Esperienze di vita associativa, di Carlo Carletti

Autore: Carlo Carletti

Avvertito dall’amico Prof. Piero Bigini, responsabile istruzione della Sede Centrale, partecipai ai funerali del Presidente dell’UIC Prof. Paolo Bentivoglio, deceduto a Roma il 22 Dicembre 1965. In quell’occasione di grande tristezza, i Dirigenti Nazionali più autorevoli, nel salutare ciascuno dei tanti partecipanti, dissero che da quel momento in poi, con il venir meno del nostro Presidente, avremmo dovuto raddoppiare il nostro impegno associativo. Dopo alcuni giorni, il Consiglio Nazionale elesse, nonostante qualche inopportuno e sgradevole tentativo di veto da parte di alcuni esponenti del Governo, sollecitati anche da alcuni personaggi ciechi, il nuovo Presidente Nazionale nella persona di Giuseppe Fucà, che lo stesso Prof. Bentivoglio si era premurato di indicare quale suo eventuale successore. Nell’Aprile del 1966, sollecitato a porre la mia candidatura per la elezione a Consigliere della Sezione Interprovinciale di Roma, risultai eletto insieme al Prof. Enrico Ceppi, nella veste di Presidente, al Prof. Remo Sallustri, Vice Presidente, all’ex Sindaco di Roma, Franco Rebecchini, Consigliere delegato, al cantante romano Giorgio Onorato, a Franco Politi e ad altri.
L’attività procedeva bene e i momenti di difficoltà e qualche diversità di opinione, che non mancava mai, veniva quasi sempre superata grazie ai consigli del Prof. Bigini, al quale spesso ricorrevo. Nel Dicembre dello stesso anno fui invitato a partecipare al mio primo Congresso Nazionale, in sostituzione di un rappresentante della mia Sezione che non poteva essere presente. Io allora ero ventitreenne e credo di essere stato uno dei più giovani partecipanti. Fu un’esperienza straordinaria. Ascoltando i tanti discorsi dei Dirigenti dell’Unione, dei Ministri e degli uomini politici molto importanti e influenti, che nel ricordo di Nicolodi e di Bentivoglio, formulavano a Fucà l’augurio per la continuazione del suo incarico di Presidente, non riuscivo a capacitarmi del perché alcuni ciechi e altri politici potessero tramare contro l’Unione e i suoi uomini migliori. Il Congresso si concluse, comunque, nel migliore dei modi, con l’elezione di un gruppo dirigente che confermò Fucà alla Presidenza Nazionale e da quel momento l’Unione ricominciò il cammino verso la conquista dei diritti che Bentivoglio soleva spesso proporre. In quel periodo il più caparbio oppositore dell’Unione e delle richieste pensionistiche in favore dei ciechi civili era il dott. Vincenzo Caracciolo, cieco egli stesso, nominato dal Governo di allora, quale Presidente dell’Opera Nazionale Ciechi Civili. I lunghissimi tempi di attesa e le regole restrittive con le quali l’Opera concedeva le pensioni, cominciarono a suscitare un forte malcontento fra le persone cieche, che in quei tempi vivevano condizioni di assoluta indigenza. Condividevo le ragioni di queste persone e indirizzavo il loro malcontento verso la gestione dell’Opera Nazionale, ma il mio atteggiamento non era apprezzato e condiviso da alcuni benpensanti che ritenevano certe forme di lotta disdicevoli e controproducenti per l’immagine della Sezione. Altra ragione di poca comprensione con i dirigenti della Sezione, era la mia difesa dei diritti delle persone affette da patologie progressive e irreversibili, che ancora conservavano un residuo visivo, perché l’opinione di alcuni era quella di assistere solo i ciechi assoluti. I miei rapporti con la Sezione si fecero gradualmente più rari, ma intensificai quelli con il Prof. Bigini e con il Presidente Fucà, con i quali il mio pensiero era certamente più affine. I Dirigenti Nazionali dell’Unione ed in particolare il Prof. Bigini, in quel periodo, erano impegnati per l’approvazione di una proposta di legge in favore del collocamento degli insegnanti ciechi, il cui firmatario era il Sen. Baldini. Avendo fatto la conoscenza di una ragazza che in seguito divenne mia moglie, che abitava a Cisterna di Latina, ebbi la possibilità di conoscere i fratelli del Senatore Baldini, che originari di Modena, a Cisterna gestivano un allevamento di polli. Tramite loro ebbi modo di istaurare buoni rapporti con lo stesso Senatore, che facilitarono gli opportuni incontri con i Dirigenti Nazionali dell’Unione. Ebbi anche l’occasione di accompagnare a Modena il Prof. Bigini, dove insieme ad Angela Lugli, Piani ed il Prof. Gianfale, incontrammo il Senatore, nella Sezione dell’UIC. La legge fu rapidamente approvata con il sostegno determinante dello stesso Sen. Baldini e del Senatore Elkan, allora Dirigente dell’Istituto Cavazza. In quell’occasione, non mancarono da parte di alcuni illuminati Prof. atteggiamenti sarcastici, per il fatto   che un centralinista come me, privo di un adeguato titolo di studio, potesse occuparsi di una legge che riguardava insegnanti e laureati. Anche Giuseppe Fucà non fu esente da valutazioni negative, infatti dagli stessi professori sopra citati nonché da alcuni avvocati, veniva considerato inadeguato all’assolvere il suo ruolo di Presidente, in quanto non in possesso di una Laurea, ma solo di titoli di scuola professionale. La mia particolare attenzione per la situazione pensionistica dei ciechi, mi aveva portato da qualche tempo a fare la conoscenza del dott. Giorgio Morelli, funzionario dell’Opera Nazionale Ciechi Civili, che condivideva pienamente l’attività che svolgevo nell’ambito dell’Unione. Non potendosi esporre più di tanto, in virtù del ruolo che ricopriva, mi forniva ottimi consigli per meglio tutelare il diritto alla pensione delle persone cieche. Con Giorgio Morelli, un cieco civile già Presidente della Sezione di Ascoli Piceno, molto introdotto negli ambienti del PCI e della CGIL, strinsi tali rapporti di amicizia che fu testimone al mio matrimonio e battezzò il mio primo figlio. Più volte ci incontrammo con il Presidente Fucà e fummo anche suoi ospiti nella sua abitazione, in via delle Coppelle, per concordare le azioni volte a portare avanti una legge che migliorasse gli importi delle pensioni, che dovevano essere erogate sulla base del reddito della sola persona cieca, che migliorasse l’indennità di accompagnamento e che prevedesse anche la soppressione dell’Opera Nazionale Ciechi Civili. Fra i soci intanto cresceva il dissenso verso l’Opera e verso il Consiglio della Sezione Interprovinciale di Roma, che non assumeva alcuna posizione in difesa dei loro diritti.  Nel mese di Febbraio 1968, il Consiglio della Sezione venne sciolto e fu nominato quale Commissario il Prof. Cesare Colamarino, un galantuomo che mi volle al suo fianco nella veste di Vice Commissario, con il compito di organizzare le Sezioni nelle Provincie di Frosinone, di Latina, di Rieti e di Viterbo, dove l’UIC era fino allora assente. Potei assolvere questo compito con l’encomiabile aiuto e la totale disponibilità di Vittorio Caccioppola a Latina, di Giampiero Notari a Rieti e di Leucio Fortini a Viterbo. Per la Provincia di Frosinone l’incarico fu affidato a me, che lo svolsi con la collaborazione di Raffaele Faina. Nel frattempo la battaglia per la conquista di una miglior legge sulle pensioni era iniziata. Mi fu affidato il compito di costituire un Comitato pro-pensioni, del quale fecero parte anche Leucio Fortini, Gianpiero Notari, Vittorio Caccioppola, Raffaele Faina e Paolo Recce, per coordinare le manifestazioni di piazza che iniziarono nel mese di maggio 1968. Alle prime manifestazioni parteciparono i soci di Roma che venivano coinvolti da  un gruppo di centralinisti molto attivi. Le costituende Sezioni del Lazio fecero affluire i ciechi e i loro familiari, con numerosi pullman nei luoghi concordati, in particolare presso il Ministero dell’Interno e del Tesoro. A questi manifestanti si unirono, fornendo un grande contributo, anche i soci della Sezione di Pisa guidati da Paolo Recce. Nel corso del1968, furono organizzate ben tre manifestazioni. Nel 1969, a partire dal mese di Febbraio, furono organizzate altre quattro manifestazioni, di cui due anche con l’istallazione di tende davanti a Montecitorio e di fronte a Palazzo Chigi. Quei clamorosi gesti, che  colsero di sorpresa anche le forze dell’ordine e che    ebbero molto risalto sulla stampa ci consentirono di interloquire con molti esponenti politici. Particolarmente attivi furono i soci di Rieti nel montare le tende, guidati da Notari e da Mario Posciente, una persona vedente ora purtroppo scomparsa. Nei primi giorni di giugno, mentre mi trovavo insieme a mia moglie e il bambino di pochi mesi, in casa dei miei suoceri a Cisterna di Latina, arrivò Giuseppe Fucà accompagnato da Benedetto, suo fedelissimo autista. Sorpresi dall’inaspettata visita, chiedemmo cosa mai fosse accaduto per averlo fatto giungere fin lì e Fucà, abbracciando mia moglie Giovanna, gli chiese di fagli un grandissimo regalo, quello di lasciarmi libero per un mese, perché quel mese di giugno sarebbe stato decisivo per la sorte della legge sulle pensioni. Aggiunse che non si doveva preoccupare perché sarei stato ospitato a casa sua in via Valmelaina oppure in casa di Giorgio Morelli. Giovanna con il pianto nel cuore non seppe dire di no ed io partii quindi subito alla volta di Roma. Le manifestazioni di protesta, che coordinavo insieme al Comitato Pro-Pensioni dei ciechi, erano dirette contro il Governo ma, nel gioco delle parti, si coglieva ogni occasione per esprimere il dissenso anche contro i dirigenti dell’Unione