Il passaggio dall’inserimento all’integrazione e quindi all’inclusione, passa attraverso il superamento dell’idea e della prassi di considerare la presenza del disabile a scuola come un “elemento aggiuntivo” alla classe, senza che invece ne determini la ristrutturazione del campo relazionale e dell’intera attività didattica. Questa diffusa concezione che l’alunno disabile appartenga all’insegnante specializzato e , di contro, che questi è assegnato all’alunno “come figura di angelo custode”(Dario Ianes)e non alla scuola e alle singoli classi, nei confronti dei quali espleta la sua attività professionale sostenendoli processi di integrazione e di apprendimento (per questo il docente specializzato assume la contitolarità della classe e non la titolarità dell’alunno o degli alunni.- art L.104/92art. 13c.6).
Già trenta anni fa si poneva il problema di definire il concetto e la funzione della pedagogia speciale. L’attenzione degli studiosi italiani era agli inizi per indicare, la gergo da usare per “classificare” gli alunni e i soggetti disabili, termini come: deficienti, minorati, anormali, diversi handicappati erano alla base della loro terminologia.
La pedagogia è sempre stata in lotta come scienza che ricorre contro le tendenze a medicalizzare i problemi educativi e a relegare i soggetti nell’ambito della patologia. Anche la formazione degli inseganti risentiva di una profonda medicalizzazione. Sono trascorsi trent’anni dalla legge n.517del 1997 che chiedeva l’avvio dell’integrazione scolastica, considerando le criticità emerse e di ripensare con estrema necessità il sistema scolastico. Soltanto di recente si è iniziato ha parlare di alunni con bisogni particolari in ambito europeo e questo è servito al nostro paese come traino per capire che i bisogni degli alunni sono un bisogno sociale innanzitutto, l’insegnate non ha davanti a se un “alunno malato” ma un alunno. Gli alunni con particolari bisogni formativi “special needs” sono presenti nell’eterogeneità del nostro sistema scolastico, quindi bisogna capire che in primo luogo l’alunno è il punto focale di partenza del nostro modo d’insegnare, dobbiamo essere capaci di programmare una didattica normale con dei bisogni formativi adatti alla sua struttura mentale. È l’insegnate che dovrà accomodarsi al modo di apprendere “dell’alunno speciale” e non viceversa. La personalizzazione dei bisogni dell’alluno è l’obiettivo presente e futuro del nostro sistema scolastico, bisogna adeguare con delle leggi e dei mezzi che vengano incontro ai suoi bisogni. Termini come progettazione, apprendimento, comunicazione, didattica speciale dei bisogni, certamente sono nuovi per la cultura scolastica del nostro paese. Il bisogno educativo si estrinseca non soltanto nel modo di insegnare all’alunno speciale bensì è di esempi per tutti quanti noi perché tutto possiamo essere diversamente abile e speciali allo stesso tempo. Il ruolo e figura dell’insegnate specializzato è quello che egli stesso deve farsi speciale, collaborando con tutte quelle sinergie che sono presenti nel territorio della scuola sia esse interne che esterne. Tutti i docenti sono coinvolti nella riorganizzazione dei curricoli, in funzione dei bisogni della persona, sapendo gestire le attività di aula di apprendimento con mezzi e strumenti inerenti alle caratteristiche degli alunni speciali.
La rete che si sviluppa con il sistema territorio è importante, anzitutto il ruolo apicale della famiglia di origine, subito dopo la scuola con il suo sistema di relazioni interne ed esterne nella quale riesce ad affrontare con le dovute sinergie le eventuali problematiche nascenti. La collaborazione di rete (territorio, enti, associazioni, impianti sportivi, famiglie, centri diurni, centri di ascolto ecc..)sono la ragnatela positiva per un inserimento efficace ed una crescita piena dell’ alunno speciale. Le istituzioni scolastiche sono fortemente impegnate nel creare un progetto scolastico adeguato per gli alunni speciali, i quali permetta loro di affrontare e crescere con un input maggiore per dimostrare a se stessi che sono alunni normodotati e non speciali. Il progetto di vita, quello non compete alla scuola ma alla famiglia e con la collaborazione e il consolidamento di altre figure professionali che possano mettere l’individuo al centro del bisogno di crescita e di Formazione di Vita richiede un analisi di una lunga serie di incognite di non facile risoluzione.
Girolamo Rotolo
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Istruzione – Master: Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Master di I livello in: Pedagogia e didattica inclusiva per gli alunni con Disabilità Sensoriali
Direttore: Prof.ssa Patrizia Gaspari
PER INFORMAZIONI:
Ufficio Alta Formazione Post laurea e Pergamene
Tel. 0722 304631-2-4-5-6-9 Fax 0722 304637; e-mail: altaformazione@uniurb.it
Tutor didattica Cell. 339 8333122
e-mail: mirca.montanari@uniurb.it
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo Dipartimento di Studi Umanistici a.a. 2016/17
Nell’attuale scuola democratica e pluralistica sono presenti alunni con diversità e “bisogni educativi speciali” di varia natura che vanno attentamente accolti ed “interpretati” da docenti ed educatori adeguatamente formati, in grado di saper riconoscere la qualità dei modelli progettuali che la Pedagogia speciale e la Didattica inclusiva promuovono, in ambito scolastico ed extrascolastico.
Il Master è rivolto a coloro che desiderano acquisire specifiche conoscenze e competenze “speciali” sull’educazione, rieducazione del bambino sordo e cieco e sulle pratiche inclusive (metodi, strategie, modalità operative, etc…), ovvero a: dirigenti scolastici e docenti in servizio nelle scuole di ogni ordine e grado, educatori (dei servizi per l’infanzia, professionali e sociali), animatori socio-culturali, assistenti
sociali, psicologi, pedagogisti, sociologi e a tutte le figure professionali che lavorano con le persone con “bisogni educativi speciali”, disabili compresi. Possono partecipare al Master genitori con esperienze maturate nello specifico settore delle disabilità sensoriali, genitori con figli sordi e/o ciechi, operatori ed esperti ASL e delle associazioni.
Titolo richiesto: laurea triennale, specialistica magistrale o di vecchio ordinamento o titolo equipollente. Per la partecipazione in qualità di “uditore” non è richiesto il possesso dello specifico titolo di studio suindicato, ma solo il possesso del diploma di scuola secondaria superiore. I corsi, che si svolgeranno da ottobre a maggio, prevedono 1500 ore di impegno complessivo pari a 60 crediti formativi universitari (CFU). Le iscrizioni sono aperte e le lezioni si svolgeranno il mercoledì pomeriggio.
Direttore: Prof.ssa Patrizia Gaspari
Ritrovare la vera cultura dell’inclusione, di Luciano Paschetta
L’articolo pubblicato da superando.it del 30-08-2016 “inclusione, discontinuità didattica e formazione degli insegnanti”, a cura di un gruppo di docenti esperti non solo “rilancia” un dibattito ormai attivo da oltre un anno , ma ci spinge a condividere alcune considerazioni di approfondimento.
In esso, con una analisi del tutto condivisibile, viene rimarcata l’importanza fondamentale del contesto per un reale successo dell’inclusione e si sottolineano altresì le molteplici incertezze ed approssimazioni dei servizi . Concordo anch’io che la vera debolezza del nostro processo di inclusione stia nella inadeguatezza del contesto , ma credo che per porvi rimedio occorra individuarne le cause: l’errore è stato aver concentrato per anni la nostra attenzione sull’insegnante di sostegno interpretandolo sempre , nel bene e nel male, quale responsabile del successo o meno dell’inclusione , anche l’articolo sopra menzionato sembra, ancora una volta, cercare la soluzione nel ruolo della figura di sostegno.
