Autore: Sergio Prelato
Caro Robert Edlin, il mio nome non ha importanza, sono un banalissimo uomo moderno.
Nel cimitero americano visitato questo giugno 2023, in Normandia, fra le migliaia di croci bianche, mi sono soffermato sulla tua.
Ti ho dedicato questo piccolo omaggio, come se tu fossi sopravvissuto allo sbarco, lo avrei voluto tanto, anzi avrei voluto che non fosse esistito lo sbarco.
Il mio viaggio di uomo moderno l’ho fatto al contrario, prima Parigi, poi la spiaggia dove tu hai lasciato la tua vita.
Sia sotto la torre, sia la mattina che mi sono svegliato a pochi chilometri dalla spiaggia, la tua spiaggia, non ho mai smesso di pensare a quello che avete fatto per me, per noi, per il mondo di oggi.
Mentre il sole filtrava dalle finestre, prima che io leggessi il tuo nome, non sentivo gli uccelli allegri dell’alba, non gustavo la colazione servita a tavola, volevo vedere i luoghi in cui sei sbarcato.
Dopo averli visti, dopo aver impresso il tuo nome nella mia mente, mi sono permesso di farti questo piccolo, umile omaggio.
Ma la memoria è una palestra, va frequentata con assiduità e rigore.
Il tuo sacrificio non è stato inutile, stai tranquillo, ora ti saluto, dal lontano luglio 2023, i tuoi compagni erano ancora a metà strada, ma, tu lo sai, certamente, ce l’hanno fatta, ce l’avete fatta.
Grazie e sappi che io quella foto che hai strappato ce l’ho in un libro nel mio scaffale, non l’ho distrutta, ho fatto di meglio, l’ho raccontata a mia figlia di 15 anni.
Grazie dal tuo futuro.
Normandia
Sembrava di essere sotto le zampe di un enorme ragno, un immenso ragno di ferro sopra di lui.
Era mezzogiorno, stava seguendo con gli occhi la complicata trama di quella torre così famosa in tutto il mondo.
Lui era lì sotto, sicuramente stupito di essere lì, in quella città sembrata irraggiungibile, invece eccoli lì, eccolo sotto il ragno di ferro.
Mezzogiorno di gioia e festa, sotto le ombre intricate della torre Eiffel.
Abbassò lo sguardo sulla gente vicina a lui, uomini, donne, bimbi, anziani, soldati, auto private poche, mezzi militari moltissimi, per la parata d’entrata in città, a favore dei cine giornali in patria, e per il mondo intero.
Ogni tanto una ragazza lo abbracciava e baciava sulle labbra, ringraziandolo festosa e commossa.
Lui frastornato guardava i francesi, pieni di lacrime e commozione.
I visi pallidi e smunti, ma gli occhi, mai visto degli occhi così belli ed esultanti.
Ben quattro anni sotto i nazisti, ora la libertà.
Si sforzò di ricordarsi il giorno dello sbarco e ricollegarlo a quel momento, 6 giugno, oggi 25 agosto 1944.
Quei mesi erano stati una scia di morte e distruzione.
Chiuse gli occhi per escludere la festa e raccogliersi intorno ai compagni scomparsi, nella sua mente.
Non era stato più bravo di loro come soldato, come uomo, solo più fortunato.
Rivide se stesso sulla spiaggia, che idiota, pensava che superata quella maledetta spiaggia, il resto sarebbe stato una bazzecola.
Era stato solo l’inizio.
Nelle varie battaglie di avvicinamento a Parigi, inizialmente aveva distolto lo sguardo dai compagni morti o moribondi, lasciando il compito di raccolta ai medici e infermieri.
Poi aveva cominciato a chiudere occhi, a ricomporre i corpi in posizioni scomposte, a rimettere elmetti sulle teste, come segno di rispetto in attesa di una degna sepoltura.
Odiava il rosso sangue sulle divise.
Aveva stretto mani agonizzanti, ascoltato pianti di bambini sgorgare da soldati, aveva udito preghiere di tuti i generi.
Aveva guardato gli occhi dei suoi compagni morenti, ormai incapaci di parlare, spegnersi lentamente prima che spirassero. Non li aveva lasciati soli.
Aveva raccolto targhette di riconoscimento nel terreno sconvolto da corpi dilaniati dalle mine o da colpi di mortaio che facevano a pezzi gli uomini, impossibile riconoscerli.