perché  mantenevano buoni rapporti con i rappresentanti del Governo, nonostante la scarsa attenzione verso i nostri problemi. Ricordo che un giorno, durante una manifestazione presso il Ministero dell’Interno, mentre eravamo in attesa di essere ricevuti dal Ministro Restivo, per fare un po’ di scena, chiesi di poter telefonare alla Sede Centrale dell’Unione dove sapevo essere presente il Vice Presidente Ammannato. Mi rispose la segretaria, sig.ra Millefiorini, che alle mie rimostranze contro Ammannato e gli altri dirigenti che non erano a manifestare con noi, piangendo disse che i Dirigenti dell’UIC non meritavano di essere offesi e non me lo volle passare al telefono. Il giorno successivo, il Presidente Fucà, recandosi al Ministero dell’Interno, fu informato che i ciechi contestavano anche lui e l’Unione. Fucà, che naturalmente era al corrente di tutto, si limitò a dire che se non fossero state accolte le proposte dell’Unione, il Governo avrebbe dovuto fare i conti con tanta gente disperata che non credeva più ad alcuno. Altra manifestazione con centinaia di ciechi si svolse, dopo solo quindici giorni, presso Palazzo Chigi verso la fine di giugno 1969. Occupammo l’incrocio stradale di Largo Chigi bloccando il traffico, ma intervennero quasi subito le forze dell’ordine. Mentre mi stavano prelevando perché con il megafono incitavo a continuare il blocco stradale, venne in mio soccorso il dott. Aldo Aiello, Capo della Segreteria del Vice Presidente del Consiglio, On . Francesco De Martino, il quale chiese al Commissario di Polizia di lasciarmi libero , perché ero atteso, con una delegazione di ciechi, per un colloquio dallo stesso On. De Martino. A quel punto invitai i manifestanti a liberare la strada. L’incontro con il Vice Presidente del Consiglio fu positivo, perché disse che avevamo ragione e che il Ministro del Tesoro in tempi brevi avrebbe trovato la copertura finanziaria alla proposta di legge. Ci disse anche che dovevamo stare tranquilli, perché l’on. Pieraccini, un amico storico dei ciechi, seguiva la vicenda per conto del Partito Socialista. Soddisfatti per le assicurazioni ricevute, la protesta ebbe termine. Per ogni manifestazione, di cui per la Polizia risultai responsabile, accumulai almeno cinque denunce riguardanti manifestazione non autorizzata, occupazione di suolo pubblico, blocco stradale, resistenza e offesa a pubblico ufficiale e non so più che altro, che mi procurarono non pochi disagi e conseguenti processi presso il Tribunale di Roma, che si conclusero favorevolmente. Qualche dirigente dell’UIC, pensando che fossi un incorreggibile ribelle , arrivò a proporre a Fucà la mia espulsione dall’Associazione. (Evidentemente ero un predestinato). In quel periodo ero libero dal lavoro, perché un abbassamento di vista non mi consentiva più di lavorare al vecchio centralino a spine del Credito Italiano, in quanto per passare le comunicazioni avrei dovuto infilare le spine negli appositi fori, che però non riuscivo più a vedere. Fui messo per qualche tempo a riposo in attesa che fosse sostituito quel Centralino con uno più moderno. Ebbi pertanto modo e tempo di assecondare il Presidente in tutte le azioni più utili per la causa. Con il Presidente Fucà ci si incontrava spesso anche a casa di Morelli, ubicata vicino a piazza Montecitorio, per fare il punto della situazione e ogni qualvolta che si doveva incontrare, in via riservata, un esponente politico o quei dirigenti dell’Opera, che come Morelli, condividevano l’azione dell’Unione. L’ostacolo più difficile da superare era sempre il Ministro del Tesoro Colombo, che il Presidente Fucà e gli altri Dirigenti Nazionali cercavano di incontrare inseguendolo in ogni parte d’Italia. Un giorno che si svolgeva un convegno della DC presso il Palazzo dei Congressi, inviato da Fucà, mi introdussi nella sala con l’aiuto di mio cognato, Sindaco democristiano di un paesino della provincia di Frosinone. Il Ministro Colombo fu inavvicinabile ma quando si liberò un posto accanto a quello dell’On. Andreotti, mi sedetti accanto a lui, dicendogli che il Ministro Colombo aveva negato al Presidente Fucà, per l’ennesima volta, la copertura economica della legge che portava anche la sua firma. L’On. Andreotti mi disse di riferire che il Ministro del Tesoro, al più presto, avrebbe trovato i soldi  per la legge che interessa i ciechi. Ritornai da Fucà con tale notizia e lui si sentì un po’ più sollevato. In quei giorni era particolarmente rattristato dal fatto che la moglie Milena era stata ricoverata in ospedale e che lui non poteva essere al suo fianco e non poteva assistere nemmeno alla discussione della tesi di laurea del figlio Gianni. Dopo una giornata particolarmente negativa, fatta di incontri andati a vuoto e con l’aggiunta della notizia del ricovero ospedaliero di Giorgio Morelli, che siamo andati a trovare prima di andare a casa di Fucà in Via Valmelainia, senza nemmeno cenare, ci siamo distesi sui lettini. Subito dopo Giuseppe si rialzò e si mise alla scrivania per scrivere le toccanti lettere inviate alla moglie Milena e al figlio Gianni, che successivamente ho trovato pubblicate nel libro “Un racconto per Chiara”. Considerate le condizioni di salute di Giorgio Morelli, Fucà volle che in quei giorni gli stessi particolarmente vicino anche per tenerlo informato dell’evolversi dell’iter della legge. Dopo l’ennesima delusione, procuratagli dal Ministro Colombo, Fucà accompagnato da Bigini e Benedetto, si avviò verso il Ministero del Tesoro dove era deciso a compiere il gesto clamoroso dello sciopero della fame a oltranza all’interno dello stesso Ministero. Soltanto alla sera di quel 2 luglio, verso le 22, riuscii a telefonare all’amico Merendino, Segretario della Sede Centrale, prezioso punto di riferimento e di collegamento tra noi contestatori e la Dirigenza Nazionale dell’Associazione, per conoscere cosa era accaduto e dove fossero Fucà e Bigini, dei quali non avevo notizie dal mattino. Il segretario, Merendino, mi informò che il Ministro del Tesoro aveva finalmente comunicato la copertura finanziaria della Legge e che, avendo lui parlato con il Presidente, mi disse che sarei dovuto andare ad attenderlo a casa sua dopo aver informato della buona notizia Giorgio Morelli. Fucà rientrò alle tre del mattino, era stanchissimo ma felice. Nel commentare quanto accaduto, non prendemmo nemmeno sonno. Poi, verso le sei del mattino, cominciarono le telefonate di dirigenti e soci da ogni parte d’Italia che, avendo ascoltato i comunicati della radio, volevano sincerarsi del risultato e per complimentarsi del lavoro svolto.
I giorni successivi furono più sereni per tutti perché l’ostacolo più importante era stato superato. Il Presidente Fucà mi chiese di accompagnarlo dall’On. Flavio Orlandi , allora presidente della Commissione Bilancio, che ben conoscevo, il quale fu felice di concordare la rapida approvazione della legge. Le cose ormai volgevano al meglio, tanto che il giorno dopo andammo a salutare Giorgio Morelli ritornato a casa. Successivamente, insieme a Benedetto, accompagnai Fucà alla stazione Termini a prendere il treno per Firenze. Rammento che volle passare, prima di partire, alla casa discografica Ricordi per acquistare la cassetta sonora di Modugno, contenente la canzone “La lontananza” da donare alla moglie Milena. Ci salutammo con un forte abbraccio e mi disse di raggiungerlo insieme a mia moglie Giovanna nella sua casa, vicino al mare, in mezzo alla pineta di Donoratico, non appena sua moglie Milena si fosse rimessa. Io, ormai disoccupato, non avendo altre ragioni per protestare, cominciai a preoccuparmi davvero per il mio posto di lavoro, perché la Banca non intendeva sostituire il centralino in tempi brevi e per me si prospettava un possibile trasferimento in altra città, cosa che non potevo accettare, avendo un bambino di pochi mesi e una moglie giovanissima che avrebbero sofferto la lontananza dai suoi familiari. Piero Bigini, sempre lui, conoscendo la mia difficile situazione, intervenne prontamente presso i dirigenti del Credito Italiano e con l’allora Direttore Rivosecchi mi fu trovata la soluzione di un posto di lavoro a Roma, presso la Banca d’Italia. Dopo poco tempo, mi fu comunicata l’assunzione a far data 1 Aprile 1970, ma l’amico Piero Bigini, non poté festeggiare con la mia famiglia , come programmato, il suo ennesimo risultato conseguito, perché scomparve in un tragico incidente nel mare dell’isola di Ponza, nel mese di marzo, proprio il giorno di Pasqua. Partecipammo numerosi al suo funerale, durante il quale Fucà, uomo dalle ineguagliabili doti umane, fece, credo, il suo più sentito, appassionato e commovente intervento per ricordare al figlio Fulvio e a tutti noi il valore immenso di Piero, le sue qualità morali, il suo alto senso del dovere, la sua ricchezza di ideali e il suo impareggiabile impegno solidaristico, che ha lasciato in eredità a tutti noi. Piero non potè gioire nemmeno per l’approvazione della Legge n. 382, avvenuta nel mese di maggio dello stesso anno, riguardante la riforma delle pensioni dei ciechi per la quale aveva dato il meglio di se stesso. Non rammento la data precisa di quel marzo 1970 quando scomparve Piero Bigini, ma ricordo perfettamente che era avvenuta proprio il giorno di Pasqua. Da allora, ogni Pasqua, si ripresenta con forza, puntualmente e malinconicamente nei miei pensieri la bella figura di quell’uomo speciale e amico carissimo.

