Tornando in treno dall’Assemblea dei Quadri ho ripensato alla discussione appassionata di sabato sera sul tema dell’istruzione. Tutti concordiamo nel ritenere che la via maestra per l’emancipazione dei ciechi, come dei popoli, sia l’educazione, la scuola, lo studio, il saper leggere e scrivere. E molti di noi conoscono i risultati dei nostri istituti. Ma conosciamo anche i limiti di quel modello: la separazione dalla famiglia e dal gruppo di coetanei del paese-quartiere, per non citarne altri. È vero che lì, si «imparava ad essere ciechi», come diceva Vincenzo Ventura, per anni preside dell’istituto di Firenze. I nostri migliori insegnanti erano i compagni più grandi. Ma potremmo forse affermare che il personale educativo (i prefetti come li chiamavamo) fossero proprio specializzati? Spesso erano studenti universitari che, per 15 mila lire al mese (siamo negli anni 50-60, più ovviamente vitto e alloggio), dovevano starci dietro, e facevano come potevano. Il nostro sogno è quello di avere personale esperto accanto ad ogni bambino non vedente, ipovedente, pluriminorato. Come il sogno di ogni viaggiatore è quello di avere l’aeroporto nella città in cui abita, il sogno di un ammalato è avere lo specialista nell’ospedale più vicino. Questo è comprensibile, e fra l’altro, rientra nel concetto di diritto alla salute, contenuto nella Convenzione Onu. Però dobbiamo fare i conti con la realtà. E la realtà ci dice che solo 2 bambini su 10 mila soffrono di una disabilità visiva, di vario grado e, eventualmente, associata ad altre minorazioni. Considerando il fatto che, per un buon servizio, occorrerebbero diverse figure, quali: insegnante esperto nelle singole discipline (materie letterarie, scientifiche, lingue straniere, informatica, autonomia e mobilità, manualità, educazione musicale), ci rendiamo conto che un solo insegnante di sostegno non basterebbe.
E ancora: se questo insegnante di sostegno è circondato da una comunità che non riesce a valorizzare lo studente con disabilità visiva e-o con pluriminorazione, oppure se si instaura un meccanismo di delega in bianco all’insegnante di sostegno, questi, per quanto esperto, sarà una voce nel deserto. Molti dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze rinunciano ad andare in bagno per l’intera mattinata, e questo perché non si sentono sicuri, preferiscono tenersela (per parlar chiaro) anziché chiedere a chi magari non saprebbe come aiutarli. Se lo studente non vedente non riesce a muoversi con sufficiente libertà, perché l’ambiente è rumoroso, o perché non ci sono percorsi praticabili (zaini dappertutto, gente scalmanata che sfreccia in tutte le direzioni, ecc.), la sfera delle autonomie va in cavalleria! Cosa fare allora? Gettare la spugna? Nemmeno per idea! Ricordiamoci che solo 2 bambini su 10 mila soffrono di una disabilità visiva, e di questi il 30% sono non vedenti totali, 40% ipovedenti e il resto con minorazione aggiuntiva. Ancora una volta il sano realismo dei nostri padri fondatori ci può aiutare. In primis: ci sono decine di casi ben riusciti, si tratta di ragazzi ora laureati, che svolgono un lavoro non tradizionale, che sono soddisfatti ed apprezzati. S. Agostino diceva: «si isti et ista, cur non ego?»: se ce l’ha fatta tizio e caio, perché non ce la posso fare anche io? Cosa scopriamo: che il titolo di specializzazione dell’insegnante conta solo in pochissimi casi, mentre è indispensabile che l’insegnante sia un maestro di vita, che sappia mettersi in gioco, imparare quello che serve e soprattutto essere un educatore di quel bambino e di quella classe; scopriamo che la famiglia che crede in quel bambino, che gli dà regole e se servono rimproveri, che pretende e gratifica, è determinante.
E allora, ed ecco il solito uovo di Colombo: perché non educare i contesti significativi? E quali sono? La famiglia, la comunità scolastica, partendo dal dirigente e includendo gli addetti alla segreteria ed i custodi, che possono fare la differenza, anche nello sviluppo delle autonomie, se solo usano il buon senso. La comunità del territorio (parrocchie, esercizi commerciali, operatori sportivi, culturali, ecc.).
A Firenze, dove vivono molti ciechi da diversi anni, molti commercianti sanno esattamente come essere d’aiuto al cliente cieco, e questo non solo a Firenze, ma là dove l’Unione è presente con le persone, che sanno come porgersi e come insegnare ad offrire l’aiuto giusto, potenziare l’intervento precoce e l’aiuto alle famiglie, rendendole «competenti», ossia aiutando i genitori ad essere bravi genitori, diffondere la cultura della accessibilità. Ad esempio incoraggiando i dirigenti ad includere nella loro offerta formativa, dico a caso la musica, la manualità, il gioco motorio di romagnoliana memoria.
Parliamo dei libri di testo? Potrebbero essere più rispettosi delle potenzialità e dei vincoli connessi con la cecità o con l’ipovisione? Ad esempio, potrebbero contenere anche richieste eseguibili da chi non vede, e non solo «affacciati alla finestra e scrivi in inglese cosa vedi?»; mettere il Braille sotto gli occhi di tutti, per renderlo un fatto «normale»: nei musei, nei luoghi di culto, menù in Braille dove possibile, mezzi di trasporto, come del resto già si fa.
Parliamo degli operatori del territorio? Quanto sanno gli assistenti sociali, i neuropsichiatri, sulle potenzialità ed i vincoli connessi con la disabilità visiva (totale o parziale)? Includere nei programmi didattici di tutti coloro che aspirano a svolgere professioni basate sulla relazione (insegnanti, infermieri, assistenti sociali, ecc.), un minimo di conoscenze tiflologiche, quel tanto che basti per sapere dove sono i problemi reali e dove sono le insidie? Quel tanto che basti per smettere con il mantra delle «barriere architettoniche» anche quando si parla di bambini che non vedono.
Vogliamo parlare di «leggibilità», per i mezzi di trasporto, gli ambienti urbani, gli uffici pubblici, le risorse in rete, per dare anche agli ipovedenti ciò di cui hanno bisogno? I corsi Irifor, proprio perché rivolti a chi è in servizio, sono la soluzione più realistica che si potesse adottare; andranno ripetuti ad ogni inizio d’anno; andrà costruita una documentazione a beneficio di chi voglia approfondire.
Come si fa in alcuni Paesi, occorre anche pensare ad insegnanti itineranti, che, nel momento giusto e per il tempo strettamente necessario, intervengano a scuola o in periodi di vacanza, in presenza o valorizzando le tecnologie a distanza, ad esempio per i primi insegnamenti del Braille, delle autonomie, o della notazione musicale, in supporto e per rassicurare i docenti. Sono tutti compiti che prima o poi dovrebbero rientrare fra i servizi offerti dal nostro sistema educativo, così come c’è il trasporto scolastico, o lo sportello di ascolto. Del resto la legge 67 del 2000, se la memoria non mi inganna, prevedeva proprio qualcosa del genere. Nicolodi non ha messo la pensione al primo posto del suo impegno e della sua militanza, ma ha messo l’istruzione. «Imparare i mestieri», come si diceva allora. Forse il Centenario potrà essere una buona occasione, quantomeno per indicare questi problemi ai decisori politici e per farne della buona comunicazione, presentandoci come cittadini che, oltre a chiedere, sanno anche dare e saprebbero costruire una società più «educata», più saggia, più competitiva, oltre che più a misura d’uomo.