Sentiva ancora l’odore della morte, di bruciato, di sangue, sudore e i mille odori che la guerra offre a chi la segue per mesi.
Quando andava bene dormivano una notte intera. Per terra senza contrattacchi dei tedeschi.
Solo che quando riapriva gli occhi era sempre più difficile rialzarsi, come se i piedi non volessero camminare, paralizzati dalla fatica, dalla fame, dal caldo, dal freddo, dalla pioggia, dalle bombe; non c’era posto per la paura, era troppo stanco.
Una mattina si era alzato stranamente senza sentirsi troppo pesante, aveva indossato lo zaino come una seconda pelle.
Arrivato a rapporto nel punto di raccolta, subito sbattuto in ricognizione vicino ad un ponte, che naturalmente gli ufficiali volevano intatto.
Durante il giro, aveva messo un piede su una mina.
Un lampo di luce, poi nulla.
Dopo un po’ si era svegliato con un ago nel braccio, morfina, un medico lo stava aiutando.
Riaprì gli occhi nel presente, e la festa lo strappò alla scia di giorni che lo avevano portato lì.
Prese un pacchetto di sigarette, aveva cominciato a fumare, ne estrasse una con la mano destra.
La quale non aveva le falangi dell’anulare e del mignolo, spariti con la mina
Gli era andata bene che non era morto dissanguato, in effetti gli avevano detto che il calore della deflagrazione aveva cauterizzato quasi subito le ferite alla mano, salvandolo.
Doveva pure essere grato alla gentile mina.
Lo spostamento d’aria lo aveva riparato da guai peggiori.
Gli avevano chiesto se voleva essere congedato.
Neanche a parlarne.
La guerra crea odio per i nemici.
Anche se durante qualche tregua concordata, li aveva visti fumare, esattamente come lui a poca distanza dalla linea di tiro.
Ad alcuni suoi compagni sopravvissuti alle mine, era andata peggio, chi mutilato senza mani o dita, oppure cieco di guerra, la vista, il bene più prezioso dopo la vita.
Osservò la mano destra formata da tre dita, fumava senza problemi, e soprattutto, almeno per lui, non sentiva le dita mancanti come gli avevano anticipato.
Ne sentiva tre, e ne usava tre, come se fosse nato così.
Tanto sparava con il suo fucile M1, con la sinistra.
La pistola non l’aveva usata più.
Aspirò il fumo con soddisfazione, guardando il casino immane intorno a lui.
Abbracci, ancora abbracci.
Si tolse lo zaino dalle spalle, e si trovò un angolo tranquillo, e si sedette sulle sue uniche proprietà.
Era sceso da un carro armato, stanco di camminare, ma voglioso di calcar la terra liberata.
Decise di usare lo zaino come cuscino, e si sdraiò per terra per riposare, guardando il cielo sgombro, anche lui aveva capito che era un giorno che sarebbe passato alla storia, e lui era lì, avrebbe fatto parte dei libri di storia.
Finì di fumare la sua sigaretta fino in fondo, con attenzione, non si sprecava nulla in guerra.
Poi si alzò e rovistò nello zaino.
Tirò fuori un foglio di giornale e lo distese davanti a sé.
Lo aveva trovato in una di quelle rare case ancora intatte dove aveva sostato con i suoi compagni, nei paesi evacuati.
La foto che campeggiava al centro lo aveva colpito. Diavolo, sugli spazi bianchi c’erano dei numeri, scritti da lui, i reggimenti che aveva cambiato dallo sbarco.
Motivo? Ogni reggimento di cui aveva fatto parte si era assottigliato ad ogni avanzata così tanto che rimanevano pochi uomini, e venivano accorpati ad altri reggimenti, e lui non si ricordava mai l’ultimo a cui era stato assegnato, quindi lo notava sul giornale.
Si alzò, prese lo zaino e se lo rimise in spalla.
Osservò la foto sdrucita: Hitler e molti ufficiali posavano sotto la torre Eiffel, tutti contenti, foto scattata nel 1940.
La guardò un’ultima volta e girandosi verso la torre di ferro, la strappò in mille pezzi.
Come coriandoli a carnevale lanciò in aria i resti del giornale.
Si accese un’altra sigaretta pensando ai suoi commilitoni, gli dedicò quel gesto.
In fondo erano stati la sua famiglia, lui figlio unico e orfano da anni.
Si immerse nella folla, seguendo il primo camion di soldati per capire dove diavolo avrebbe dormito quella notte.
Pubblicato il 17/07/2023.