Riflessioni sull’ISEE e dintorni, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Cos’è l’Isee?
L’ISEE, ovvero indicatore della situazione economica equivalente, è uno strumento che permette di misurare la condizione economica delle famiglie nella Repubblica Italiana. Il d.P.C.M. 159/2013, che attua il nuovo ISEE altrimenti noto come “riccometro” è entrato in vigore lo scorso 8 febbraio. A 15 anni dalla sua introduzione, l’Isee è stato completamente riformato, al fine di garantire una maggiore equità, contrastando tutti quei finti poveri che, fino a oggi, hanno avuto accesso alle prestazioni agevolate pur disponendo dei mezzi per essere autosufficienti.
L’ISEE è stato concepito e rimane un indicatore che tiene conto di reddito, patrimonio (mobiliare e immobiliare) e delle caratteristiche di un nucleo familiare (per numerosità e tipologia).
Fanno parte del nucleo familiare i soggetti componenti la famiglia anagrafica, compresi:
* i coniugi anche se hanno diversa residenza, salvo che vengano accertate condizioni particolari di separazione in sede giurisdizionale o dalla pubblica autorità competente in materia di servizi sociali
* il figlio minore di anni 18 fa parte del nucleo familiare del genitore con il quale convive
* il figlio maggiorenne non convivente con i genitori e a loro carico ai fini IRPEF fa parte del nucleo familiare dei genitori. Nel caso in cui i genitori appartengano a nuclei familiari distinti, il figlio maggiorenne, anche se a carico di entrambi, fa parte del nucleo familiare di uno dei genitori, da lui identificato.
Le novità per calcolare il reddito ai fini Isee
Con il nuovo ISEE si adotta una definizione più’ ampia di redditi, in cui vengono considerate tutte le forme di reddito, comprese quelle fiscalmente esenti (assegno al nucleo familiare, le pensioni, le indennità di accompagnamento e le provvidenze erogate ai ciechi civili, ai sordi e agli invalidi civili, l’assegno sociale, le rendite INAIL). Allo stesso modo rientrano anche i redditi dei contribuenti minimi, i redditi da cedolare secca sugli affitti e quelli dei premi di produttività, mentre restano fuori, ad esempio, il costo dell’abitazione, gli assegni di mantenimento. Tuttavia è stato introdotto uno sconto per dipendenti e pensionati del 20% fino a un massimo di 3.000 euro per i dipendenti e di 1.000 euro per i pensionati.
Nuove regole anche per la determinazione del patrimonio immobiliare: l’importo massimo del canone di affitto che può essere dedotto dal reddito passa dall’attuale 5.165 a 7.000 euro ed è incrementato di 500 euro per ogni figlio convivente oltre il secondo. Per le case di proprietà, se esiste un mutuo non si considera l’intero valore della casa (lo stesso usato per il calcolato Imu, per intenderci), ma solo la parte che supera l’importo del mutuo residuo.
Oltre a questa agevolazione, per la casa di abitazione non è considerata nel reddito se ha un valore ai fini Imu inferiore a 52.500 euro. Limite che sale di 2.500 euro per ogni figlio convivente successivo. Nel caso del nucleo facciano parte portatori di handicap, vengono altresì sottratte le seguenti franchigie:
• una franchigia pari ad € 4.000, incrementata a € 5.000 se minorenne, per ciascuna persona con disabilità media (ad es. ipovedenti gravi)
• una franchigia pari a € 5.500, incrementata a € 7.500 se minorenne, per ciascuna persona con disabilità grave (ad es. ciechi parziali e portatori di handicap grave)
• una franchigia pari a € 7.000, incrementata a € 9.500 se minorenne, per ciascuna persona non autosufficiente (ad es. ciechi totali).
Per le persone non autosufficienti è poi ammessa la sottrazione delle: spese certificate per i collaboratori domestici e gli addetti all’assistenza personale ovvero, alternativamente le rette dovute per il ricovero presso strutture residenziali (nel caso di prestazioni residenziali ad es. RSA, case protette etc, è possibile tenere conto della condizione economica anche dei figli del beneficiario non inclusi nel nucleo familiare. Si differenzia così la condizione economica dell’anziano non autosufficiente che ha figli che possono aiutarlo, tenuto anche conto dei loro carichi familiari, dalla condizione dell’anziano che non ha alcun sostegno prossimo per fronteggiare le spese per il ricovero in struttura). Per i non autosufficienti, i trasferimenti in denaro, come quelli relativi all’accompagnamento, non concorrono a formare il reddito nella misura in cui vengono spesi per l’assistenza personale o per la retta di ricovero in strutture residenziali.