Tutti sappiamo che la normazione dell’integrazione scolastica, prende avvio in modo organico con la legge 517/77 la quale definisce modalità e strumenti per la sua realizzazione. Tuttavia pochi forse ricordano che in riferimento all’inclusione nella scuola primaria all’art. 2 si legge “ferma restando l’unità di ciascuna classe, al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni.
Nell’ambito di tali attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati” . Allo stesso modo, per ciò che concerne la scuola secondaria di i grado all’art. 7 la legge precisa al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni.
Nell’ambito della programmazione di cui al precedente comma sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps da realizzare mediante la utilizzazione dei docenti, di ruolo o incaricati a tempo indeterminato, in servizio nella scuola media e in possesso di particolari titoli di specializzazione.”
Non a caso la stessa legge , visto il ruolo di sostegno “riconosciuto” al contesto indicava nel rapporto uno a quattro il rapporto sufficiente a supportare l’integrazione dell’alunno con disabilità.
La scuola di quegli anni era la “scuola del programma” , una scuola con una organizzazione didattica molto rigida, proprio per questo l’integrazione viene subordinata dalla legge all’adattamento del contesto e , come si legge chiaramente, sarà proprio in “quell’ambito” che dovrà operare il docente specializzato.
Come spesso avviene nel nostro paese la norma c’è , ma quando prevede un cambiamento reale, che coinvolga tutto l’insieme, essa viene ignorata e “assorbita” senza che modifichi più di tanto la routine, anche in questo caso, ci si focalizzò unicamente sull’introduzione della figura dell’insegnante di sostegno, mentre il “contesto” restava fuori dalle attenzioni e rimaneva ai margini del processo. Nonostante ciò l’integrazione ebbe comunque successo : erano gli anni dell’attenzione al “diverso” , anni d profondi cambiamenti sociali. Mentre il sistema stenta a cambiare, nel 1988, una sentenza della corte costituzionale, apre le porte della secondaria superiore a tutti gli alunni con disabilità, senza però che ad essa segua alcuna riflessone pedagogico- didattica sulle modalità di inclusione in questo ordine di scuola, dove finalità , obiettivi e modalità di valutazione sono molto diversi da quelli della scuola dell’obbligo e dove il contesto è molto meno preparato ad accogliere la disabilità.
Anche in questo caso la risorsa “risolutiva” è individuata unicamente nel docente di sostegno. Le modalità con il quale verranno applicate le indicazioni normative caratterizzano però il modello di integrazione che viene strutturandosi e secondo il quale si realizzerà di fatto l’integrazione. La strutturazione della scuola rimarrà ingabbiata in un contesto nel quale nella programmazione ordinaria non troveranno , o troveranno solo saltuariamente, posto attività scolastiche integrative, attività “organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse “ e “a carattere interdisciplinare “ ed il nuovo docente di sostegno si troverà ,di fatto, ha dover gestire da solo l’alunno con disabilità , il processo di inclusione si avvierà sempre più verso quel modello che lo ha portato all’attuale stato di inefficacia. Credo sia chiaro a tutti che , per realizzare la scuola di tutti e per ciascuno, non si po’ avere una organizzazione didattica che preveda per tutti l’insegnamento delle stesse cose nello stesso tempo (sarebbe come pretendere che gli alunni della stessa classe portassero tutti lo stesso numero di scarpe) viceversa occorre una didattica inclusiva del contesto attenta ai bisogni individuali. Nei fatti, però , negli anni nulla o poco cambierà nell’organizzazione scolastica , e nella didattica , neanche quando alle scuole sarà data l’autonomia didattica con la possibilità di differenziare in sede di programmazione attraverso il pof fino al 20%il curriculum .
La stessa legge 104, certamente una legge fondamentale per la realizzazione dell’inclusone dei disabili, pur ribadendo da un lato che il sostegno è da intendersi alla classe, dall’altra parte aveva legato il docente di sostegno alla disabilità dell’alunno, questo è evidente là dove la legge prevede un rapporto diretto tra gravità della disabilità e numero di ore di sostegno didattico: se è vero che la gravità richiede maggior sostegno, non è però altrettanto vero che questo debba identificarsi con un maggior numero di ore dell’insegnante di sostegno , né che aumentare tale numero favorisca il processo di inclusione. Purtroppo però, davanti alla incertezza dei sostegni di tipo diverso (servizi di riabilitazione per l’educazione all’autonomia personale, di avviamento allo sport , di orientamento professionale, assistenti alla persona e alla comunicazione, ecc.) Le famiglie via , via si sono riferite sempre più alla figura del docente di sostegno quale garanzia dell’inclusione dei propri figli, sviluppando una errata “cultura dell’inclusione”. Che , anziché spingerli a operare perché il contesto diventi sempre più idoneo ad accogliere il disabile ed a “renderlo capace” ad affrontare in pari opportunità l’inclusione sociale , sta andando sempre più un modello “assistenziale”.
E’ questa la ”cultura distorta dell’inclusione” che ormai pervade il nostro modello, i docenti e le famiglie e che rende “intoccabile” il numero delle ore di sostegno anche quando risulta evidente ( come nel caso di inclusione di bambini con disabilità visiva anche grave)che esse non servono .
Tornando alla scuola, quanto sopra scritto da me, uno dei sostenitori delle proposte fand/fish, può sembrare contradditorio con quelle proposte, là dove si prevede la separazione delle carriere dei docenti di sostegno, ma è esattamente il contrario. Chiarito che il vero punto debole del processo di inclusone è l’assoluta mancanza di attenzione sul ruolo del contesto, quando viceversa proprio il contesto dovrebbe essere il garante di tale processo, è importante all’interno della scuola la presenza di una figura di docente specializzato che sappia orientarne l’azione , operi nella fase di progettazione sostenendo e orientando il dirigente scolastico, il collegio dei docenti, il consiglio di istituto, i consigli di classe, i docenti titolari ad una programmazione inclusiva . In un simile contesto ove i responsabili degli insegnamenti per gli alunni con disabilità siano gli stessi docenti degli altri alunni risulterà evidente a tutti che l’alunno disabile è un alunno della scuola, della classe non del docente di sostegno e si avvierà quindi la necessaria controtendenza all’attuale modello.
Le altre nostre proposte , nella consapevolezza che perché la scuola diventi inclusiva occorre sviluppare in tutto il corpo docente una maggior attenzione alla diversità, prevedono l’aggiornamento obbligatorio in servizio per tutti.
Pensiamo al miglioramento del contesto anche la dove proponiamo la definizione del profilo professionale e del percorso formativo per gli assistenti alla comunicazione e , quando, individuiamo nei cts e nei cti il legame con le risorse del territorio a sostegno dell’inclusione.
Riteniamo non più rinviabile l’avvio di un cammino virtuoso capace di invertire la tendenza contrastando questa “distorsione” del nostro modello di inclusione per il cui successo però , non basta riorganizzare la scuola, occorre altresì un intervento legislativo organico che , facendo uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione delle competenze, dia certezza ai servizi di sostegno sul piano dei finanziamenti , nella definizione delle competenze dei vari enti e per la formazione del personale operante nei vari servizi .
Ritroviamo insieme l’autentica cultura dell’inclusione ben delineata nella convenzione delle nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, diversamente sarà inevitabile un continuo declino di questo nostro prestigioso modello da tutti invidiato, da molti copiato, ma che senza i giusti interventi, visti anche i suoi attuali costi e la poca efficienza, rischia di “sgretolarsi”.
