Ho scritto queste righe sotto l’influenza del caldo agostano, ma anche sollecitato dal breve scambio di idee con alcuni amici del nostro Consiglio Nazionale, per alleviare gli effetti della calura agostana.
Cambiare il punto di partenza
È più che comprensibile che chiunque, volendo essere di aiuto alle persone con disabilità, ponga al centro della sua attenzione queste persone, considerandoli sia come individui, sia come gruppi, sia infine nelle varie relazioni interpersonali e con l’ambiente circostante. Così, nel tempo, pensatori, amministratori, filantropi, e gli stessi diretti interessati, hanno studiato le conseguenze derivanti dalla presenza di una disabilità, cercando e ponendo in essere le soluzioni più adatte, in armonia con lo spirito dei tempi e con i valori di volta in volta preminenti.
Così è stato storicamente ed i risultati, per quanto disomogenei e contraddittori, sono sotto gli occhi di tutti.
Però proprio lo studio di queste problematiche ha prodotto una visione più ampia del problema, sintetizzabile nei principi ispiratori di due documenti fondamentali: la convenzione ONU sulle persone con disabilità e la classificazione internazionale del funzionamento (ICF).
Andiamo per ordine:
a) La convenzione ONU si ispira ad alcuni principi fondamentali: “niente su di noi senza di noi”, “non lasciare indietro nessuno”, non discriminazione, promuovere tutte le potenzialità presenti in qualunque persona, ivi comprese le persone con disabilità. La convenzione ONU è l’ultimo risultato di una evoluzione che trova le sue radici nella concezione cristiana del valore della persona e della solidarietà, in opposizione con la distinzione fra liberi e schiavi e con la logica dell'”occhio per occhio”.
b) La classificazione internazionale delle funzioni (ICF) si pone in palese discontinuità con l’idea di classificare le persone in base a ciò che manca, mettendo al centro invece ciò che resta. In questo senso ritroviamo il concetto illuminista della educabilità di qualsiasi persona, in quanto essere umano. Questo dovrebbe aiutarci a cambiare la maniera di considerare i nostri compagni pluriminorati, e a porci il problema di come adeguare i servizi a loro rivolti, primo fra tutti la scuola, in modo tale che anche per loro vi sia un intervento educativo che valorizzi le potenzialità, che vanno ricercate giorno dopo giorno.
Deficit e handicap.
La convenzione ONU e la stessa ICF distinguono deficit e handicap, che non sono affatto la stessa cosa.
Infatti, Deficit indica che qualcosa fa difetto (deficere); nessuno si sogna di lamentarsi perché non abbiamo le ali, eppure aver le ali in sé non sarebbe una cattiva idea, però non sentiamo mai dire “i disabili del volo”, perché le ali non fanno parte del corredo della specie umana; mentre una statura troppo inferiore alla media, o anche troppo superiore, una funzionalità compromessa di parti importanti del nostro corpo (gli arti, o qualche organo di senso ecc.), sono considerati come deficit.
Lo svantaggio invece esprime una inferiorità occasionale o permanente. La parola è di origine inglese: hand in cap (che letteralmente significa “mano nel berretto”); noi potremmo dire “l’asso nella manica” o “il coniglio nel cappello”. Si trattava di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il gioco si basava sul baratto o scambio tra due giocatori di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria (nascosta nel cappello naturalmente), per arrivare al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari. Handicap quindi indica lo svantaggio che viene attribuito in una gara al concorrente che ha maggiori possibilità di successo, per dare a tutti quelli che gareggiano la stessa probabilità di vincere. In questo modo il risultato della gara non è già scontato in partenza.
La convenzione ONU definisce l’handicap, ovvero lo svantaggio, come il risultato di una particolare relazione fra l’individuo e l’ambiente, il che implica la possibilità di ridurre, eliminare o addirittura rovesciare lo svantaggio stesso, o modificando le condizioni individuali (protesi, educazione, interventi economici risarcitori), oppure, e qui è la novità, modificando l’ambiente. E cosa intendiamo con il termine “ambiente”? Intendiamo tutto ciò che circonda la persona, quindi innanzitutto gli altri, le relazioni umane, le forme di comunicazione interpersonale, ma anche gli spazi fisici, gli strumenti che servono per svolgere i compiti legati alla vita quotidiana – esempio: arredi personali e arredi comunitari, elettrodomestici, strumenti di lavoro,), i servizi, ecc. Quindi il deficit permane, ma si riducono le conseguenze negative.
In quanto tale quindi, lo svantaggio può essere modificato nel tempo, in vari modi: il concorrente svantaggiato può attivare strategie di ricupero basate su qualche trovata d’ingegno o sul miglioramento del terreno di gioco, o dello strumento necessario per gareggiare; insomma, mentre il deficit è una condizione permanente, l’handicap è una condizione variabile, in base ai meccanismi compensativi naturali (vedi gli studi nel campo delle neuroscienze), alla educazione ricevuta, alla conformazione dell’ambiente fisico, umano, tecnologico, ecc.