Disabili e nuovo Isee
Molti però sono i dubbi e le perplessità in merito alle ricadute che le novità introdotte dal nuovo modello ISEE avranno per le categorie dei disabili. Si teme soprattutto la possibile distorsione e iniquità derivante dall’inclusione nella somma dei redditi ai fini del calcolo dell’Isee dei «trattamenti assistenziali, previdenziali e delle indennità. Queste scelte legislative peggiorano la situazione delle persone con disabilità e rendono di fatto non esigibile il principio costituzionale che afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Considerare reddito l’azione che lo Stato mette in atto nel tentativo di ripristinare pari opportunità per cittadini svantaggiati è concettualmente assurdo ed è poca cosa l’introduzione di una detrazione massima di € 5.500 più le spese mediche (max 5.000 €) per le disabilità gravi. Ancora più inquietante è la prospettiva, paventata da alcuni, che l’Isee possa divenire una discriminante per l’attribuzione delle indennità di accompagnamento alle persone disabili. Permangono dunque le stesse criticità del passato, che giustificano pienamente il ricorso ad una class action o la promozione di azioni pilota nelle ipotesi più discriminanti della nuova ISEE ovvero la presenza nel nucleo familiare di più disabili o disabili con pluriminorazioni, per annientare i nefasti esiti che i disabili vivranno con l’approvazione del nuovo Isee. Non si esclude anche la possibilità di ricorrere ad un referendum abrogativo ove i tentativi di dialogo con la classe politica volti a limare i punti critici del nuovo sistema non sortiscano gli effetti desiderati.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

Se l’Inps sbaglia, paga, a cura di Paolo Colombo

Con una recente pronuncia della Cassazione, sezione lavoro, la sentenza 19 settembre 2013, n. 21454, che riguarda tutti i lavoratori, minorati della vista o meno, è stato affrontato il caso di una pensione di anzianità per dimissioni sulla base di un estratto conto contributivo errato rilasciato dall’Inps.

La questione interessa anche i dipendenti, collaboratori gratuiti e volontari di patronato, che nella loro attività gestionale di servizi all’utenza potrebbero trovarsi a gestire direttamente in sezione, tra le tante altre pratiche, eventuali istanze di pensionamento di anzianità per maturazione dei requisiti contributivi.

Il caso riguarda un lavoratore che, sulla base di un estratto conto assicurativo rilasciato dall’Inps, decide di dimettersi dal lavoro nell’errata convinzione di aver raggiunto il requisito contributivo per la pensione di anzianità.

Il problema sorge dal fatto che, per un passato periodo di circa otto mesi, il lavoratore non aveva percepito retribuzione, con relativa perdita, per il medesimo periodo, dell’accredito contributivo destinato ad incidere sulla misura del trattamento finale. L’estratto conto assicurativo, però, aveva fornito all’interessato una erronea indicazione (in eccesso) del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti a fruire della pensione di anzianità, non facendo rilevare all’assicurato né tantomeno al patronato che aveva in carico la gestione della pratica, l’ammanco di contributi per quel determinato periodo di otto mesi.

Se l’interessato avesse saputo della sovrapposizione dei periodi contributivi che ritardavano di circa otto mesi il momento della maturazione del requisito contributivo, avrebbe certamente continuato nell’attività lavorativa, fino al perfezionamento delle condizioni di accesso al trattamento.

L’Istituto respinge ogni accusa (dimissioni dal posto di lavoro nel presupposto di avere diritto alla pensione di anzianità con una certa decorrenza), imputando l’errore alla tipologia di certificazione richiesta dall’interessato contenente l’esplicito avvertimento della possibilità di inesattezze, nella distinzione tra estratto conto assicurativo ed estratto conto certificativo. L’Inps osserva infatti che le informazioni sono state fornite all’interessato a mezzo di un estratto conto assicurativo, privo di sottoscrizione, che per natura non può valere come atto certificativo della situazione contributiva dell’assicurato, ma ha solo valore conoscitivo; che sarebbe stato onere dell’assicurato chiedere il rilascio di una formale certificazione da parte dell’ente previdenziale; che solo sulla base di quanto attestato e sottoscritto da un funzionario Inps in grado di rappresentare la volontà dell’Istituto, l’interessato avrebbe potuto assumere le proprie impegnative determinazioni, ai fini delle dimissioni dal lavoro e della successiva istanza di accesso al pensionamento.
La Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore con previsione di una limitazione della responsabilità dell’Inps, nelle more delle clausole cautelative di salvaguardia usate dall’Istituto ai sensi dell’art. 1227 Cod. civ., nel momento in cui, a richiesta degli interessati, rilascia un qualsiasi tipo di attestazione dichiarativa (nel senso che l’estratto contributivo recasse espressioni tali da ingenerare nel destinatario un ragionevole dubbio circa l’esattezza e-o definitività dei dati esposti).