Luciano Paschetta
Rappresentante fand nell’osservatorio permanente sull’inclusione scolastica
Continuiamo il dibattito su scuola inclusiva e figura del tiflologo, di Silvana Piscopo
In queste settimane è in corso sia attraverso liste di discussione, sia attraverso la stampa associativa, un dibattito, per me, molto arricchente e partecipato sulle necessità educative e formative degli allievi ciechi, ipovedenti e con disabilità aggiuntive; attraverso tale discussione e, alla luce delle informazioni fornite da Gianluca Rapisarda sul network per l’inclusione, di Luciano Paschetta sulle varie figure di supporto agli alunni con disabilità visiva, di Marco Condidorio sullo sviluppo che va assumendo la costituzione di una cattedra universitaria di tiflologia, da più parti viene la proposta di organizzare un incontro di studio per confrontarci e mettere in comune esperienze, buone prassi, competenze acquisite sia nelle attività associative che in quelle professionali.
Personalmente riterrei utile accogliere con favore tale proposta, così fortemente sostenuta anche da dirigenti associativi da sempre impegnati nei problemi dell’istruzione e formazione come Antonio Quatraro, Salvatore Maugeri ed altri: ciò, perché, ci troviamo in un momento di transizione del sistema scolastico ed il dibattito sulle cose da fare e le proposte da fornire agli addetti ai lavori è, a mio modesto avviso, ancora troppo ristretto in ortus conclusus.
Ad esempio, tornando al tiflologo e le scienze tiflologiche: mi domando e domando: “perché la tiflologia, nella sua terza fase, come la definisce Rapisarda, non può rientrare tra le scienze umane di cui sono parte pedagogia, psicologia, filosofia, antropologia? E’ proprio vincente l’ipotesi di una compartimentizzazione della tiflologia sotto il nome di scienze tiflologiche?”
“E, ancora, la settorializzazione della tiflologia non parte di una vasta visione dipartimentale, acquista prestigio e specificità? o rischia la separatezza di uno specialismo da consultare ove lo si introduca ope-legis, ma che nella progressività evolutiva ed adattiva del processo educativo e formativo potrebbe non fare rete?
E, ancora: come garantire ai ragazzi ciechi, ipovedenti e pluridisabili, il diritto allo studio, alla crescita multilaterale della persona e personalità con la presenza di tutte le figure di sostegno, docenti specializzati, assistenti alla comunicazione ed autonomia, assistenti allo studio domestico, tiflologo, facendo, però, in modo che tutte queste persone non divengano una barriera di protezione escludente invece che includente? Proprio qualche settimana fa ho avuto da una studentessa del terzo anno di un liceo linguistico napoletano una testimonianza diretta del disagio che prova verso le compagne nel sentirsi così iper compressa dalle tante protezioni e che, sue parole, per fortuna, un giorno, uscendo prima del previsto dalla scuola per una circostanza accidentale, ha chiesto di aspettare l’orario conclusivo con le sue compagne e finalmente ha scoperto che mangiare un gelato fuori dalla scuola insieme ai coetanei, non solo è bello, ma anche più, veramente inclusivo che prendere tanti buoni voti”.
Certo, sono tanti i fattori che giocano nel divenire di un ragazzo, e, noi che ci siamo dati un compito impegnativo nell’occuparci di istruzione e formazione penso che dovremmo realmente trovare un modo per ritrovarci tra persone che, aldilà dei ruoli istituzionali ricoperti nell’associazione, sanno, vogliono e possono mettere in comune esperienze fatte, saperi consolidati, competenze acquisite.
Credo che assumere come metodo l’apertura all’ascolto e all’apporto di quanti vogliano contribuire, indipendentemente dall’essere componenti di una o nessuna commissione di lavoro, costituisca un valore e corrisponda al bisogno di sburocratizzazione di cui tanto si è parlato in concomitanza dell’ultimo congresso nazionale.
Silvana Piscopo
Perché oggi parliamo di “scienze tiflologiche?”, di Marco Condidorio
Prossimamente, appena il tempo si concederà in quantità maggiori al sottoscritto, risponderò, in modo più esaustivo, alle perplessità e riflessioni di alcuni lettori che, in questi ultimi mesi hanno sentito parlare del Typhlology Skilled Educator.
Per il momento, cercherò, limitatamente al tempo e allo spazio concessi, di gettare sul tappeto verde della perplessità, alcune contro-riflessioni e non si allarmino i lettori se qualche parola può suonare non propriamente “inclusiva”, ma fa parte del linguaggio, quello d’essere ciò che produce cambiamento, talvolta metamorfosi, , restando però lo stesso, un poco come l’Archè per i filosofi greci.
Ma entriamo ora nel vivo dell’argomento per rispondere alle perplessità di chi teme il “divenire” non in senso speculativo, ma storico: Chi è il filosofo? E lo Storico? Forse quelli che insegnano filosofia? O storia?
No certo, il docente di filosofia possiede i saperi, la storia della filosofia, ma non per questo è un filosofo; lo stesso vale per il docente di storia e così per ogni materia. Però il filosofo può insegnare la filosofia, così la storia.
Copernico era un matematico polacco, sì certo lo sanno tutti vero… potremmo definirlo scienziato? No, se ci riferiamo ad una certa struttura metodologica, sì, se lo consideriamo dal punto di vista dell'”osservatore”.
Quale tra le due idee circa la struttura del sistema mondo è più scientifica: la geocentrica o eliocentrica? Una ha funzionato bene per circa due mila anni; l’altra ha poco più di cinquecento anni. La prima ha origine dal pensiero scientifico di chi ha guardato il “sistema mondo” con coerenza, dirò occhio analitico; la seconda, sempre “scientifica” è di chi si è chiesto il perché di taluni fenomeni e se potessero essere spiegati diversamente. Ci si son messe la mobilità di ciò che in apparenza era fisso, le stelle e l’immobilità di ciò che pareva muoversi, il sole; ma, non è finita, hanno fatto la loro parte il movimento e la gravità. Insomma, un caos! Altro che cosmo!
Ma, con calma ragioniamo sul concetto di scienza, in molti di fronte a questo “parolone” si impressionano.
è forse scientifico che il triangolo rettangolo abbia un angolo di novanta gradi? No, semplicemente è “geometrico”. L’evaporazione dell’acqua è forse scientifica? No certo, è semplicemente un fenomeno fisico, naturale, piuttosto, al più scientifico sarà il metodo col quale si studiano gli effetti che da tale fenomeno hanno origine e di conseguenza quel fenomeno e le cause la possibilità di previsione e replica. .
Chi ha dato dignità, la SCIENZA alla MATEMATICA o, la matematica alla scienza? Ah! La Scienza! Il sapere, argomentare per concetti e non per immagini.
Sino al cinquecento la scienza era “qualitativa”: “La pietra cade”, scriveva Aristotele, “perché ha nostalgia di casa, vuol tornare al luogo naturale, quello che le è più proprio”. Ma, da che la matematica, vecchia compagna di viaggio della stessa scienza, nella storia, da sempre l’una accanto all’altra, ha deciso di abbracciarne tutti i contenuti, di lì ne è nata una SCIENZA QUALITATIVA. Ok, tutto da rifare, si ricominciò tutto da capo!
E allora? Che fare? Le cambiamo il nome? Invece di SCIENZA come potremmo chiamarla, ora che c’è anche la matematica? Per lo Stagirita l’Analitica è più vera della stessa dimostrazione, e dunque? Diamoci un paradigma, avrebbe detto Thomas Kuhn:
Da sempre, da che insegno tiflologia, o meglio, se si preferisce, materie tiflologiche presso l’Unimol, sostengo utile distinguere ciò che, per natura ha cittadinanza nell’alveo della scienza da ciò che, pur avendo una propria struttura metodologica e sperimentale, non possa definirsi scienza a pari della FISICA, dell’Astronomia o di altre discipline che, ancorché definite “scienze esatte”, la geometria e la matematica, determinano un percorso che dirò scientifico pur non essendo esso stesso indicato con l’aggettivo di “esatto”. La tiflologia è tra queste, vi risiede con dignità e esperienza; e tuttavia, la TIFLOLOGIA, che sino ad oggi ha occupato un significativo ruolo entro la ricerca pedagogica, e ancora risiede in essa, sia come contenuti che come riflessione, ha titolo per essere definita “pedagogia speciale”, anche se, auspico ancora per poco, proprio per i caratteri di indagine e dunque di studio circa la TECNICA, la DIDATTICA e l’INFORMATICA rivolte all’autonomia, agli apprendimenti e alla professionalità di chi, pur vivendo la condizione di disabilità visiva, nelle più svariate forme e gravità,abbia necessità e desiderio di avere una esistenza il più vicino possibile a quella di chi ha la funzionalità visiva sana.
