Una sfida da raccogliere, di Francesco Fratta

Autore: Francesco Fratta

Quando si parla di resa accessibile di opere d’arte, nel caso specifico dei disabili visivi, la mente dei più corre immediatamente ad oggetti da poter toccare – riproduzioni od originali di sculture in primo luogo, o modellini di opere architettoniche -, e più o meno inconsciamente pensa anche che le opere prettamente visive (pittura, fotografia e in buona parte il cinema ed anche in certa misura il teatro), siano condannate a restar fuori da una fruizione realmente soddisfacente e godibile. In particolare pittura e fotografia che, a differenza delle rappresentazioni cinematografiche e teatrali, non sono accompagnate ed integrate da una qualche narrazione fatta di dialoghi, rumori e suoni.
Tuttavia, la pittura da tempi remotissimi, e assai più recentemente la fotografia, costituiscono forme molto importanti e significative in cui si è espressa e si esprime la cultura umana, e le immagini non provenienti direttamente dagli oggetti, ma prodotte e riprodotte ad opera dell’uomo, artistiche o meno che siano, sono onnipresenti oggi più che mai ed è pressoché impossibile non farne esperienza. Già…, “pressoché impossibile”… E i ciechi? E soprattutto i ciechi dalla nascita? Come potrebbero mai accedere e fare in qualche modo esperienza di ciò che nella realtà in cui – come tutti gli altri – sono immersi, si presenta come pura immagine, e per sua stessa natura quindi non direttamente percepibile se non attraverso l’organo di senso specificatamente preposto alla visione?
Semplice! – si sarebbe tentati di dire. Sono varie e molteplici le tecnologie oggi disponibili per mettere in rilievo e rendere dunque tattilmente percepibili gli elementi formali di un dipinto, di un disegno o di una fotografia. Vero, ma il fatto è che di per sé ciò è del tutto insufficiente. Un cieco posto per la prima volta davanti ad una immagine riprodotta in rilievo, anche ben confezionata e con linee ben marcate, laddove non ricevesse altra indicazione se non quella relativa al soggetto (poniamo il San Giorgio e il drago di Raffaello), dopo ripetuti sforzi molto probabilmente riporterebbe da una simile esperienza un senso di frustrazione per non esser riuscito a individuare adeguatamente i vari elementi che compongono il quadro, e ciò a causa delle inevitabili sovrapposizioni di piani, dei loro rapporti dinamici, di eventuale mancanza di informazioni (come è fatto un elmo), ecc.
Se ne deve dedurre che le arti schiettamente visive come fotografia e pittura sono inesorabilmente inaccessibili, che l’immagine è del tutto inattingibile se non mediante la vista? Io penso di no. Ma ci si deve intendere su che cosa sia propriamente la visione e come si attivi il processo immaginativo in assenza del senso della vista.
Davvero noi vediamo soltanto con gli occhi? – si chiedeva il fotografo cieco Eugen Bavcar qualche anno fa in una conferenza svoltasi al Circolo dei lettori di Torino – o meglio: sono i nostri occhi che vedono, o non piuttosto il nostro intero corpo, come totalità senziente, che percepisce le cose del mondo, facendosene di volta in volta un’immagine? Il corpo non è una sommatoria di funzioni e percezioni nettamente distinte le une dalle altre, al quale, nello specifico, la vista consentirebbe di percepire la realtà restandone in certo modo separato, ma è un tutto organico costantemente esposto al contatto e aperto alla possibilità della relazione con l’altro, che “vede” in base al suo multiforme sentire, e insieme ai suoi bisogni e ai suoi desideri. Ognuno quindi può farsi, e in effetti si fa, un’immagine delle cose in certo grado indipendentemente da ciò che i suoi occhi vedono o non vedono. Il non poter guardare in senso proprio non preclude quello che Bavcar chiama il diritto all’immagine. Non solo, ma se l’immagine è sempre il frutto di una relazione fra corpi, in essa non vi è mai soltanto la cosiddetta “realtà oggettiva”, ma sempre anche il cosiddetto “soggetto”, che nel suo sentirla, la percepisce e in certo modo le dà forma.