Dunque, se si parte dal presupposto che i principi generali di correttezza buona fede e legittimo affidamento (art. 1175 e 1375 Cod. civ.) sono immanenti in tutti i rapporti di diritto pubblico, vincolando la pubblica amministrazione a rispettare l’affidamento e l’attendibilità delle sue dichiarazioni, se ne ricava che tutti i documenti che provengono da un ente pubblico devono reputarsi idonei a ingenerare, in chi li riceve, un legittimo affidamento circa l’esattezza e la correttezza dei dati forniti, premurandosi che l’Ente abbia posto in essere, nel rilasciarli, quella doverosa opera di controllo dei dati risultanti dai propri archivi e destinati ad essere forniti a richiesta degli interessati. L’Ente deve rispondere dell’eventuale errore derivante da inadempimento amministrativo, salvo che provi che la causa sia esterna alla sua sfera di controllo e riferisca sull’inevitabilità del fatto impeditivo nonostante l’applicazione della normale diligenza.

Tali principi trovano la loro base costituzionale in quello di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 Cost.) e sono applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). In particolare, la pubblica amministrazione è gravata dall’obbligo di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi, fornendo informazioni errate o anche dichiaratamente approssimative (affidamento e attendibilità delle sue dichiarazioni).
Inoltre, viene riconosciuta la effettiva differenza, per la natura del documento, tra estratto conto assicurativo ed estratto conto certificativo, rilasciati entrambi dall’Inps a richiesta degli assicurati.

Infatti, l’estratto conto assicurativo è semplicemente la riproduzione di un documento elettronico ed ha valore conoscitivo, mentre l’estratto conto certificativo viene emesso all’esito di un procedimento amministrativo allo scopo specificatamente avviato su richiesta formale dell’interessato, reca la firma del funzionario responsabile Inps e vale come atto certificativo della situazione contributiva dell’assicurato, con responsabilità gravante sull’Inps.

La Corte ha affermato che le informazioni rese dall’Inps ai richiedenti circa il numero dei contributi versati, siano esse comunicate con un estratto conto assicurativo oppure con un estratto conto certificativo, sono fonte di responsabilità contrattuale, per il fatto che il lavoratore ripone in esse pieno affidamento circa l’insorgenza del proprio diritto al pensionamento. Infatti, i documenti rilasciati dall’Istituto, provenendo da un ente pubblico, devono sempre reputarsi idonei a ingenerare, in chi li riceve, un legittimo affidamento circa l’esattezza dei dati forniti, presumendosi che l’Ente abbia posto in essere, nel rilasciarli, quella doverosa opera di controllo dei dati risultanti dai propri archivi e destinati ad essere forniti a richiesta degli interessati.

Dalla Consulta decadono le difese dell’Istituto, laddove abbia posto sotto giudizio le responsabilità dell’assicurato (l’errore era comunque riconoscibile e lo stesso è a conoscenza della propria storia lavorativa) e quelle del patronato (in quanto soggetto esperto e qualificato in materia avrebbe dovuto riscontrare l’errore incrociando i dati dell’estratto conto assicurativo con il libretto di lavoro dell’assicurato e in caso di dubbio richiedere all’Inps una formale certificazione dell’effettivo stato contributivo).
Secondo i giudici di legittimità, anche se non richiesta tale certificazione, non è comunque conforme a correttezza il rilascio di notizie inesatte relative alla posizione di un amministrato. Anzi, proprio la provvisorietà o comunque l’inesattezza dei dati deve distogliere l’ente pubblico dal comunicarli in qualsiasi forma finché non siano perfezionati gli accertamenti. Né vale a escludere la responsabilità il fatto che l’estratto conto non fosse sottoscritto; questo perché gli estratti contributivi dell’Inps sono la riproduzione di un documento elettronico e quindi spiegano i propri effetti anche senza la firma di un funzionario.

La sentenza, pur escludendo l’esistenza di un generale obbligo dell’assicurato di verificare l’esattezza dei dati forniti dall’Inps, ritiene meritevole di accoglimento il ricorso affermando che il danno subito dal lavoratore che sia stato indotto alla anticipata cessazione del rapporto di lavoro, a seguito di una errata comunicazione dell’Inps sulla propria posizione contributiva, e che si è visto rigettare la domanda di pensione di anzianità per insufficienza dei contributi versati, in quanto fondato sul rapporto giuridico previdenziale, è riconducibile ad illecito contrattuale in quanto fondato sul rapporto giuridico previdenziale tra cittadino e Inps.

Per tali motivi, la Corte ha accolto il ricorso dell’interessato (esonerando anche il patronato da ogni responsabilità), riconoscendogli il diritto al risarcimento del danno in un importo commisurabile a quello delle retribuzioni perdute fra la data della cessazione del rapporto di lavoro e quella dell’effettivo conseguimento della detta pensione, in forza del completamento del periodo di contribuzione a tal fine necessario, ottenuto col versamento di contributi volontari, da sommarsi a quelli obbligatori anteriormente accreditati.