“Vita familiare”, di Patrizia Onori

Autore: Patrizia Onori

Scrivo questo mio piccolo stralcio di vita familiare e soprattutto del rapporto madre-figlio, perché molte persone vedenti o non vedenti che leggono i miei scritti o che mi incontrano, mi hanno espressamente chiesto di esprimere per iscritto ciò che prova una madre non vedente nel rapporto con il proprio figlio.
Ho sempre pensato che nella vita bisogna vivere ogni attimo, ogni piccolo istante ed ho sempre creduto che dovremmo godere pienamente di ogni cosa che facciamo e che dobbiamo positivamente trasformare in gioia.
Così, quotidianamente, il vivere in famiglia, nel lavoro, quando telefonicamente sono in contatto con i miei amici, o quando durante la settimana vado in palestra per mantenermi fisicamente nel miglior modo possibile, trovo la gioia in me stessa.
Nel fare gli esercizi con la cyclette, il tapis roulant ed altri attrezzi, immagini del mio passato mi tornano nella mente provocando strepitose emozioni ma non posso mettere da parte il presente, dato che più volte racconto a chi mi è vicino che nonostante la mia disabilità visiva, la vita mi ha comunque riservato un’infinità di eventi positivi tra i quali la straordinaria gioia di divenire madre di un bellissimo figlio, Gianluca.
Le persone, incuriosite spesso mi chiedono nella mia situazione, di descrivere quale rapporto vivo con lui allora ho cercato di trovare le parole più giuste per raccontarlo ma, soprattutto, ho cercato il più possibile di descrivere le emozioni che provo in modo che chiunque legga possa in qualche maniera immedesimarsi e, seppur solo attraverso uno scritto, viva anche per un attimo tali emozioni.
Questo è il mio racconto premettendo che innanzitutto, il mio rapporto familiare con mio marito e con mio figlio è ugualea quello di tutte le buone e brave famiglie.
L’arrivo di Gianluca è stato un momento meraviglioso, dal giorno della sua nascita il mio cuore ha cominciato a battere sempre più forte facendomi provare sentimenti strepitosi mai provati prima.
Anche non potendolo vedere, il solo poterlo abbracciare, stringere al seno, il poterlo allattare, accudire, coccolare ed udire anche piangere, è stata la gioia più immensa che io abbia mai potuto provare.
Con l’aiuto dei miei genitori, ho sempre accudito mio figlio curandolo nei suoi bisogni essenziali come il vestire, il mangiare, la pulizia personale e della casa, ho seguito personalmente la crescita del piccolo Gianluca e man mano che cresceva, ho sempre personalmente avuto rapporti con gli insegnanti sia delle elementari sia delle medie per essere sicura che il bambino avesse un ottimo sviluppo sia intellettuale oltre che fisico.
Gianluca oggi ha sedici anni e frequenta con profitto il terzo liceo scientifico, è un ragazzo tranquillo, educato e riservato ma ogni qualvolta incontra i suoi migliori amici, diventa in loro compagnia espansivo ed estroverso.
Il giorno della sua nascita, avevo da poco compiuto 31 anni, devo confessare che interiormente mi sentivo poco più che una ragazzina ma è stato bellissimo poter crescere insieme a lui ed in particolar modo, oggi è meraviglioso poter apprezzare in lui un ragazzo eccezionale.
Gianluca sicuramente ogni giorno impara tanto da me ma anch’io in ogni minuto, attraverso le sue esperienze imparo molto da lui.
E’ tranquillo, a volte anche un po’ pigro, gli piacciono molto i videogiochi e con questi naturalmente dopo aver studiato, trascorre la maggior parte delle sue giornate.
E’ inoltre sensibile e molto attento a non ferire chi gli stà accanto, sa dare tanto senza chiedere nulla in cambio, la spontaneità fa parte di sé, quando noi genitori siamo insieme a Gianluca ci sentiamo accarezzare da una piacevole aria fresca, pulita e viviamo invasi da una tempesta di assoluta dolcezza.
Insieme ci divertiamo tanto a suonare il pianoforte, in quanto questo è uno strumento che ho studiato per diversi anni, ad ascoltare musica, a seguire su youtube i suoi video preferiti ecc.
Vorrei poter trovare una parola che possa descrivere tutto l’amore che provo per lui ma non esiste, bisognerebbe inventarne una nuova.
Cerco di proteggerlo ogni giorno da un mondo difficile, confuso, a volte purtroppo anche cattivo, cerco di insegnargli che siamo tutti uguali, che le diversità devono essere considerate un valore aggiunto dal quale imparare e, soprattutto, non devono essere considerate un difetto, che è sbagliato usare la violenza, che nessuno va discriminato ma apprezzato perché siamo tutti diversi ed unici, cerco di insegnargli il senso del dovere anche se questo per lui è spesso faticoso, gli insegno quindi che non tutto è dovuto, che se ci si impegna si ottengono i migliori risultati e che se crede fermamente nei suoi sogni è già un primo passo verso la loro realizzazione.
Quando insieme ci sediamo sul suo divano letto e parliamo, è per me un’emozione indescrivibile sentirgli raccontare la giornata trascorsa a scuola, le sue serate vissute con gli amici, le piccole marachelle compiute fra ragazzi, quindi spesso, lo ascolto commuovendomi e ringraziando la vita per avermi donato una così grande gioia.
Un rammarico però pervade costantemente la mia mente, poiché, anche se so che ciò non sarà mai possibile, vorrei avere la gioia di poter vedere almeno per un minuto il viso di mio figlio ma la felicità di averlo accanto e di accarezzarlo ogni giorno, mi fa comprendere che le emozioni interiori che quotidianamente viviamo ci portano a vivere straordinarie sensazioni che non saranno mai consumate dal tempo.
Da tutto questo, si potrebbe immaginare che io sia una madre molto possessiva ma questo non è, infatti pur volendolo proteggere come è giusto che una buona madre faccia, ho sempre cercato di dargli la maggiore autonomia possibile.
Non appena si è presentata a scuola l’occasione prospettatami dalla sua insegnante di inglese di fargli frequentare il quarto anno del liceo scientifico in America, non me lo sono fatto dire due volte ed ho stimolato mio figlio che era titubante ad accettare questa occasione che gli permetterà, oltre ad imparare bene la lingua, di vivere un’esperienza in una nuova famiglia e di relazionarsi in un mondo completamente diverso dal nostro e credo che tutto ciò lo arricchirà dandogli sicurezza e sprone per il futuro.
Gianluca è la cosa più bella che la vita mi ha regalato, ha quella meravigliosa magia di sapermi ripagare con un semplice sorriso per ogni dolore, è la parte di me che continuerà a vivere oltre me.
Patrizia Onori