Dunque la TIFLOLOGIA, per i caratteri che più le sono propri, quello d’essere RICERCA,STUDIO, INDAGINE, ANALISI, PROGETTAZIONE, SPERIMENTAZIONE,PREVISIONE, VALUTAZIONE di tutto ciò che direttamente e indirettamente ha a che fare con la cecità, l’ipovisione in tutte le sue forme e gravità, oggi anche con la prluriminorazione, ha cittadinanza nella scienza o meglio, nelle scienze il cui fine non sono lo studio e la sperimentazione dei fenomeni naturali, fisici, astronomici, chimici o biologici, matematici o geometrici, ma educativi, didattici e sociologici.
Ecco perché abbiamo iniziato a parlare delle scienze tiflologiche, sintetizzando le tre macro-aree della tiflologia: la tiflotecnica, tiflodidattica, tifloinformatica.
Dobbiamo avere l’onestà di pretendere per la tiflologia un lessico dignitoso e specifico, sottraendola al caos, pur comprensibile del passato e della storia, la nostra, riservandole ambiti ben precisi, ma al tempo stesso forti dell’esperienza, della ricerca e dei risultati conseguiti che, confermo ancora una volta, hanno il diritto d’essere definiti quali CONOSCENZE, COMPETENZE, e dunque scientifici nell’accezione più ampia del concetto di “scienza” e cioè CONOSCENZA, CONOSCENZE, SAPERI, SAPERE.
Avremmo potuto parlare di: SAPERI TIFLOLOGICI, bruttino, a mio avviso, e poi perché, altri saperi che, meno della stessa tiflologia, si fregiano del titolo di SCIENZA e la tiflologia no?
La contemporaneità della tiflologia ci impone la profonda riflessione che, certo, potrebbe giungere ad un traguardo RIVOLUZIONARIO, nessuna paura, nessun timore! Anche la nostra Terra un giorno è divenuta pianeta, errante, eppure abbiamo continuato a vivere e meglio!
La tiflologia dovrà affrancarsi, se vorrà riservarsi il giusto riconoscimento della più alta agenzia formativa, l’università, dalla pedagogia speciale, essendo essa stessa una pedagogia, non speciale ma, per contenuti e studio, specifica e specialistica. Dobbiamo puntare al riconoscimento di una formazione e cultura non medicalizzanti o sanitarie; l’UICI ha il diritto-dovere di fare sintesi attorno alla propria storia fatta di esperienze, conoscenze e competenze; lo deve alla tiflologia stessa, se vuole farsi garante dei processi di inclusione e socializzazione; deve cioè, proporre e far riconoscere dal Miur e dalle agenzie educative e formative, il professionista in tiflologia o del TYPHLOLOGY SKILLED EDUCATOR, quale esperto nelle scienze tiflologiche.
Ciò non significa espellere la tiflologia da “scienze della formazione” o “dell’educazione” (sono la casa naturale, per utilizzare la locuzione cara ad Aristotele, della stessa tiflologia); essa ne è parte per storia, natura e per contenuti; va però distinta l’azione pedagogica dell’intervento tiflologico da quella prettamente educativa, formativa del docente disciplinare: la matematica, non ha contenuti o formule per i ciechi, diverse da quelle per gli studenti vedenti, ciò che può differire è il metodo, l’approccio strumentale e al più didattico per facilitare l’apprendimento all’alunno cieco dei contenuti disciplinari che, non variano in relazione alle abilità sensoriali del discente. Per tale ragione, dirò “scientifica” l’intervento tiflologico non deve, non può essere inscritto in un percorso definito di “pedagogia speciale”, perché è come definire il codice braille uno strumento “speciale”, solo per il fatto che lo si utilizza grazie al tatto e non mediante la vista come il sistema alfanumerico per i vedenti. Il tatto è, pari alla vista, uno dei cinque sensi e dunque ha pari dignità e proprie specificità, non solo per i ciechi, ma per tutti gli esseri umani. Il Senato accademico, dove siedono luminari dei diversi campi del sapere, dello scibile umano, hanno studiato a lungo definizioni e mie riflessioni prima di esprimersi a favore dello stesso master in TSE.
Inoltre, come Network, stiamo improntando i LEP, e gli indicatori di qualità: i primi rivolti ai servizi, strutture associative in un primo tempo, territoriali, regionali e nazionali in un secondo tempo;i secondi riguardano specificatamente ciò che interessa i processi di scolarizzazione e dunque di inclusione rivolti ad alunni in situazione di disabilità visiva, cecità assoluta e ipovisione grave: apprendimenti e strategie.
Questo farà, tecnicamente e non dal punto di vista politico, il NETWORK per l’inclusione scolastica dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti onlus.
Il Network non si sovrappone, né sostituisce alcun ente o istituzione associativa né, tantomeno alla commissione nazionale per l’istruzione e la formazione della stessa UICI, è un gruppo tecnico di esperti in scienze tiflologiche. Auspico possa essere riconosciuto dal Miur; resta comunque il fatto che, il comitato tecnico per l’inclusione scolastica “NETWORK” riunisce in se la filosofia dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti, esclusivamente dal punto di vista professionale e tecnico, non politico o squisitamente dialettico, propri della commissione nazionale per l’istruzione e la formazione, del Consiglio Nazionale della stessa UICI.
Marco Condidorio
Istruzione – Scienze tiflologiche: quali sono?, di Silvana Piscopo
La costruzione del network per l’inclusione, così come ci informano gli articoli di Gianluca Rapisarda, il report di Luciano Paschetta, mi suggerisce riflessioni, esigenze di approfondimenti, ma anche qualche perplessità.
Riflessioni:
quando si parla di creare standard, linee guida, omogeneità, significa che, realizzata una mappa dei bisogni attraverso la rilevazione di servizi funzionanti sul territorio nazionale(sud compreso e, forse prioritario), verranno offerte le opportune indicazioni alle sezioni Uici? o alle scuole? o agli enti istituzionali, a vario titolo preposti all’istruzione e formazione degli alunni con disabilità?