Ha rinviato, poi, alla Corte di Appello la previsione di una possibile limitazione della responsabilità dell’Inps per concorso di colpa del lavoratore (ovvero per valutare fino a che punto l’assicurato abbia trascurato tutte le espressioni cautelative usate dall’Istituto e idonee a far dubitare dell’esattezza dei dati esposti).
In ogni caso, per fugare eventuali dubbi, sia che si tratti di uscita per vecchiaia sia che ci si dimetta volontariamente dal lavoro per presentare poi istanza di anzianità (nel settore bancario, ricorrendo ai fondi agevolativi per l’uscita), tutti i lavoratori, minorati della vista o meno, dovranno richiedere all’Inps l’estratto conto certificativo e non solo quello assicurativo anche per via patronale. I tempi di attesa per il rilascio di tale attestazione possono essere più lunghi (il rilascio di un estratto conto assicurativo richiede, invece, un paio di giorni dalla richiesta) ma essa dà sicuramente maggiori garanzie nel rilevare la posizione previdenziale personale.

a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

Servizi non richiesti: vittoria di un non vedente a Catania, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Il Giudice di Pace di Roma ha riconosciuto il diritto al risarcimento in favore di un utente non vedente che si era trovato con addebiti in bolletta telefonica per 1.000 euro. Il consumatore, mentre pensava di partecipare ad un concorso a premi gratuito, in realtà, a sua insaputa, scaricava suonerie e inviava sms a costi esorbitanti.

Il gestore, infatti, non aveva fornito alcuna informazione sui costi e procedeva agli addebiti per i servizi indesiderati a distanza di molto tempo. L’utente riceveva degli sms (il telefonino trasformava gli sms in messaggi vocali) che lo invitavano a partecipare ad un concorso in cui erano messe in palio delle automobili. Per partecipare era necessario inviare sms a pagamento e rispondere ad un quiz con molte domande facili: per ogni risposta veniva addebitato un costo. Inoltre, partecipando al concorso si acquistavano contenuti digitali (loghi e suonerie), ma non si scaricava la singola suoneria, bensì scattava un abbonamento che prevedeva addebiti dai costi variabili in relazione al tipo di suoneria scelta. La sentenza conferma che il primo diritto negato al consumatore è quello all’informazione. Ed anche in questo caso l’azienda ha cercato di trincerarsi dietro adempimenti formali peraltro infondati e non provati. Denota poi una indiscriminata frenesia alla vendita di servizi aggiuntivi altamente costosi anche di fronte a contraenti doppiamente deboli come in questo caso perché si trattava di una persona non vedente.

a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

 

Immigrati: sì ad indennità di accompagnamento anche senza carta di soggiorno, a cura di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

La Corte Costituzionale, con la sentenza 15 marzo 2013, n. 40, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 80, comma 19, della Legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2001) «nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della indennità di accompagnamento di cui all’articolo 1 della Legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili) e della pensione di inabilità di cui all’art. 12 della Legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del Decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore di mutilati ed invalidi civili)».

La disposizione come formulata escludeva dal beneficio tutti quegli stranieri che, seppur erano in possesso dei requisiti sanitari necessari, erano, però, presenti in Italia da meno di cinque anni e quindi impossibilitati ad avere il documento di soggiorno richiesto.

Secondo quanto precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza in commento, tale situazione portava ad una discriminazione e disparità di trattamento in ordine ai diritti fondamentali della persona tra cittadini italiani e cittadini stranieri, rappresentando una violazione del diritto alla salute tutelato costituzionalmente.

L’assistenza alle famiglie che abbiano all’interno portatori di handicap grave non può essere rifiutata in ragione della «mera dura del soggiorno».

Si legge, infatti, testualmente, nella decisione in oggetto che … «In ragione delle gravi condizioni di salute dei soggetti di riferimento, portatori di handicap fortemente invalidanti (in uno dei due giudizi a quibus si tratta addirittura di un minore), vengono infatti ad essere coinvolti una serie di valori di essenziale risalto – quali, in particolare, la salvaguardia della salute, le esigenze di solidarietà rispetto a condizioni di elevato disagio sociale, i doveri di assistenza per le famiglie – tutti di rilievo costituzionale in riferimento ai parametri evocati, tra cui spicca l’art. 2 della Costituzione – in base, anche, delle diverse convenzioni internazionali che parimenti li presidiano – e che rendono priva di giustificazione la previsione di un regime restrittivo (ratione temporis, così come ratione census) nei confronti di cittadini extracomunitari, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile ed in modo non episodico, come nei casi di specie».

La concessione, quindi, agli stranieri extracomunitari, che siano legalmente soggiornanti in Italia, della indennità di accompagnamento nonché della pensione di inabilità, non può essere subordinata al «semplice» requisito della titolarità della carta di soggiorno.

a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)