Sulla base di queste considerazioni, venendo all’argomento che ci riguarda in questo momento, ossia la proposta di legge sulle persone con disabilità, proviamo anche noi a mettere al centro non le disabilità, ma le cause che creano o aumentano lo svantaggio e/o le discriminazioni. Come dire: invece di acquistare tanti depuratori quante sono le famiglie, proviamo a distribuire acqua potabile.
Una buona maniera per evitare discriminazioni è non crearne di nuove e, dove è possibile, consiste nel ridure o rimuovere quelle esistenti.
In questo ci può aiutare il lavoro degli ultimi 50 anni in vari settori: l’educazione, le opportunità lavorative, la riduzione delle barriere architettoniche e sensoriali, la consapevolezza che una società più accogliente e più confortevole per noi è anche più competitiva, oltre che più umana e più solidale, e soprattutto, se gli adattamenti che ci riguardano non creano disagio ad altre categorie di utenti, è una società più comoda per tutti e non solo per noi.
La storia delle invenzioni umane è ricca di episodi che dimostrano come una soluzione pensata per una categoria di persone svantaggiate, si è rivelata utilissima per tutti. Antonio Meucci ebbe l’idea del telefono perché sua moglie aveva un importante deficit uditivo; eppure i sordi sono quelli che usano il telefono meno di tutti. La prima macchina dattilografica fu ideata dal tipografo veneziano Francesco Rampazetto (secolo XVI), che voleva consentire ai ciechi di comunicare fra loro e con gli altri, mediante un marchingegno provvisto di tasti che produceva caratteri comuni incisi.
Allora possiamo valorizzare alcune idee che sono state le nostre bandiere:
1. la progettazione pluriesigenziale, almeno dei prodotti, delle tecnologie e dei servizi che ricevono finanziamenti pubblici, oppure che sono sottoposti alla approvazione e/o omologazione di Autorità pubbliche, nazionali e/o europee.
Fin dagli anni ‘2000 infatti si è venuto affermando il concetto di “design for all”, ossia progettazione per tutti, sempre nella misura del possibile.
Proviamo a pensare a quanti problemi potrebbero trovare soluzioni accettabili senza penalizzare questo o quel gruppo di utenti. Tali soluzioni peraltro renderebbero più confortevoli spazi e servizi, costituendo inoltre un fattore di competitività (es. turismo accessibile); ma soprattutto aumenterebbero il confort ambientale, renderebbero realmente esercitabile il diritto alle autonomie ad alla libera scelta. Ridurrebbero il bisogno di aiuti esterni e in molti casi le risorse finanziarie che tali aiuti spesso richiedono. In altre parole, favorire le autonomie e la “vita indipendente”, può diventare un risparmio per la collettività, oltre che avvicinare i cittadini alle Istituzioni.
Alcuni esempi:
cartelli stradali di forma arrotondata, ben visibili anche per pedoni ipovedenti (brevettati ma mai adottati dai Comuni);
orari di mezzi pubblici, insegne pubbliche, numeri civici, segnalazioni di pubblica utilità ad elevata leggibilità per persone ipovedenti e facilmente rilevabili grazie a sistemi quali letismart.
Standard costruttivi per veicoli elettrici (inclusi monopattini) che tengano conto di utenti con disabilità visive;
software per i rapporti con la P A e per ogni altro servizio rivolto alla generalità dei cittadini (comunicazione e informazione, turismo e spettacolo (quindi anche audiodescrizioni), commercio elettronico, per usi professionali (registri per gli insegnanti, cartelle sanitarie per i professionisti con disabilità visiva. finirla una volta per tutte con il vezzo di scrivere leggi e linee guida per poi incorniciarle e perfezionarle senza mai darsi la pena di applicarle e di farle applicare. Un paese si può considerare civile non quando ha oltre 700 mila leggi, ma quando applica quelle poche che sono necessarie.
porre rimedio poi istituendo un ministero apposito è come spegnere l’incendio andando sul posto con un cero acceso al santo protettore del fuoco.
Veniamo dunque al testo della bozza di proposta.
Per fortuna si tratta solo di una bozza, però, se il buon giorno si vede dal mattino ….
La Legge contiene una ottima analisi delle norme vigenti e una prospettiva a dir poco lusinghiera. Ad essere pignoli si può notare qualche frettolosità, nel fare copia e incolla. “convenciòn” per indicare la convenzione ONU; qualche concordanza da rivedere, ma la svista che dà davvero all’occhio (sit venia verbis), è l’ultima riga, dove si trova una perla di saggezza nell’amministrare le risorse pubbliche. Infatti, la rivoluzione che si propone è davvero epocale, perché … udite udite! è gratis, ossia non costa nulla alla pubblica amministrazione.
Gli estensori forse erano un po’ distratti, o hanno scritto questa bozza prima che si cominciasse a parlare del fondo europeo per le riforme.
Però c’è tempo per emendare!
E questo sarà uno dei nostri compiti per l’immediato futuro.
Antonio Quatraro
Pubblicato il 24/08/2021