una acefala adesione al mondo digitale, dimenticando che prima di qualsiasi strumento o macchina che noi possiamo utilizzare per muoverci dobbiamo innanzitutto imparare a stare sulle nostre gambe e a camminare da soli, porgo questa domanda: “è possibile togliere la scrittura a chi può avvalersene, conoscerla, gioirne e praticarla per sé o per donare idee agli altri, una scrittura personale, non mediata, solo perché non la si conosce?”.