Da più parti vengono richiesti standard di qualità nelle trascrizioni di libri di testo, nell’ingrandimento per gli studenti ipovedenti, programmazione dei tempi di produzione dei materiali affinché bambini e ragazzi non si trovino a pagare ritardi dipendenti da disordini di funzionalità: con il network e l’auspicata elaborazione di standard dei servizi, sono comprese queste risposte ai bisogni dell’utenza?
e veniamo all’esigenza di approfondimenti premesso che personalmente non dispongo del titolo romagnoli,
che ho sempre studiato in scuole pubbliche, insegnato ed esercitato la professione di dirigente scolastica con risultati, per me, soddisfacenti, che ho anche conseguito il titolo per il sostegno con un corso biennale polivalente organizzato dal Miur alla fine degli anni ottanta, ho condotto molti corsi di formazione per docenti di sostegno e per dirigenti scolastici, tuttavia non mi ritengo competente di quelle che vengono chiamate “scienze tiflologiche”: di qui, la domanda:
cosa si intende con tale denominazione?
esistono testi scientifici da cui apprendere tali scienze?
se il percorso formativo del tiflologo si struttura su specifiche aree:
dall’oculistica alla pedagogica, dalle dinamiche relazionali alle tecniche di apprendimento, dall’utilizzo di mezzi specialistici per la lettura e scrittura, dall’uso delle tecnologie assistive agli strumenti per l’accessibilità, e l’indipendenza, non si rischia di cadere nello stesso errore che ha caratterizzato la formazione di docenti di sostegno, contenitori di informazioni sommative, invece che titolari di conoscenze specifiche e metodologie appropriate? Ci saranno occasioni per conoscere, discutere e capire in quali ambiti e con quali obiettivi opereranno queste nuove figure?
ed eccomi a qualche perplessità:
fino ad oggi, che mi risulti, l’Uici è interlocutrice, attraverso i suoi vari organi centrali e periferici, delle varie istituzioni a seconda dei settori di intervento, dunque anche per tutta la complessa partita dell’istruzione ed inclusione scolastica:
l’istituzione di questo network di cui si richiede il riconoscimento dal Miur, si sovrappone, si sostituisce, o occuperà altri spazi che io non riesco ad immaginare?
2 -tutti i finanziamenti oggi distribuiti tra gli enti collegati, confluiranno nel network, oppure ciascuno metterà la propria parte di risorse?
3-che io sappia l’Uici è nella Fand, collabora con la Fish e, soprattutto recentemente ha contribuito nella presentazione della proposta di legge 2444 di cui si auspica un buon destino:
con l’istituzione di questa entità che agirebbe, per quanto mi è dato comprendere, anche come autority, cosa accade con le sopra citate organizzazioni?
Silvana Piscopo
coordinatrice commissione istruzione e formazione sezione provinciale di Napoli.
Insegnanti di sostegno e non solo, di Claudio Cassinelli
Le riflessioni e le proposte a suo tempo pubblicate di Luciano Paschetta che prendevano spunto dall’esperienza di Brescia di integrazione scolastica dei ragazzi ciechi, destano polemiche e hanno suscitato vecchi e nuovi malumori e inquietudini che sono fonti e hanno alimentato anche altre proposte alternative all’attuale sistema di inclusione.
Da qualche parte vengo sollecitato a pronunciarmi in merito. Non conosco l’esperienza di Brescia e pertanto non posso esprimere alcuna valutazione, sebbene mi paia esagerato il giudizio di eccellenza e di unicità e soprattutto ingeneroso verso altre situazioni.
Posso invece dire quale è l’esperienza dell’Istituto Chiossone di Genova. Come è ben noto la rivolta degli studenti del 1971 ha portato il Chiossone – diversamente da quanto avvenuto in altri Istituti – a convertire il collegio in servizi di supporto. Questi sono cresciuti e si sono evoluti nel tempo fino estendersi oltre l’ambito scolastico: età prescolare e neonati, anziani, ipovedenti, pluridisabili, interventi ambulatoriali, domiciliari, extramurali, residenziali e semiresidenziali. Tutto questo come prestazioni multidisciplinari comprese in programmi individualizzati erogati in convenzione col servizio sanitario nazionale e quindi come diritto del singolo utente, in un processo di “presa in carico” globale e longitudinale.
Ovviamente anche il supporto al percorso scolastico del bambino e del ragazzo disabile visivo rientra in questo sistema, con l’erogazione non solo di prestazioni dirette all’utente, ma anche alla famiglia e agli insegnanti, compreso, naturalmente l’insegnante di sostegno.
Questo sistema funziona. Allora perché rinunciare all’insegnante di sostegno? Certo sono sempre possibili critiche, e spesso purtroppo giustificate, ai singoli docenti, ma anche alla scarsità e inadeguatezza della loro preparazione specifica. Basta questo per rinunciare ad una risorsa e a un sistema che ha il vantaggio di rappresentare la “presa in carico” dell’alunno e l’assunzione di responsabilità dell’istituzione scolastica per l’integrazione del disabile?
Concordo che in taluni casi, soprattutto nelle scuole superiori, alcuni studenti possono e anzi debbano fare a meno dell’insegnante di sostegno; ma non si deve generalizzare e sono convinto che debba essere la scuola, nell’ambito della propria responsabilità, a decidere quando e quanto insegnante di sostegno assegnare, valutando ogni singolo caso nelle sue particolarità.
A questo proposito sottolineo che non si deve credere che possa esistere una regola e una soluzione uguale per tutti, soprattutto quando siamo in presenza di casi molto diversi: i bambini ciechi o ipovedenti monodisabili sono sempre meno e assistiamo alla forte crescita dei casi di disabili visivi pluridisabili.
Inoltre la proposta di sostituire l’insegnante di sostegno con un centro di supporto ha il sapore antico di cercare una soluzione speciale ad un bisogno che si reputa unico e diverso da quello di tutti gli altri. Molto spesso i gruppi di individui connotati da elementi molto caratterizzanti e percepiti come fortemente anomali sono stati oggetto di interventi, disposizioni, istituzioni speciali – sovente anche richieste o accolte con favore, o addirittura entusiasmo, dagli stessi individui destinatari – a motivo della particolarità di quelle specifiche condizioni. Salvo poi accorgersi – come hanno fatto quasi tutti i ciechi – che i presunti privilegi ottenuti di fatto si trasformavano in limiti e condizionamenti.
Non dobbiamo invece abbandonare il sistema solo perché ha qualche pecca e smettere di lottare per superarla. Dobbiamo chiedere più sistema, ottenere servizi che vadano bene per i disabili visivi ma anche per altri che abbiano difficoltà nel percorso scolastico. La fornitura di supporti specialistici non deve introdurre corpi estranei al sistema e non deve deresponsabilizzare la scuola italiana che ha enormi meriti e potenzialità inclusive e deve correggere errori e investire in formazione e aggiornamento dei propri operatori.
A questo proposito ricordo che nel 2013 è stata elaborata una proposta, presa in esame anche dalla Direzione nazionale dell’UICI e dalle Presidenze della Biblioteca nazionale Braille e della Federazione pro ciechi, per integrare i centri tiflodidattici dipendenti dalle due istituzioni nella rete dei Centri Territoriali di Supporto (CTS) istituiti dal Ministero dell’Istruzione a livello provinciale nell’ambito del progetto “Nuove Tecnologie e Disabilità”.
Su questa proposta bisognerebbe tornare a riflettere per arricchirla e migliorarla. Ovvero c’è bisogno di un disegno che razionalizzi, generalizzi, coordini e renda organiche e funzionanti le risorse esistenti, senza rinunciare agli insegnanti di sostegno che comunque rappresentano una conquista.
Ricordo che negli anni passati ho duramente polemizzato con l’amico Davide Cervellin che aveva proposto di respingere al mittente – Ministro dell’Istruzione – gli insegnanti di sostegno: evitiamo passi falsi.
. Mi chiedo se nel processo che Luciano Paschetta aveva descritto di progressiva istitutizzazione dell’istruzione degli alunni ciechi, avvenuta negli anni cinquanta e sessanta – dalla scuola di tutti a quella speciale dentro gli istituti – non sia da riconoscere una logica e una volontà degli stessi istituti per ciechi, rivolta alla propria crescita di ruolo, piuttosto che a una interpretazione oggettiva dei bisogni dei propri assistiti. Come lo stesso Luciano afferma c’è stata una volontà di tutelare le istituzioni speciali. Vediamo di non fare lo stesso errore e di far tornare gli alunni ciechi competenza di una struttura speciale, rifiutando un sostegno offerto dal sistema di tutti.
Claudio Cassinelli
Presidente Istituto David Chiossone di Genova.