Amarcord come mi accolse l’UIC oltre 50 anni fa, di Carlo Carletti

Autore: Carlo Carletti

All’età di 18 anni, nel 1961, un pallone di cuoio, inzuppato di acqua che cadeva in abbondanza sul campo di calcio, mi ha colpito violentemente sul viso, creandomi un forte intontimento, tanto da dover interrompere la partita. Successivamente, una nebbia offuscava la mia vista. Gli oculisti dell’Ospedale S. Orsola di Bologna, hanno accertato una forte emorragia retinica in entrambi gli occhi e un disastroso distacco di retina nell’occhio sinistro. Fin da bambino già mi era stata riscontrata una miopia piuttosto elevata, ma la correzione con le prime lenti a contatto sembravano avermi risolto il problema visivo, tanto da farmi dimenticare alcuni anni, trascorsi come ipovedente, presso l’Istituto G. Garibaldi di Reggio Emilia e di farmi illudere di poter consolidare il mio avvenire di calciatore, insieme al lavoro quale modellista per calzature, nel quale mi ero specializzato.. La dura realtà che mi hanno prospettato gli oculisti mi ha tolto ogni speranza per il futuro. Per un lungo periodo di tempo, ho voluto comunque tentare interventi e cure seguendo il detto che la speranza è l’ultima a morire, ma il susseguirsi degli insuccessi, mi ha portato lentamente e dolorosamente alla rassegnazione. La cecità nella mia famiglia, non rappresentava una novità, in quanto mio fratello di 6 anni più grande di me, era cieco a causa di un glaucoma . Dopo un ulteriore periodo di tempo, durante il quale ritenevo impossibile e inutile anche la mia esistenza, mio fratello e altri suoi amici non vedenti dell’UIC di Pesaro, mi hanno gradualmente aperto l’orizzonte per ricominciare una nuova vita. Per mia fortuna, ho recuperato un piccolo residuo visivo da un occhio, che ha ulteriormente favorito la mia rinascita. Seguendo la via intrapresa alcuni anni prima da mio fratello, ho più volte presentato domande per essere ammesso a frequentare un corso per Centralinisti telefonici, ma non venivo accolto a causa della mia giovane età e per l’alto numero degli aspiranti. Ho rappresentato all’On. Flavio Orlandi, parlamentare di riferimento della Federazione del PSDI di Pesaro, che frequentavo, la mia esclusione dai corsi per centralinisti, e che per tale ragione non potevo aspirare ad un posto di lavoro compatibile con la mia invalidità. Dopo pochi giorni, lo stesso On. Orlandi, mi ha invitato ad andare a Roma a presso il Ministero del Lavoro , dove ho potuto esporre i miei problemi all’On Anselmo Martoni Sottosegretario di quel Ministero, che autorizzava e finanziava lo svolgimento dei Corsi per Centralinisti in tutta Italia. Fui informato che un Corso si sarebbe svolto a Roma presso la sede dell’UIC, presso la quale avrei dovuto subito presentare domanda. Mi sono recato lo stesso giorno in via Quattro Fontane, dove aveva sede la Presidenza Nazionale dell’UIC. Ho avuto la grande fortuna di essere accolto dal prof. Piero Bigini, un uomo straordinario per la sua umanità e disponibilità. Il colloquio è durato oltre un ora e al termine siamo andati al Bar a prendere un caffè. Questo grande uomo era totalmente cieco ed io con il mio traballante residuo visivo l’ho accompagnato e Quando ci siamo lasciati mi ha chiesto di andarlo a trovare quando potevo. Mi ha anche  informato che la sede dove avrei dovuto presentare la domanda era la Sezione interprovinciale di Roma. Sicuramente la segnalazione del Sottosegretario fu determinante perché fossi ammesso al corso, che si svolgeva di pomeriggio. Tale orario mi permetteva di recarmi di mattino a trovare il prof. Bigini, con il quale ho potuto gradualmente instaurare un rapporto di reciproca stima e fiducia, tanto che più volte ha utilizzato il mio residuo visivo anche per essere accompagnato presso la Camera dei Deputati dove trattava e sollecitava i provvedimenti in favore dei ciechi. Un giorno mentre mi trovavo nell’ufficio del prof. Bigini, si affacciò sulla porta un signore alto e robusto che salutò in modo molto amichevole il prof. Bigini, il quale a sua volta ricambiò il saluto, dicendogli : ben arrivato Presidente, sono a colloquio con un giovane non vedente, ma sarò subito da te. Il Presidente, prof. Paolo Bentivoglio, mi volle conoscere facendomi molte domande e chiedendomi come ero capitato in Via Quattro Fontane. Si è seduto accanto a me, che emozionatissimo gli raccontavo la mia storia. Il prof. Bigini disse che mi aveva più volte sperimentato e che ero uno sul quale si poteva fare affidamento e che mi faceva onore il fatto che mettessi a disposizione di chi era cieco totale il mio residuo visivo. Il Presidente allungò una mano e mi strinse un braccio e costatata la mia magrezza, mi disse che avrei dovuto mangiare di più, perché in quelle condizioni nessuno mi avrebbe preso nella giusta considerazione. Ridendo e alzandosi in piedi, mi disse: guarda me, il solo mio volume incute rispetto nell’interlocutore. Nel salutare disse: gli amici di Piero sono anche miei, ma bada bene, è risaputo che io non ho il buon carattere di Piero. Successivamente ho avuto molti altri incontri con il prof. Bigini ed anche con il Presidente, spesso mi hanno reso partecipe delle problematiche che stavano affrontando, perché mi mostravo molto interessato ed ero abbastanza introdotto in alcuni ambienti politici. Ho avuto anche l’occasione di accompagnarli al Ministero del Lavoro, proprio dal Sottosegretario Martoni, per sollecitare l’approvazione della nuova legge sul collocamento dei centralinisti. Fummo subito ben accolti e rassicurati sull’evolversi positivo dell’iter della legge che fu approvata il 5 marzo 1965. Frequentando la Sede Centrale dell’UIC, ho potuto conoscere anche il Vice, Generale Aramis Ammannato, ma più spesso i fiorentini Fucà, Baragli e Borrani e il milanese Dario Formigoni con il suo inseparabile sigaro. Un pomeriggio mi sono recato con i dirigenti nazionali dell’Associazione presso il Parlamento per sollecitare un provvedimento in favore della categoria. Al termine della giornata , sono stato invitato a restare a cena con tutti loro, Presidente compreso. Per la prima volta entrai nella trattoria da Guerra in via dei Serpenti e sono risultato essere l’unico sconosciuto per il sig. Guerra, il quale mi mise subito a mio agio e tra un piatto e un bicchiere, mi ha raccontato i molti avvenimenti di cui sono stati protagonisti i dirigenti dell’UIC, ed in particolare ricordava le furenti telefonate che il Presidente aveva fatto ai membri del Governo e al Ministro dell’Interno, On. Scelba, in occasione della marcia del dolore avvenuta nel 1954, da quel telefono a muro, postato sulla colonna al centro della sala. Mi diceva, che dovevo sentirmi orgoglioso di poter stare in compagnia di persone così importanti e così per bene. Lui non finiva mai di ripetere che si sentiva onorato di avere quali clienti tali magnifiche persone. In silenzio, ascoltavo i discorsi che i presenti facevano in merito ai problemi associativi che stavano affrontando .Ogni tanto , i più scherzosi Baragli e Formigoni chiedevano anche la mia opinione in merito a quanto veniva discusso, mettendomi in un evidente e terribile imbarazzo, che secondo loro potevo superare solo con un altro bicchiere di vino. Oggi, ricordo con una certa emozione il fatto che appena ventenne, possa aver avuto la fortuna di essere avviato alla vita dell’organizzazione guidato e sostenuto da uomini come quelli che ho incontrato in quel periodo e con i quali ho continuato a collaborare sempre più attivamente. I rapporti si sono purtroppo interrotti con Il Presidente Bentivoglio. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato nel mese di ottobre del 1965 in Via Quattro Fontane, era in procinto di rientrare a Bologna, e nel salutarmi mi disse che aveva appreso con soddisfazione della mia recente assunzione presso il Credito Italiano e che per tale ragione mi sarei stabilito a Roma. Poi, stringendomi la mano, aggiunse, che anche se lontano da casa hai trovato, comunque nell’UIC una famiglia che non devi trascurare, nonostante il lavoro . Il Presidente Bentivoglio che aveva un carattere un po’ difficile e che spesso appariva scontroso e assai burbero, in quell’occasione mi sorprese per il modo semplice e umano con il quale mi aveva parlato. Ho molto sofferto in occasione della sua scomparsa avvenuta due mesi dopo. Ho vissuto portando dentro di me non solo il ricordo, ma credo qualcosa di molto più importante. Ho vissuto una esperienza che a condizionato positivamente la mia esistenza. Conservo intatto il senso della dignità che mi hanno fatto provare, per primi, il Presidente Bentivoglio e il prof. Bigini, nell’affrontare i momenti più difficili. La credibilità, la convinzione e la tenacia con la quale, questi UOMINI hanno combattuto il pregiudizio e la pietà per dare dignità e diritti alla vita di tutti i ciechi sono un valore del quale ognuno di noi ha tratto tutti i vantaggi anche attuali. La necessità di conservare, di alimentare e di far conoscere la storia dell’UICI, le motivazioni l’abnegazione e le qualità di coloro che l’hanno resa grande, è un doveroso impegno per la nuova dirigenza. Senza la conoscenza dell’ appassionante storia , della nostra Associazione ,i giovani non potranno affezionarsi e dare un futuro all’UICI. Si potrebbe iniziare con l’apertura dell’archivio, mettendo a disposizione apposite borse di studio per giovani che effettuino ricerche e ne illustrino i risultati anche in appositi seminari., aperti ai giovani , dirigenti e soci.

Esperimento riuscitissimo al Museion di Bolzano, di Andrea Bianco

Autore: Andrea Bianco

Ieri ho partecipato all’Educational day che si teneva presso il Museion, il museo di arte contemporanea di Bolzano
Ero stato invitato a spiegare alle persone come toccare le statue.
Come non vedente ho narrato un pochino della mia esperienza di scultore e poi sono arrivato al momento clow. Raccontando dei musei che ho visitato dove erano messe a disposizione alcune opere per essere toccate dai non vedenti siamo arrivati al concetto dell’accessibilità.
Le persone erano particolarmente attente e entusiaste ad apprendere idee per loro ancora non troppo familiari.
Abbiamo analizzato il modo pratico con cui si esplorano col tatto le opere e poi siamo passati finalmente a considerare la statua realizzata da Francesco Vezzoli in cui reinterpreta un lavoro di Boccioni.
Qui la situazione era piuttosto complessa, perché l’opera non è figurativa, ma è abbastanza astratta per rappresentare lo slancio verso il futuro, verso l’innovazione.
Tutti i presenti hanno avuto la possibilità di toccare con i guanti in lattice l’opera. E’ stato interessantissimo cogliere lo stupore di coloro che non avevano mai fatto un’esperienza simile. Questo approccio tattile ha lasciato a bocca aperta più di una persona.
Un signore ha notato che le ali ai piedi rappresentate nella statua davano un’idea di leggerezza se guardate con gli occhi, mentre appesantivano la figura se analizzate con le mani. A questo punto si è aperto un interessante spazio di considerazioni a riguardo. Ci si è posti la domanda se allora l’effetto illusorio è solamente da considerarsi un effetto visivo oppure se lo si può rappresentare anche da un punto di vista tattile.
Al termine un neurologo ha spiegato quali sono i meccanismi nel cervello che accompagnano l’uso dei sensi. Quindi l’analisi è stata presa in considerazione sotto vari aspetti.
La cosa molto interessante dell’incontro di ieri è stato il fatto che l’opera in questione non è stata resa accessibile solamente ai non vedenti (che sarebbe già una cosa importante), ma a tutti. Assolutamente a tutti.
La riflessione più ampia che si apre è se non sia possibile che ciò accada in tanti musei. Ma non come esperimento, bensì come prassi.
Perché, prese le dovute precauzioni del caso (opere in sicurezza da un punto di vista di stabilità, di controllo…), non si lasciano visibili tattilmente diverse sculture a tutto il pubblico di visitatori?
Andrea Bianco (www.biancoandrea.it)