In questo fitto reticolo relazionale in cui tutti siamo immersi la parola gioca un ruolo tutt’altro che secondario nel formarsi dell’immagine interiore, specie in chi non vede (ma anche in chi vede), indicando e mettendo in risalto certi elementi percettivi, i loro nessi e le loro correlazioni, richiamando in vario modo esperienze e conoscenze pregresse ed eventuali valenze simboliche, evocando atmosfere ed emozioni, tutte cose che contribuiscono in modo determinante a rendere significativo, vivo e palpitante anche quell’insieme di segni tracciati su una tela o impressi su una fotografia, sia che vengano percepiti attraverso gli occhi, sia che lo siano, invece, grazie ad una riproduzione tattile, attraverso i polpastrelli delle mani.
Della parola, forse (ma non ne sono del tutto convinto, e comunque non in tutti i casi), chi vede può fare a meno quando guarda una “pura immagine”; chi “guarda” con le mani quella stessa immagine sicuramente no. No… e perché? Perché innanzi tutto il toccare non equivale propriamente ad un vedere, sia pure deprivato di luci e colori. I singoli elementi formali vanno ricostruiti attraverso esplorazioni parziali, successive e ripetute per giunta con una certa lentezza, e collegati fra loro grazie ad un lavoro di progressiva memorizzazione. Inoltre i segni tattilmente percepibili che si possono usare in un disegno in rilievo sono molto più limitati – sia per gamma che per dimensione – e ciò rende spesso troppo simili fra loro elementi formali che la vista distingue con estrema facilità, per cui soltanto la parola potrà dirmi se quella forma tondeggiante posta là sul tavolo sia un pane oppure un frutto, se quella doppia linea sinuosa che percepisco tra altre forme rappresenti un fiume, o una strada. Non potendo fare affidamento su colori, ombre, dettagli piccoli e piccolissimi, l’esplorazione tattile richiede necessariamente di essere accompagnata dalla parola, la quale dirà che cosa rappresenta esattamente quel segno o quella forma percepita, ci indicherà il piano nel quale collocare ciò che stiamo toccando e le eventuali sovrapposizioni (ad es. un braccio o un oggetto posto davanti a un corpo). Ma allora – si dirà – perché non fare del tutto a meno del disegno in rilievo e limitarsi alla sola descrizione verbale? La risposta è che il disegno ci serve per rendere l’immagine d’insieme e per collocare spazialmente e nella giusta proporzione tutti gli elementi formali che compongono l’opera, poiché a questo scopo la sola parola risulterebbe insufficiente e al quanto approssimativa.
Dunque, affinché l’osservatore cieco possa formarsi un’immagine sufficientemente ricca di un’opera puramente visiva, segno tattile e parola gli sono ugualmente necessari nella loro complementarietà.
La ricerca intorno a tale complementarietà è iniziata seriamente da non molto tempo, ed una mostra come “Tonalità tangibili”, dedicata ai maestri del Pittorialismo* italiano che si inaugura domani 8 febbraio al Museo Nazionale del Cinema di Torino ci pone una nuova sfida, poiché finora non ci si era mai cimentati nel tentare di rendere accessibile con disegni in rilievo e descrizioni verbali una mostra fotografica. Cimentarsi nell’occasione di una mostra per giunta temporanea con le urgenze temporali che ciò comporta, costituisce una sfida ulteriore. Ma crediamo valga la pena di raccoglierla, in nome di quel diritto all’immagine di cui parla Bavcar, per aprire anche ai disabili visivi una possibilità in più di aver accesso a quello stesso mondo nel quale, insieme a tutti gli altri, vivono, che è un mondo fatto non solo di cose tangibili, ma anche di tante pure immagini.

E l’abbiamo raccolta, infatti, partecipando come UICI alla scelta e alla realizzazione dei disegni in rilievo e dando le nostre indicazioni e consigli anche sulla stesura dei testi che li descrivono. Ne è risultato un volume confezionato a mo’ di album fotografico, corredato da audio attivabili con QR code a disposizione dei visitatori, e 4 pannelli in rilievo realizzati in adduzione e collocati lungo il percorso di visita, riproducenti alcune delle fotografie in esposizione, anch’essi corredati con QR.

Francesco fratta

* Il pittorialismo, felice manifestazione della fotografia d’arte, ebbe il suo momento di maggior splendore tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento. L’elemento di unità dei fotografi pittorialisti fu imposto da un preciso concetto estetico, al fine di legittimare la fotografia come espressione artistica alla stessa stregua della pittura o del disegno.
I pittorialisti italiani si confrontarono alla pari con i maestri pittorici europei e americani partecipando e affermandosi ai vari Salon internazionali di fotografia artistica.