Una data da ricordare, di Luciano Paschetta
L’11 maggio 1976 il Parlamento “restituiva” ai ragazzi con disabilità visiva il diritto all’inclusione nella scuola di tutti, un diritto che gli era stato loro “scippato” da due leggi: quella che nel 1952 statizzava le scuole elementari per ciechi e quella che nel 1962 istituiva la scuola media unica. La prima prevedendo che i ciechi dovevano assolvere all’obbligo scolastico nelle apposite scuole speciali, impediva, contrariamente a quanto previsto dalla riforma Gentile, che essi potessero frequentare, a partire dalla quarta elementare, le scuole comuni. La seconda, estendendo l’obbligo fino a 14 anni, li costringeva a frequentare anche le nuove scuole medie speciali, nate dalla trasformazione delle precedenti scuole speciali di avviamento professionale.
Questo rende evidente come la frequenza degli alunni con disabilità visiva nelle scuole speciali fino al termine dell’obbligo scolastico, non sia stato il frutto di una riflessione tiflopedagogica, ma sia stata piuttosto motivata dalla necessità di salvaguardare strutture e interessi diversi.
A questa situazione si ribellarono, a partire dai primi anni ’70, alcuni genitori Spezzini, seguiti da altri (Torinesi, Bergamaschi e Veneti e via via, di altre regioni), che, seppure non sempre appoggiati dalle locali sedi dell’U.I.C.I., ottennero che i loro figli fossero accettati nelle scuole comuni per l’assolvimento dell’obbligo. Nasceva così, all’interno dell’Unione, quel movimento che avrebbe lottato per ottenere di nuovo il riconoscimento del diritto all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità visiva, quel diritto che Augusto Romagnoli nel 1925 aveva voluto per loro a partire dalla quarta elementare e che leggi motivate più dalla salvaguardia delle istituzioni che dalle ragioni pedagogiche avevano loro sottratto. La legge 360, promossa da una parlamentare Bergamasca, che prima come assessore all’istruzione di quella provincia aveva avuto modo di verificare l’efficacia dell’inclusione scolastica per i ragazzi con problemi di vista, fece giustizia dello scippo, restituendo loro il diritto alla frequenza nella scuola di tutti, precedendo di un anno quella che sarà la legge che sancirà il diritto all’inclusione nella scuola dell’obbligo per tutti i disabili.
Purtroppo, il modo con cui, a partire da questo momento, verrà realizzato il modello di inclusione, non terrà conto di uno dei due “pilastri” sui quali la 517 fondava il processo di integrazione: lo sviluppo di un “contesto inclusivo”, ma si limiterà a fare affidamento unicamente sul docente di sostegno e ciò favorirà il progressivo disimpegno degli insegnanti titolari e l’ampliarsi della “delega” del disabile al sostegno. Inoltre, anche in considerazione della modesta percentuale di disabili visivi (meno del 2%) sul totale degli alunni disabili, il modello di inclusione e la formazione dei docenti, focalizzandosi sulla disabilità intellettiva, terranno sempre meno in conto le specificità della minorazione visiva. Questi i principali punti di debolezza di un modello di inclusione, che, per quanto riguarda l’istruzione dei disabili visivi, ha sicuramente la necessità di essere rivisto.
Tuttavia questo non giustifica certo le “nostalgie” di chi evoca un ritorno alle scuole speciali: l’inclusione dei disabili nella scuola di tutti è un principio della cui validità tutti sono convinti, tanto che il nostro sistema inclusivo è all’attenzione delle agenzie formative di tutta l’Europa, e non solo, e sempre più nazioni stanno aprendo i loro sistemi scolastici all’inclusione dei disabili.
Per quanto riguarda i ciechi poi, come abbiamo visto, non si tratta che di tornare ai principi del fondatore della tiflologia che sostenne, sin da principio e nonostante si fosse in un contesto socioculturale in cui l’analfabetismo era ancora molto diffuso, che i nostri ragazzi potevano frequentare le normali scuole sin dalla quarta elementare (ovviamente senza docente di sostegno).
Quarant’anni di integrazione scolastica ci hanno insegnato che per una reale inclusione questo modello che è passato a fornire agli alunni con disabilità visiva da meno di 13 ore medie settimanali dei primi anni 90, le attuali 25 ore medie settimanali di sostegno (tra scuola e a casa), non è servito a migliorarne il processo di inclusione, né serve pretendere per loro il rapporto uno a uno: è dimostrato che non è l’aumento delle ore di sostegno ad elevare il livello qualitativo dell’inclusione. Ciò che serve è un “contesto inclusivo” in grado di mettere i ragazzi nelle condizioni di seguire autonomamente le lezioni, un contesto capace di offrire, attraverso una “rete organizzata” tra territorio e scuola, servizi di formazione e sostegno specializzati e di qualità che rendano i docenti titolari “capaci” all’insegnamento dei ragazzi con disabilità, fornendo loro gli strumenti perché essi riescano ad interagire positivamente con lui. Un contesto in cui vi sia chi sappia: comprendere gli aspetti critici dello sviluppo psicomotorio in assenza della vista e suggerire come si faccia a superarli con successo; chiarire gli aspetti specifici della percezione della realtà in mancanza della vista; valutare la funzionalità del residuo visivo in relazione al lavoro didattico e/o professionale; insegnare come si educa un minorato della vista alla “lettura” delle rappresentazioni grafiche bidimensionali (grafici, piantine toponomastiche e cartine, disegni in rilievo, ecc.); indicare quando è indispensabile l’insegnamento del metodo Braille, piuttosto che quali siano i sussidi per gli ipovedenti per rendere autonomo il bambino con disabilità visiva nella letto-scrittura; illustrare quali siano gli accorgimenti ed i sussidi per rendere efficace la didattica in presenza di un cieco assoluto e/o di un ipovedente grave; insegnare l’uso del PC con le periferiche assistive (screen reader, display Braille, sofware ingrandenti, ecc.); individuare i giochi idonei al bambino con gravi problemi di vista; indicare quali siano le opportunità di accesso all’informazione (quotidiani e riviste on line accessibili, biblioteche digitali, audiolibri, ecc.); suggerire come si “adatta” un testo di scuola primaria o un testo letterario o scientifico affinché il privo della vista o l’ipovedente lo possano utilizzare appieno; far capire come insegnare la musica a chi non riesce a leggere lo spartito; spiegare quali siano le possibilità di orientamento, mobilità e di autonomia personale raggiungibili alle diverse età e nelle diverse situazioni da chi ha problemi di vista; valutare l’idoneità di una situazione di lavoro e la sua adattabilità al cieco o all’ipovedente. Tutto questo può sembrare un’utopia, ma può diventare realtà se si riesce a mettere “in rete” tutte le capacità e le risorse oggi presenti, ma scoordinate tra loro, è questa la nuova sfida che l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e gli enti ad essa collegati: Federazione delle istituzioni pro Ciechi, Biblioteca Nazionale per Ciechi, I.Ri.Fo.R. e IAPB, vogliono affrontare con la creazione di un network per gli studi tiflodidattici e tiflopedagogici.
Occorre invece fuggire da coloro che, viceversa, vorrebbero nuove scuole speciali per ciechi, e che, sfruttando il malcontento di quei genitori che, lasciati soli e avendo trovato docenti di sostegno impreparati, temono per il futuro dei propri figli, offrono loro questa come soluzione, illudendoli che in tal modo i loro problemi saranno risolti.
Certe nostalgie non hanno senso nel momento in cui la pedagogia internazionale riconosce che l’inclusione scolastica è il modello educativo più valido e, a maggior ragione, esso lo sarà per quei disabili che da sempre, prima che altri interessi gliene scippassero il diritto, sono andati a scuola con i loro compagni vedenti.