Una non vedente modello per Manfredonia, di Sipontina Prencipe

Autore: Sipontina Prencipe

Mi chiamo Sipontina Prencipe, ho 35 anni, sono laureata in Lingue Straniere (Inglese e Spagnolo) all’università La Sapienza di Roma e lavoro al centralino dell’USL Foggia, presidio ospedaliero di Manfredonia. Nel 1994 All’età di 14 anni dopo aver terminato la scuola media inferiore, ho vissuto A Roma, presso l’Istituto Per Ciechi Sant’alessio, dove ho svolto varie attività riabilitative: autonomia personale e domestica, cucina, orientamento e mobilità, musica, ecc.. E’ stata una bella esperienza, perché ho avuto un buon metodo di studio ed imparato a gestire la mia vita quotidiana. Ogni giorno, mi recavo con gli assistenti e gli obiettori di coscienza, all’istituto Jean Jack Rousseau, dove ho frequentato il Liceo Linguistico. Mi sono diplomata nel 1999 con 87/100. Nello stesso anno, ho iniziato la mia carriera universitaria e il corso di centralinista telefonico. Il corso prevedeva 2 esami: regionale per la qualifica e statale per l’iscrizione all’albo nazionale dei centralinisti. Ho superato brillantemente gli esami e, dopo un anno circa, sono stata contattata dagli uffici di collocamento per lavorare. Nel 2001, feci la domanda per avere la casa dello studente. La  determinazione ha vinto e mi ha consentito di proseguire gli studi. Dal 2002 al 2005, ho vissuto nella casa dello studente. Mi sono trovata benissimo, perché ho conosciuto gente nuova, avevo una camera tutta per me, c’era un servizio socio assistenziale sempre a disposizione mia e dei diversamente abili, mi organizzavo le giornate con gli obiettori di coscienza per seguire le lezioni all’università, comprare i libri e andare al ricevimento dei professori, per concordare i programmi. Nel 2005 mi sono laureata in Lingue Straniere con 105/110. L’argomento della mia tesi di laurea era il romanzo “To The Wedding” Festa Di Nozze”, scritto dall’autore della letteratura inglese contemporanea, John Berger. A dicembre 2005, ho organizzato la mia festa di laurea all’Unione Ciechi Di Foggia e per l’occasione, l’ex presidente Dottor Corcio Michele, mi ha scritto una lettera di onoreficenza; cito alcune frasi della stessa: “L’unione ha bisogno di dirigenti come te, attenti e culturalmente preparati. Tanti non vedenti non si sono laureati, tu invece, hai raggiunto con impegno il tuo obiettivo, nonostante la strada fosse faticosa da percorrere.” Nel 2006, ho organizzato a Manfredonia con il patrocinio dell’amministrazione comunale, il convegno sulla disabilità. Il Sindaco mi ha premiata con una targa, per la tenacia che ho avuto nel mio percorso di studi. A Manfredonia molti mi conoscono e mi ammirano, perché continuo a prefiggermi tanti obiettivi e realizzarli con dedizione. Ho molti impegni dal punto di vista sociale: faccio volontariato presso l’associazione di protezione civile P.A.S.E.R (Pubblica Assistenza Soccorso Emergenza Radio), canto al livello amatoriale nelle varie manifestazioni, scrivo articoli per la testata giornalistica Stato Quotidiano, conduco programmi in una radio locale. Grazie al corso di orientamento e mobilità svolto nel 2011, ho imparato a muovermi per il paese con i mezzi pubblici. Concludo il mio articolo con un messaggio di conforto che, vorrei trasmettere ai diversamente abili, in particolar modo ai non vedenti: “Spesso diciamo che, la vita non riserva nulla nel presente e nel futuro, non è così. Quanto meno ce l’aspettiamo, qualcuno che conosce le nostre abilità, ci terrà presente per eventuali opportunità di lavoro, eventi musicali ed attività dirigenziali da svolgere anche all’Unione Ciechi. Forza e coraggio, non vi abbattete!”

Corse mattutine effettuate nelle strade solitarie di campagna, di Michele Sciacca

Autore: Michele Sciacca

Come può un non vedente correre da solo per le strade solitarie di campagna?
Rispondo garantendo che può farlo.
Anni addietro io lo facevo quasi ogni mattina, approfittando delle belle giornate di sole.
Mi avvalevo di una canna da pesca munita di apposito mulinello, carico di filo per la pesca.
Io, accompagnato da un giovane militare, raggiungevo in macchina strade solitarie nelle zone circostanti al paese di Mascali, dove sarebbe stato possibile fare cautamente avanti e indietro, lasciando scorrere la mia mano sul filo del mulinello. Una volta legata la parte terminale del filo allo specchietto della macchina, il collaboratore si allontanava da essa, snodando circa trecento metri di filo, poi teneva la canna da lancio in mano ad altezza d’uomo.
Io, in tuta e scarpe da tennis, con la mano appoggiata al filo, facevo regolarmente avanti e indietro a passo di marcia, finché non mi sarei stancato.
Dopo mi mettevo immediatamente in macchina, nel giro di pochi minuti mi ritrovavo già sotto la doccia e, dopo essermi asciugato e abbigliato per bene, mi sentivo meglio, dal momento che la corsa e lo stretching mi consentivano di liberare la dopamina che è l’ormone della felicità.
Dalla corsa piacevole e lo stretching rilassante fatti in aperta campagna, adesso passo a descrivere un episodio tragicomico realmente accaduto ad alcuni giovani randazzesi, i quali a bordo della loro macchina vollero scendere in spiaggia per provare nuove emozioni e il tratto di spiaggia da loro visitato, brulicava di pescatori dilettanti, fra cui, ovviamente c’era anche chi scrive.
Mentre si pescava, ad un certo momento si vide arrivare una grossa macchina con quattro giovani randazzesi a bordo, i quali, ignari delle immancabili difficoltà cui sarebbero potuti andare incontro, posteggiarono l’automobile a pochi passi dalla battigia, per vedere il mare da vicino.
Una volta messi i piedi sulla sabbia, cominciarono a manifestare tutta la loro allegria, scherzando e ridendo gioiosamente.
In quel posto i quattro giovani rimasero più di mezz’ora.
Essi guardarono le acque agitate del mare e i numerosi pescatori dilettanti che si muovevano in quella zona.
Dopodiché, si misero di nuovo in macchina per riprendere la via del ritorno, ma non poterono partire per il fatto che le ruote della macchina erano sprofondate nella sabbia.
Essi fecero diversi tentativi per tirarsi fuori da quel brutto impaccio ma alla fine non vi riuscirono, anzi rimasero più insabbiati di prima.
I quattro mal capitati, non sapendo più cosa fare, decisero di chiedere aiuto ai pescatori dilettanti presenti.
Essi a malincuore smisero di pescare e bestemmiando si misero a spingere la grossa macchina che, dopo sforzi notevoli, fu ricondotta finalmente in strada.
Così i quattro imprudenti giovani randazzesi, grazie all’aiuto dei pescatori dilettanti, poterono tornare al paese d’origine con la loro stessa macchina.
Mentre gli stessi pescatori tornavano in spiaggia trafelati, andavano dicendo fra loro:
«Forse quei quattro sprovveduti giovani randazzesi non avevano mai visto da vicino il mare».
Michele Sciacca

Il tempo passa, i sentimenti non mutano, di Mario Censabella

Autore: Mario Censabella

E’ notte, sono le 3, non posso dormire, debbo scrivere.
Ieri 15 febbraio 2016 apprendo dai “necrologi” del Corriere della Sera” della scomparsa di Bianca HOEPLI e subito mi si apre un bagaglio di ricordi che non posso, non voglio dimenticare.
La mia vita, da quando ho avuto la consapevolezza di essere un uomo è girata intorno alle attività dell’Unione Italiana Ciechi di Milano, da quel “mondo” ho tratto sempre conforto, gratificazioni, e ora anche tanti ricordi.
La mia personalità si è formata anche attraverso importanti insegnamenti, “tutti” hanno lasciato un segno e nostalgie.
L’Ing. Maurizio Galimberti era un sciur, famiglia benestante originaria di Fiumelatte, il padre medico, brillanti studi universitari, gare di atletica attraverso il G.U.F., ma soprattutto la passione per l’aereo, a vent’anni ne possedeva già uno. Giovanissimo ha partecipato a qualche battaglia aerea, la guerra era per finire.
Poi la passione per il volo a vela, è stato proprio con un aliante che ha perso la vista: Forlanini, manifestazione aerea, il suo velivolo ha un guasto ai freni aerodinamici, per non cadere sulla folla ritorna sul campo di volo, chi deve partire dopo di lui ha avuto panico e anziché sgombrare la pista, ha abbandonato il suo apparecchio; Galimberti atterrando ha avuto un impatto violento, da lì la cecità.
Quando ci siamo più assiduamente frequentati, lui era Presidente ed io vice Presidente dell’Unione Ciechi di Milano.
Era un uomo di grande cultura, mi ha insegnato tantissimo, persino come sostenere la bandiera nelle manifestazioni ufficiali.
Ho imparato da lui l’iniziativa, tuttora perdura, di visitare nella circostanza del Natale i non vedenti ricoverati nelle case di riposo. Soprattutto in quella circostanza lo accompagnava una signora alta, bionda, con una Fiat 1300, era Bianca Hoepli. Maurizio Galimberti parlava spesso degli Hoepli, di Bianca, di Gianni e di altri della famiglia, erano certamente stati compagni di Università, di giochi e di mondanità.
Tutti pensavamo che tra Maurizio e Bianca Hoepli vi fosse gran simpatia. Un giorno, non ricordo, era d’estate, siamo stati, solo gli amici con i quali aveva maggiore familiarità, invitati a un pranzo a Varenna, ospiti di Maurizio. Enzo Zaniboni, segretario sezionale dell’Unione di allora, con il quale mi interrogavo su questa iniziativa era convinto che vi fosse in quella circostanza un’importante notizia: matrimonio?
Al brindisi grande euforia, Galimberti con una coppa in mano annunciò che era felice di essere con tanti amici anche non vedenti, poiché quello era il giorno anniversario nel quale egli era divenuto cieco.

Al ritorno mi sentivo frastornato, forse perché avevo bevuto troppo, a Milano non mi sono più trovato il mio nuovo Bulova Braille che si caricava con il movimento del polso.
Il giorno successivo ho riferito a Galimberti dello smarrimento dell’orologio. Dopo qualche giorno mi giunge da Maurizio una telefonata dal quale apprendo che il mio orologio, non so da quale forza soprannaturale l’avesse appreso, era in un tombino e che era irrecuperabile: grande il mio rammarico, mi era costato 80 mila lire.

Oggi ho un nuovo Bulova, identico, che per una sorta di scaramanzia l’ho indossato dopo diversi anni, non ricordo come l’abbia ricevuto: acquistato, o un dono di Galimberti? O da altrove?

Maurizio Galimberti ha lasciato il suo cospicuo patrimonio con un testamento olografo, valido in quanto non aveva perso la capacità di scrivere correttamente, alla scuola cani guida di Limbiate fondata dai Lions Club e che ora porta il suo nome. Nel suo testamento, fra le altre, vi era una postilla che disponeva che …a Enzo Zaniboni e a Mario Censabella fossero consegnati, a giudizio dell’esecutore testamentario, due suoi piccoli ricordi.

Galimberti parlava spesso dei suoi amici editori, un impegno improrogabile mi ha impedito di partecipare alle esequie nella chiesa di Santa Maria della Passione in Milano. Sarebbe stato come tornare indietro di tanti anni riaprendo il bagaglio di sentimenti e ricordi mai sopiti.

Reminiscenze: anche i sciur hanno le loro debolezze e possono apparire tirchi, impegnati sempre a difendere anche nelle piccole cose il loro patrimonio. Eravamo a Napoli per partecipare a un convegno organizzato per l’Unione Italiana Ciechi. Eravamo giunti all’hotel aiutandoci reciprocamente, un dipendente ci accompagna nelle nostre camere con i relativi bagagli, il sciur dà la mancia, richiedendomi poco dopo la mia parte.

Apro e consulto il mio Bulova sono le 4 e 45.
Maurizio Galimberti, 1915 – 1993, gli ho voluto bene.