Non vogliamo una scuola per disabili visivi, di Luciano Paschetta
Letta la proposta Cervellin di aprire una “scuola specialistica” per disabili visivi, sono rimasto sconcertato dalla “debolezza pedagogica” della motivazione data a sostegno dell’iniziativa e, quale esperto che da oltre quarant’anni si occupa di inclusione scolastica di questa tipologia di alunni, non posso tacere.
Se è vero che l’inclusione scolastica dei disabili visivi, così come si è venuta realizzando, presenta alcuni aspetti critici, questo significa solo che essa, così come è, non va, non che il modello inclusivo non sia valido. La proposta Cervellin, nonostante venga presentata solo come una modalità diversa di realizzare l’inclusione scolastica degli alunni disabili visivi, in realtà è falsamente inclusiva: è vero che è prevista l’inclusione in una classe “mista” tra alunni normovedenti ed alunni con disabilità visiva, ma affinché questi ultimi possano frequentare questa scuola dovranno essere sradicati dal contesto famigliare e sociale in cui vivono ed essere “istituzionalizzati”, riprendendo un modello educativo riconosciuto valido nel tempo in cui era stato proposto da Gentile e realizzato (gli anni ‘30), ma che è stato messo in discussione da tutte le recenti teorie pedagogiche. Riproporlo ora significa anche non tener conto che in questi 90 anni la scuola e la società sono profondamente mutate e, per questo semplice fatto, oggi, una simile proposta risulta “fuori dal tempo”. La storia non si ferma, la storia va avanti con noi o senza di noi. Voler tornare a modelli del passato con l’illusione che essi hanno funzionato e quindi funzioneranno anche adesso, vuol dire semplicemente non essere stati capaci di leggere i segni dei tempi.
Cosa poi assolutamente discutibile è quella di voler fare una “scuola specialistica” per soli alunni altrettanto “speciali”, con la sola disabilità visiva. Al di là di questa idea di “selezione preventiva” che richiama ideologie segregazioniste che poco hanno a che fare con l’inclusione, l’autore della proposta sembra conoscere poco le problematiche dello sviluppo socioeducativo del bambino con problemi di vista: egli dovrebbe sapere che, nel bambino non vedente, normodotato alla nascita, ma non educato correttamente nel “pre-scuola” non è difficile assistere al sorgere di “disabilità secondarie”. Oltre che fuori dal tempo il modello proposto risulta essere anche fuori dalla realtà: anche in questo caso si fa riferimento ad un “ disabile visivo ideale” anziché partire da “bambini reali”.
Nel mio contributo “Sostegno o insegnante di sostegno?” pubblicato nelle pagine precedenti, muovendo dall’analisi del come si è venuto realizzando l’inclusione dei disabili visivi e quale sia attualmente lo “stato dell’arte”, ho cercato di chiarire che per una corretta inclusione degli alunni non vedenti e ipovedenti non serve il “docente di sostegno” se non nei primi anni della scuola elementare; servono invece “centri di sostegno” e una figura capace di supportare i docenti titolari nel dare le giuste risposte ai bisogni specifici del disabile visivo.
Su quest’ultimo punto un grosso aiuto verrebbe dal definire il profilo professionale dell’”assistente alla comunicazione” (art. 13 comma C legge 104/92) ed il relativo percorso formativo, obbligando poi le cooperative e gli enti che svolgono il servizio di assistenza scolastica e/o domiciliare a servirsene. Noi nella proposta di legge FAND–FISH sull’inclusione scolastica, i cui principi sono stati tutti recepiti nella legge 107 ed i cui contenuti stiamo cercando di trasferire nell’emanando decreto delegato sull’inclusione, lo abbiamo previsto.
La modalità di realizzazione dell’inclusione degli alunni con disabilità visiva va corretta, non certo attraverso nostalgici quanto dannosi ritorni al passato, ipotizzando “modelli ideali” per “disabili visivi ideali” fuori dal contesto, dal tempo e dalla realtà, ma guardando alla scuola che sarà, attraverso una maggior specializzazione dei docenti ed una maggior consapevolizzazione della scuola sui bisogni specifici dei ciechi e degli ipovedenti, creando le condizioni perché il contesto diventi inclusivo e, a nostro parere, la legge 107 contiene tutti i principi perché ciò possa realizzarsi.
Luciano Paschetta
Istruzione – Voci dall’Osservatorio per l’inclusione scolastica del Miur. Il primo giorno di Osservatorio…, di Marco Condidorio
Abstract: Tra le criticità cui l’inclusione scolastica deve il proprio insuccesso, va individuata nella formazione inadeguata e sommaria degli insegnanti per il sostegno, causa programmi universitari privi di finalità didattiche e operative, lontani dagli ambienti ove lo studente in situazione di disabilità affronta in solitudine il proprio percorso scolastico. Risultato, l’inclusione si presenta come insuccesso formativo, nessuno degli attori, preposti per l’attuazione della normativa in materia di inclusione scolastica e dei processi ha competenze specifiche né sa cosa significhi valutare, certificare gli obiettivi dell’autonomia e degli apprendimenti disciplinari.
Marco Condidorio
Pochi attimi per potersi ambientare; esplorare l’ambiente, capirne gli spazi e le persone attorno al grande tavolo; sedersi lì, dove Ministri della Repubblica italiana e Sottosegretari della Pubblica istruzione hanno fatta la storia della nostra scuola; dove direttori e funzionari hanno scritte le fatidiche O.M. e le C.M. In quella sala, denominata “ Sala dei Ministri” sono nate leggi come la 118, norma a favore dei mutilati ed invalidi civili di cui cito in particolare gli articoli: 27 e 28 che trattano rispettivamente della eliminazione delle barriere architettoniche e degli edifici di nuova costruzione e dell’obbligo d’istruzione che deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica salvo i casi in cui il soggetto sia affetto da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tali gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali, a cui seguono negli anni alcune iniziative che danno origine al processo di scolarizzazione, nella scuola pubblica di tutti, per tutti, degli alunni disabili; tale percorso legislativo culminerà con la scrittura da parte del legislatore della famigerata 517 del 1977, legge con cui lo Stato italiano decretava la chiusura definitiva delle scuole speciali.
Ecco, essere lì; essere uno tra i molti; qualcuno tra pochi o, forse solo un’idea tra le mille che hanno viaggiato attraverso l’Italia dei banchi sgangherati; delle lavagne impolverate di gesso, nelle aule fatiscenti, luoghi provvisori per migliaia di alunni; respirare l’aria densa del tempo, limpida della sua storia, la nostra; essere lì e risentire le voci dei programmi “Gentile”, quelli del “cinquantacinque” e dell’ottantacinque, sino a quelli dei moduli, tanto rivoluzionari e didattici rispetto a quelli del maestro unico, così severi e oramai troppo vetusti; essere lì da adulto col cuore di studente, forse ancora bambino; essere in quel luogo ogni giorno, per tutti questi anni di scuola, oggi “Buona scuola” e pur sempre con tutti i suoi difetti e, perché no, magari con anche qualche pregio, per esempio quello d’essere comunque la scuola di tutti, per tutti, almeno nel principio del dettato legislativo e secondo la stessa Costituzione, argomento questo su cui avremo tempo e modo per dibattere (si leggano gli articoli 3, 34 e 38 senza escludere gli articoli 2 e 4, essenziali per comprendere le ragioni storiche ed evolutive riguardanti la persona in situazione di disabilità e lo stesso ambiente).
Entrare in quel luogo, così importante per storia e stile architettonico, ha suscitato in me un certo fascino nonché imbarazzo; eppure, dopo pochi minuti, ho avuta la sensazione d’essere al posto giusto, forse anche al momento giusto, vedremo!