Le “Lettere inedite di Louis Braille”, di Emanuele Rapisarda

Autore: Emanuele Rapisarda

Alcune lettere della corrispondenza privata di Braille sono state recentemente scoperte per noi italiani dal Prof. Gianluca Rapisarda negli archivi dell’Institut National des Jeunes Aveugles di Parigi (2011). Nello stesso anno, lo scrivente ne ha curato la traduzione in italiano per conto dell’Università di Catania (Edizione Bonanno).
Nel 2009 l’Institut National des jeunes aveugles, allora diretto da Gérard Gonzalez, ha pubblicato, grazie all’interessamento dell’archivista Zoubeïda Moulfi, la trascrizione, in duecento esemplari, dei facsimili di alcune lettere di Louis Braille e del fratello Louis-Simon scritte di proprio pugno, dettate a uno scrivano o scritte al rafigrafo. La scoperta di queste lettere veniva a colmare una lacuna già ravvisata dal maggiore biografo di Braille, Pierre Henri, che nel 1952 sottolineava come l’assenza di corrispondenza privata aveva fino ad allora impedito l’approfondimento della personalità del personaggio. Queste lettere, quindi, hanno gettato nuova luce su Braille e, come tali, diventano un documento essenziale per tutti coloro che si interessano alla storia dei ciechi e alla loro condizione nelle società del passato.
Ora, grazie alla traduzione di cui sopra, anche noi Italiani abbiamo avuto finalmente l’opportunità di ricavare un’immagine nuova, più intima di Louis Braille, che, senza togliere niente alla sua inestimabile e preziosa attività svolta a favore dei non vedenti, ci fa conoscere un Braille un po’ meno simbolo ed emblema, ma un po’ più uomo in carne ed ossa.
Questo volume è nato dalla collaborazione fra l’Istituto per ciechi “Ardizzone Gioeni” di Catania, l’Institut National des Jeunes Aveugles di Parigi ed il Centro di Studi Storici sulla Disabilità’ di Catania ed ha inaugurato anche la prima Collana dedicata interamente agli studi storici sulla disabilità. Se, infatti, ormai consolidati sono gli studi sul mondo dei poveri e dei marginali, ancora pochi sono gli studiosi che hanno lavorato sulla disabilità e sulla cecità in particolare. Con questa pubblicazione, realizzata anche in Braille e su supporto audio, si è inteso quindi da un lato cominciare a fornire un contributo a un filone della ricerca storica finora, soprattutto in Italia, fin troppo esiguo, dall’altro permettere, anche ai non vedenti, una maggiore conoscenza e comprensione storica della condizione dei disabili che “furono”.
Tali “Lettere inedite” si possono sostanzialmente dividere in tre gruppi: le lettere scritte di proprio pugno dallo stesso Braille tra il 26 agosto 1831 ed il 1 ottobre 1835; quelle dettate a degli scrivani tra il 2 gennaio 1832 ed il 2 ottobre 1833; quelle scritte al raffigrafo da Braille tra il 14 giugno 1842 ed il 25 febbraio 1851.
Le epistole scritte di proprio pugno dallo stesso Louis Braille sono dieci e sono indirizzate tutte al Direttore dell’Institut, Monsieur Pignier. Ognuna di esse fu scritta dalla cittadina natale di Coupvray nel periodo compreso tra i mesi di agosto ed ottobre, quando Braille si recava per trascorrere le vacanze dopo la fine dell’anno scolastico e per rimettersi in salute. Da questi documenti si palesa la devozione e l’amicizia del giovane Braille per il suo direttore, al quale il mittente si rivolgeva con rispetto (le lettere si chiudevano quasi sempre con la formula «mi onoro di essere il suo rispettoso ed affezionato allievo»).
Le epistole evidenziano, inoltre, il grande attaccamento di Braille per la sua famiglia e un rapporto ambivalente con il suo luogo di nascita. Nell’agosto del 1831, ad esempio, scriverà: «a Coupvray mi ritornano tristi ricordi ai quali non posso sottrarmi», ma già due mesi dopo non esita a comunicare che «la campagna è il mio unico luogo specifico» o ancora, due anni dopo parla dei «piaceri della campagna durante le belle giornate d’autunno». Il desiderio di Parigi resta comunque forte: «occorre che la mia famiglia e la mia salute mi siano molto care per resistere al desiderio che avevo di ritornare a Parigi» scrive infatti il 29 settembre del 1834.
Una grande attenzione veniva dedicata alla sua salute e a quella degli altri. Il 2 ottobre del 1831 scriveva a Pignier: «innanzitutto vivere, poi lavorare: la salute è un tesoro di cui non conosciamo il prezzo fino a quando non la perdiamo» e, ancora due anni dopo, il 22 ottobre 1833: «Bodoin è probabilmente ancora come me, ahimè. Poveri ragazzi che siamo, non avremo questa felicità. Quanto a me, non soffro tanto quanto altri della nostra infermità, ma essa non ne è meno grande». Collegata a ciò è la profonda religiosità dell’autore («era quello che mi ero proposto, ma l’uomo ordina e Dio dispone» scrive il 26 agosto del 1831).
Braille, poi, con estremo riserbo, tradisce una certa stima e considerazione per la sorella di Pignier. Presenta infatti i suoi rispetti ed i suoi garbati saluti alla donna praticamente in ogni sua lettera manoscritta ed in una di esse, in quella del 22 ottobre 1833 scrive: «spero di passare piacevolmente ed utilmente il nostro prossimo anno scolastico, soprattutto approfittando della compiacenza della sua buona sorella che mi ha promesso di aiutarmi nei miei studi».
Non manca poi anche di un certo senso dell’umorismo e di una certa impertinenza. Dirà l’11 ottobre 1831: «sono già quindici giorni che non ho avuto l’onore di avere sue notizie. Se volessi fare dello spirito insipido, le direi che sono persuaso che mi abbia scritto e che bisogna anche che reclami la sua lettera alla posta»; o il 20 settembre del 1831: «ho dimenticato di parlarle, prima della mia partenza, di Roustant che potrebbe essere ammesso alla classe superiore se lei lo giudica opportuno. Non mi dica: accidenti a te, chiudi la bocca. Ancora una parola e finisco per parlarle dell’ammissione dei nuovi retori alla classe di storia».
Dalle lettere si evince anche una personalità poliedrica, piena di interessi e premurosa con gli allievi e gli amici (11 ottobre 1831: «mi fanno delle letture, accordo pianoforti, gioco a carte e a scacchi e sto bene”, o il 22 ottobre del 1833 «dò delle lezioni di canto») e il 22 ottobre 1833: «fra otto giorni sarò…fra i miei compagni che mi hanno provato così bene la loro amicizia».
Le otto lettere dettate da Braille ad uno scrivano pubblico tra il 1832 ed il 1833, oltre a confermarci alcuni aspetti già evidenziati (la stima per Pignier, l’interesse per la sorella, la nostalgia dei compagni) ci rivelano altri aspetti della personalità di Braille. In particolare, da questo gruppo di lettere emerge una certa malinconia ed un desiderio di solitudine. Detterà a Coupvray il 23 settembre 1833: «leggo quando scende la nebbia ed il resto del tempo vado nei campi. Evito anche di trovarmi in società per non parlare molto».
Alcune lettere ci informano, poi, su una vicenda che caratterizzò la vita di Braille nel suo soggiorno a Coupvray del 1832: la possibilità, poi fallita, di diventare organista della città di Meaux, capoluogo del dipartimento dove è situata Coupvray. E’ lo stesso Braille che riferisce di questa sua opportunità ed ambizione. A tal proposito, a Lagny, il 6 settembre 1832, dettò una lettera in cui informava Pignier che l’organista di Meaux era morto la settimana precedente. Nelle successive lettere riguardanti quest’affare Braille informerà delle motivazioni che lo porteranno a rinunciare a quell’incarico da cui si evince tutta la sua sagacia. Infatti, nella lettera dettata il 28 settembre 1832 da Meaux faceva scrivere: «il posto di organista è di 350 franchi, un accordatore di pianoforti ha l’intenzione di stabilirsi a Meaux e vi sono davvero poche cattedrali. Dal consiglio dei miei genitori e, conformemente alle sue buone intenzioni per me, ho detto a Monsignore l’abate Pelais che rinuncio al posto. Ho dimenticato di dire che la vita è diventata cara a Meaux…». Il 18 ottobre dello stesso anno, poi, dettava: «permetta, signore, che osi di correggere l’errore del mio precedente scrivano, pregandola di dire ai miei compagni l’esito del mio affare di Meaux perché è giusto che lo conoscano poichè hanno fatto dei voti e dei sacrifici per farlo riuscire; mi parlano ogni tanto ancora di quel posto e mi dicono che la principale fonte di guadagno consista nei balli dei borghesi, di conseguenza, bisogna spesso passare la notte fuori casa nei castelli vicini, condizioni che non possono combaciare con un posto in seminario, ma io ho rinunciato completamente a quel progetto» ed ancora il successivo 30 ottobre: «quello che più ci affligge è che i suoi sforzi e dei suoi amici siano diventati inutili…Tuttavia lei mi avrebbe preso per folle se avessi obbedito alla vanità che voleva farmi fare l’organista a qualunque costo. Quest’affare mancato mi sarà più propizio di quanto lei non pensi nell’Istituzione».
L’ultimo gruppo di lettere è costituito da quattro epistole scritte al raffigrafo da Braille per il caro Pignier.
Nella prima e nella seconda di esse, scritte il 14 giugno ed il 2 novembre 1842, Braille scrive di un ricevimento di un tale sig. Pasquier, per partecipare al quale, chiedeva a Pignier, con la consueta delicatezza ma anche con una certa insistenza, se gli poteva procurare due biglietti di accesso: ne vien fuori l’immagine di un Braille attratto anche da qualche piacere mondano.
Ma è la terza di tale gruppo finale di lettere che è particolarmente significativa. Essa fu scritta da Braille l’11 ottobre del 1844 a Chamalieres, dove egli si trovava in soggiorno durante i mesi di vacanza dall’Istituzione. In tale epistola, infatti, da un lato, possiamo avere delle conferme al piacere che gli dovevano procurare sia la campagna ed il sole di settembre, che facevano maturare l’uva e lo facevano stare bene, sia la musica, che in quel periodo egli suonava in un trio di pianoforte, voce e violoncello che elettrizzava il vicinato. D’altra parte, nella stessa lettera Braille riferiva pure della tristezza che gli metteva l’avvicinarsi della brutta stagione, che gli annebbiava l’orizzonte del futuro e avrebbe potuto impedirgli di realizzare al ritorno a Parigi il suo ardente desiderio di passare i pomeriggi dalla signorina Pignier, nonché della sua preoccupazione per le condizioni della sua povera madre, che non vedeva da tempo, e per la propria salute, ormai, purtroppo, sempre più instabile per l’aggravarsi della tubercolosi, che sebbene appariva migliorata per via del soggiorno in campagna, era sempre appesa ad un filo (scriveva: «è la corteccia e non l’albero stesso che è divenuta migliore»).
Vi sono, poi, all’interno di questo corpus di lettere, anche due epistole erroneamente attribuite a Louis Braille e che in realtà furono scritte da suo fratello maggiore Louis-Simon. Questi spedirà due missive a Pignier nel 1831: la prima il 30 maggio e la seconda il 3 giugno. Nella prima lo informa delle gravi condizioni di salute del padre e, a nome di quest’ultimo, lo ringrazia delle attenzioni riservate al fratello Louis, raccomandandosi a lui ed alla sorella affinché non abbandonino mai Louis. Nella seconda lettera, dopo il doloroso decesso del padre, parla di tale infausta notizia a Pignier, riferendogli che la partecipazione dello stesso e della sorella all’afflizione di tutta la famiglia Braille per la recente morte del padre era consolatrice. Dunque, non è difficile arguire il profondo legame affettivo reciproco esistente tra la famiglia Braille e i due Pignier, nonché il grande senso di gratitudine e riconoscenza che i familiari di Louis Braille provavano per il Direttore dell’Institution e la sorella per le loro benevole premure verso il loro sfortunato congiunto.
Il Louis Braille che è possibile desumere da queste lettere è una personalità ricca, per certi versi geniale, ma allo stesso tempo articolata: se da un lato l’immagine che se ne ricava è quella di un uomo colto, ricco di interessi e aperto al mondo circostante, dall’altro risulta evidente anche una certa sofferenza interiore derivata dalla sua condizione. Su questa personalità dovette sicuramente influire anche la nuova condizione dei ciechi nella società del tempo: se da un lato i non vedenti beneficiavano dei nuovi processi sociali e culturali che li riguardavano in prima persona, dall’altro doveva ancora completamente avviarsi la loro completa emancipazione. Di tutto ciò queste lettere, che ci restituiscono il clima del tempo e la personalità di Braille, ne sono una preziosa testimonianza.