Accanto a me, oserei dire in posizione di esperto, c’è stato l’amico Luciano Paschetta, referente per la scuola della Fand Federazione Associazioni Nazionali Disabili.
E comunque, nella sala dei ministri, sono state scritte alcune parti della legge 107 del 13 luglio 2015, conosciuta come “Buona scuola”.
Cosa vuol dire essere componente dell’Osservatorio per l’inclusione scolastica; cos’è questo organismo istituzionale del Ministero per la Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca denominato Osservatorio?
Perché è così importante?
Andiamo per ordine, cos’è l’Osservatorio e di cosa si occupa: ha funzioni e compiti di tipo consultivo su: il monitoraggio del processo per l’integrazione scolastica, allo scopo di sostenere e facilitare l’attuazione degli obiettivi previsti dalla legge 104/92; gli accordi inter-istituzionali per la presa incarico del progetto globale di vita e di integrazione di alunni con disabilità; della piena attuazione del diritto allo studio, formazione degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali; di sperimentazione, innovazione metodologico-didattica e disciplinare; e in ultimo, ma non perché meno importante, anzi, a mio avviso è un poco il nucleo dell’Osservatorio, ha quello di potersi esprimere sulle proposte e i diversi disegni di legge, concernenti ovviamente la scuola, con propri pareri e iniziative, nonché sui regolamenti.
Il 10 agosto di quest’anno la Ministra Giannini firma il Decreto con il quale viene ricostituito l’Osservatorio per l’inclusione scolastica degli alunni disabili.
L’Osservatorio si articola in una consulta delle associazioni e in un comitato tecnico scientifico.
La consulta è composta dalle due federazioni Fand e Fish rappresentate dalle rispettive presidenze nazionali e da ben dodici associazioni federate, di cui sei con la Fand e sei con la Fish; vi sono poi alcune associazioni non federate come Fiaba e l’Associazione italiana dislessia.
Vediamo ora la composizione del comitato tecnico scientifico: i due presidenti delle due federazioni Fand e Fish, che fungono da ponte tra la consulta e lo stesso CTS e dai quattro direttori generali, uno per il personale scolastico, uno per gli ordinamenti, uno per i sistemi informativi e uno per l’Università.
Sono poi presenti docenti, dirigenti scolastici, neuropsichiatri infantili, pedagogisti, il rappresentante del Ministero del Lavoro e quello della Salute.
La novità è che, da quest’anno è presente nella compagine dello stesso CTS il CNUDD (Conferenza Nazionale Universitaria Delegati per la Disabilità).
Si stima che gli alunni frequentanti le università italiane, in situazione di disabilità, siano circa l’uno per cento della popolazione studentesca; per essere concreti, qualcosa come quindicimila persone integrate nei normali percorsi di laurea.
In ultimo, mi sia concesso un cenno all’impianto giuridico, da reputarsi sostanziale, dell’Osservatorio, in particolare quello della consulta e cioè che, per il fatto d’avere come direzione generale, quella dello studente, sia espressione del diritto “soggettivo” dello studente dunque anche di quello in situazione di disabilità , in quanto persona avente diritti e doveri e d’altro canto l’intera struttura quale Osservatorio per l’inclusione degli alunni disabili, pur presieduto dal sottosegretario Davide Faraone è egregiamente diretto dal Dott. Raffaele Ciambrone in qualità di Dirigente Ufficio IV – Disabilità della Direzione Generale per lo Studente, l’integrazione e la partecipazione.
Su cosa abbiamo lavorato in questa prima seduta di insediamento e già operativa?
Per rispondere alla terza ed ultima delle tre domande, desidero sottolineare come lo sviluppo dei lavori abbia riguardato principalmente tre temi cari non soltanto alla nostra Associazione l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e al nostro Istituto I.Ri.fo.R. ma all’intero comparto scuola, a tutto il mondo dell’istruzione e della formazione ovvero la formazione dei docenti per il sostegno e di quelli curriculari; la continuità didattica e la tutela degli alunni disabili sia in termini di sicurezza scolastica che di utilizzo e di accessibilità degli stessi ambienti.
In sintesi l’intervento del sottoscritto ha riguardato i punti sopra elencati confermando, inoltre, la linea proposta dalle federazioni Fish e Fand alla luce dell’ipotesi legislativa 2444, evidenziando tuttavia che l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti intende intervenire riguardo la formazione dei docenti con proposte operative che tengano conto delle specificità legate alla minorazione visiva nonché quelle del plurihandicap ove la cecità sia la disabilità prevalente.
Inoltre, è stato evidenziato come, sia gli ipovedenti che i ciechi assoluti, trovino difficoltà di frequentazione degli ambienti scolastici per le diverse barriere non solo architettoniche ma anche di tipo ambientale come la cattiva illuminazione e l’uso di materiali e superfici non idonee.
Infine, ho presentato il Master universitario in Educatore Tiflology Assistant promosso e sostenuto dall’ I.Ri.Fo.R. nazionale in collaborazione con l’I.Ri.Fo.R. Molise, l’Unimol (Università degli Studi del Molise) e dalla presidenza nazionale dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti come progetto pilota per la formazione anche di futuri insegnanti per il sostegno; , a tal fine, dunque, in merito a quanto appena detto desidero precisare quanto segue: il Ministero ha istituiti cinque tavoli di lavoro per la discussione dei nove punti della delega, di questi alcuni sono accorpati e discussi attorno ad un medesimo tavolo. Vediamo quelli relativi al primo tavolo tecnico: il primo gruppo tratta della promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità; del ruolo e della formazione iniziale dei docenti (da intendersi, qui, di quelli per il sostegno); la continuità didattica.
In breve, il Governo ha convocato cinque “gruppi operativi” per lavorare attorno a 9 argomenti che raggruppano i vari punti per i quali è necessario predisporre i decreti delegati attuativi della L.107/2015. Ne cito solo alcuni: l’inclusione degli allievi con disabilità; il sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni; la revisione dei percorsi di istruzione professionale; la formazione iniziale dei docenti e l’accesso all’insegnamento.
In qualità di componente dell’Osservatorio delegato in rappresentanza del Presidente nazionale dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, desidero evidenziare l’importanza che riveste la presenza della stessa UICI all’interno di un organo istituzionale di così alto valore politico, poiché è in tale sede che la nostra Associazione in modo democratico e collegiale, pur dialettico, può dibattere su temi più caldi quali: l’istruzione , la formazione e l’inclusione scolastica degli alunni non vedenti assoluti e di quelli ipovedenti gravi e con disabilità aggiunte. La formazione dei docenti curricolari e per il sostegno, per proporne non solo il percorso universitario, ma il riconoscimento giuridico circa la specificità, superando lo steccato della formazione di base, per noi generica e insidiosa.
Il nostro Presidente nazionale Mario Barbuto, ha voluto e creduto moltissimo nell’istituzione di un gruppo di lavoro quale è quello, oggi, della Direzione nazionale, puntando l’accento proprio sui temi dell’istruzione e della formazione; temi questi a cui sarà bene che siano affiancati da quello del lavoro, dell’informazione e della comunicazione.
La Commissione Istruzione e Formazione della nostra Associazione, di cui la Direzione nazionale mi ha affidato l’alta responsabilità operativa ed associativa, ha di fronte a sé una strada aperta, certo non scevra di insidie di carattere politico, talvolta persino di tipo ideologico, ostacoli non da aggirare bensì da comprendere, sino a trasformarli in punti di forza, magari giungendo, dopo un confronto dialettico, ad una sintesi dai risvolti positivi, umanamente accoglibili e condivisibili come, per esempio, una normativa equa, solidale e paritaria. In tutto ciò è indispensabile il concorso di tutti, dell’intero mondo associativo e civile, delle istituzioni e dello Stato.
Marco Condidorio