Davide Cervellin, di Antonio Greco

Autore: Antonio Greco

Cervellin! Cervellin! Chi è costui? E’ vero; chi è costui. Si dice che è fuori dal tempo; invece è qualcuno che ha ancora la testa sulle spalle, al contrario di tanti altri che, o per emulazione o per illusoria convinzione o per scarsa competenza, sostengono ancora l’ integrazione scolastica, così come prolifica oggi. Si disse, a suo tempo, che non è bello che i bambini stiano lontani dai genitori; è vero anche questo; ma è vero anche che col mondo di oggi, coi mezzi rapidi di comunicazione è possibile raggiungere facilmente gli Istituti o dagli Istituti le famiglie. Però, se lo stare vicini li danneggia, è meglio stare in posti educativi e salutari. Non bisogna dimenticare che, specialmente in Inghilterra, le migliori famiglie iscrivono i propri figli nei migliori college del Regno. Si disse che finalmente si poteva socializzare col mondo dei vedenti e tante e tante altre illusioni realizzate nel futuro fino ad oggi.
Fumo al vento. Non mi prolungo a dire ciò che ancora si decantò; mi fermo, invece, a ciò che erano gli Istituti per i ciechi e a ciò che è l’integrazione oggi.
Chissà quanti, come me, si ricordano della vita che pullulava negli Istituti, salvo qualche caso sporadico o qualche neo, come ascoltare la messa ogni mattina, ma quelli erano i tempi. Negli Istituti si apprendeva un po’ di tutto; basta ricordare la vita che si svolgeva nell’Istituto per ciechi di Lecce: ci si levava la mattina, si andava a messa, a colazione e poi in classe.
Pomeriggio.
Dopo il pranzo delle 12,30, ricreazione fino alle 15. Dalle 15 fino alle ore otto, un’ora di pianoforte; un’ora di lavoro che consisteva nell’apprendere ad impagliare sedie normali; sedie di Vienna; stuoie e tappeti; lavoro in vimini per cestini di qualsiasi formato; divani in vimini eleganti e meno; lavori in legno e fil di ferro e altre primizie. Dalle ore 17,00 alle 19,00, in classe per letture amene e la preparazione dei compiti per il domani. Si usciva dalla classe e ci si recava in chiesa per suffragare i defunti più cari. Alle ore 20,00 la cena, mezz’ora di ricreazione e poi a letto.
Il sabato pomeriggio e la domenica ci si divertiva in tanti modi. Si giocava al calcio, prima con lattine, poi col vero pallone coi sonagli. Ma non era solo questo: si inventavano tanti altri giochi che, non solo avevano il fine di divertire, ma anche di educare. Giochi di orientamento, di localizzazione ed esercizi mentali che la facevano da padrone. Per esempio: Tra ragazzi più portati alla musica, si creavano cori di ogni genere. I ragazzi più disinvolti e autonomi inventavano altri giochi che non erano adatti per tutti: due ragazzi andavano nel dormitorio, si impossessavano di un cuscino e, dispostisi alla distanza tra tre letti o quattro, si lanciavano il cuscino l’un l’altro: la bravura consisteva nel riuscire ad afferrarlo al volo mentre arrivava; e chi non riusciva, andava giù di un punto. Altro gioco, fatto sempre tra due ragazzi, consisteva nel disporsi in un corridoio lungo dai 10 ai 15 metri e lanciare coi piedi reciprocamente una latta schiacciata, e con gli stessi piedi riuscire a bloccarla. in una sala veniva collocato in un angolo un cestino vuoto. Si costruiva una pallottola di carta e dall’angolo opposto la si lanciava, cercando di indovinare il cestino come bersaglio. Non mancava il gioco della “palla artificiale”: si realizzava scegliendo un ragazzo bassino, tondeggiante per palla. Due squadre di tre o quattro ragazzi contrapposte si disponevano in un campo di circa 40 o 50 mq e si contendevano la “palla” che, spesso, andava a finire in un posto non rilevato; allora era la stessa “palla” ad esclamare: “son qui! Son qui”.
Sorvoliamo tutto il resto e passiamo al secondo punto: il lavoro.
Dall’istituto di Lecce ogni anno si licenziavano tre categorie di allievi: avviamento al lavoro per Firenze; avviamento allo studio del pianoforte per Bologna; avviamento per gli studi letterari a Bologna. Ne uscivano grandi personaggi, sia nel campo della musica che in quello letterario, e i ciechi vivevano agiatamente. Si arrivava alla laurea o ai diplomi senza nemmeno l’ombra di insegnanti di sostegno. La preparazione che dava l’Istituto rendeva autonomi e capaci gli studenti di ogni genere. Anche oggi i ciechi vivono agiatamente, ma per ragioni differenti. Ora analizziamo i due mondi opposti: Istituti e integrazione scolastica.
Abbiamo esaminato la bontà degli Istituti; ora esaminiamo i disastri della legge dell’integrazione scolastica.
Escluso qualche centro più grande, la frequenza scolastica è un disastro. Conosciamo abbastanza bene la situazione degli insegnanti di sostegno; è inutile parlarne. Parliamo d’altro.
In genere i vedenti, se non ci conoscono da vicino, ci immaginano come poveri disgraziati, per cui, se un cieco nella scuola fa qualcosa ritenuta degna di lode, gridano al miracolo, e allora li valutano con buoni giudizi. Basterebbe che io vi raccontassi una mia esperienza e ve la racconto:.
Sono un ex docente di filosofia, pedagogia e psicologia nell’Istituto Magistrale st. di Maglie. Provengo dal classico. Venni convocato dalla preside del liceo-ginnasio di Martano per aiutare un ragazzo iscritto al quarto ginnasio. All’inizio lo assistevo in classe; ma non era il luogo adatto perché si creava disturbo tra il docente e me che cercavo di spiegare alla meglio al ragazzo. La classe veniva distratta e non potevo intervenire come sarebbe convenuto. Chiesi di poterlo seguire a domicilio e mi fu concesso. Quando cominciai ad assaggiare la preparazione di questo studente, misi le mani nei capelli: scriveva con la dattilobraille; non sapeva dividere le parole in sillabe; la S impura ad una riga e il rimanente nell’altra. A malapena conosceva il braille; cercai di saggiarlo in geografia: gli chiesi, su una carta geografica dell’Italia, di indicarmi la posizione di Lecce; dopo strisciate, mi indicò la punta più occidentale della Sicilia. Non conosceva l’alfabeto del greco classico, e dopo tre mesi di pietosa assistenza, dovetti abbassare la guardia: dissi alla preside che gli facesse cambiare indirizzo scolastico, ma non fui ascoltato. Seppi dopo che lo avevano iscritto al ginnasio per mancanza di numero degli alunni, per cui si rischiava di perdere una classe.
Questo è l’andamento dell’integrazione scolastica in tutta Italia. Non ci facciamo illusioni. Nei grandi centri, Milano, Roma, Napoli, Palermo ed altri centri, lì la vita è un po’ differente, perché il numero dei non vedenti è in grado di incontrarsi e di vivere diversamente dai ciechi dei piccoli centri; anche perché è più facile che siano aiutati dalle associazioni di categoria. I ciechi devono stare insieme, perché così si trovano più a loro agio; prova ne sia il centro delle vacanze a Tirrenia. Molti ciechi preferiscono trascorrere le vacanze in quel posto che altrove, perché hanno la possibilità di meglio svagarsi e divertirsi. Io ho appreso l’uso del computer per l’80 per cento dagli amici non vedenti. La possibilità di stare insieme garantisce scambi di esperienze, di cultura ed altro. Ecco perché l’integrazione è risultata un fallimento, e non capisco ancora perché grandi geni dell’uici e di altre associazioni sostengano ancora l’infelice integrazione scolastica. Son passati quassi quaranta anni dalla legge dell’integrazione scolastica e, se non si cambia registro, ne passeranno altrettanti. Dovranno provvedere i governi che fin ad oggi hanno sonnecchiato, lasciando i non vedenti allo sbaraglio. A quando si provvederà ad una degna scuola di metodo per insegnanti di sostegno? A quando si provvederà a diffondere nelle scuole l’insegnamento della musica in braille? Quando si cercherà di creare, almeno in ogni provincia, attività manuali per fanciulli e ragazzi che vengono alla vita? Mi piacerebbe conoscere risposte sagge a queste tre domande principali. Qualche timido tentativo di ritorno alle scuole speciali si scorge, come a Brescia e a Padova, ma è ancora una goccia nella sabbia. In passato abbiamo avuto celebri concertisti, celebri letterati, celebri lavoratori. Oggi dove stanno i musicisti? Di laureati abbiamo sempre meno. Allora qual è il miracolo della scuola integrata? Non sono certo i tiflopedagogisti o tiflodidattici se devono essere sparsi nei paesini di tutta Italia, ma, per me, l’unico toccasana sono le scuole speciali negli Istituti di una volta, dove ogni tiflop e tiflod può essere impegnato nell’opera educativa non solo per uno o due o tre educandi, ma per dieci, venti ed oltre; solo così si potrà tornare agli splendori di cinquanta anni fa.
Ecco perché, per me Davide non è cervellin, ma Cervellon.
Antonio Greco

Ophelia’s friends on air

Si segnala una interessante iniziativa di una scrittrice lucana.

OPHELIA’S FRIENDS ON AIR una trasmissione radiofonica di carattere letterario, ideata e condotta da Stefania Romito che va in onda ogni martedì su Web Radio Network alle ore 17 http://webradionetwork.eu/ e tutte le domeniche su Radio Punto alle ore 13 (dopo il notiziario) http://www.radiopunto.it/. Sono entrambe emittenti che vanno in onda sia in FM che via web.

La trasmissione è suddivisa in tre parti. Le prime due sono dedicate agli scrittori del  gruppo letterario di Facebook “Ophelia’s friends” (che conta più di 1700 iscritti https://www.facebook.com/groups/716878585107500/?fref=ts), mentre l’ultima parte è destinata a Ophelia, l’enigmatica protagonista del suo romanzo thriller a puntate dal titolo “Ophelia, le vite di una ghost writer”. In quest’ultima parte del programma (che dura circa 15 minuti) la conduttrice leggerà di volta in volta un brano come una sorta di sceneggiato radiofonico. Al fine di rendere l’ascolto degli episodi il più accattivante possibile, sono stati inseriti anche dei suggestivi effetti sonori e coinvolgenti brani musicali.
Brevi cenni sul personaggio:
Ophelia Moris è una ghost writer, giovane e bellissima, molto ambita dalle celebrità di tutto il mondo. Il suo brillante intuito e la sua innata curiosità la portano puntualmente a indossare i panni della confidente e della detective, trasformando ogni ingaggio in un’avventura dai risvolti sconcertanti. Vicende scabrose, segreti inconfessabili, delitti impuniti emergono prepotentemente dal passato e la pongono ogni volta di fronte al dilemma se sia il caso di far scoppiare lo scandalo oppure no. Apparentemente sicura di sé, Ophelia nasconde nel suo intimo un profondo disagio causato da un trauma infantile rimosso che emergerà in maniera frammentata durante i vari episodi, dando vita a un’escalation di emozioni contrastanti che genereranno in lei ansia e turbamento e che troveranno, nella rivelazione finale, un inaspettato momento catartico. Puntata dopo puntata verrà alla luce la sua sfaccettata personalità e la sua storia personale intrisa di mistero e traumi rimossi che riaffiorano da un oscuro passato.