Ricordando Renato Terrosi

Con profondo dolore vi comunichiamo che è scomparso venerdì 26 luglio u.s. il dott. Renato Terrosi, collaboratore per tanti anni della rivista Il Corriere dei Ciechi. Siamo vicini alla famiglia in questo momento di dolore. Per ricordare il carissimo dott. Terrosi di seguito uno dei suoi tantissimi racconti pubblicati sulla nostra rivista:

ALLA RICERCA DEL COCCHIO D’ORO, di Renato Terrosi

L’accenno di Roberto Vitali alla battaglia del Trasimeno sul «Corriere dei Ciechi» di giugno ci ha spinto a rispolverare vecchi ricordi. Quella piccola lapide c’è ancora. Annerita dal tempo, murata alla spalletta del ponte di mattoni; un ponte su un torrentello misero che solo con le piogge d’autunno riesce a raccogliere un filo d’acqua e ad accompagnarlo poco oltre, nel lago. Allora, tanti anni fa, gli anni della giovinezza, me l’avevano descritta come una lapide meravigliosa. Di marmo candido, illeggiadrita da fregi, con una iscrizione in latino che colpiva gli occhi e il cuore. «Qui caddero combattendo quarantamila romani…», recitava il professore di storia con enfasi e la lapide diventava immensa nella mia immaginazione; una specie di schermo sul quale scorreva il film della battaglia.

Annibale contro Flaminio. Il fiero cartaginese cala dai monti incombenti; i romani con le loro aquile, con le loro corazze vengono scaraventati nelle acque motose del lago. Tutto questo dette ali alla mia fantasia e mi precipitò in uno stato di straordinaria ansia. Devo andare a vedere la lapide, ripetevo con ossessione a me stesso. E mi decisi in un meriggio d’estate.

In bicicletta, dal mio paese arroccato sull’opposta sponda del lago, col sole che martellava la piana riarsa, mentre le cicale ubriache cantavano tra le foglie d’argento degli olivi. Faticosamente andai, macinando chilometri, teso, meravigliosamente solo. Ora la vedrò, dicevo ogni tanto, vedrò questa lapide. La toccherò. E la vidi, infatti, anche se a fatica, seminascosta com’era da un’edera dura, incipriata dalla polvere della strada; corrosa, con i caratteri appena leggibili. E vidi il torrente misero, vuoto d’acqua, zeppo di ciottoli, bianchi come teschi millenari.

Lo confesso; piansi, all’ombra di una quercia. Poi, quasi assopito, intontito dal sole e dalla delusione, attraverso le lacrime vidi la battaglia. I cavalli numidi appostati tra gli alberi delle colline sovrastanti, i fanti romani impacciati nel limo della riva, Annibale corrusco, il console Flaminio bello nella sua corazza borchiata, ritto sul cocchio che grida, incita, implora e poi scompare con tutto il cocchio d’oro, con l’auriga, con i cavalli nelle acque verdi. Lo seguono falangi di uomini feriti e il torrente si tinge di sangue, le acque del lago s’arrossano. La notte, morto dalla fatica, sognavo la battaglia e così le notti seguenti; come in una lunga appassionante vicenda a puntate. Quando al mattino mi svegliavo, tutto mi tornava alla mente nei minimi particolari ed aspettavo che la notte tornasse per rivivere un episodio nuovo, più bello, più emozionante. Ed il sogno – questa la cosa straordinaria – si ripeteva con puntualità impressionante. Ero giunto a preparare presso il mio letto piccoli attrezzi che – pensavo – mi sarebbero stati utili nella vicenda da sognare. La mia vita si svolgeva sott’acqua; in una nube verde e grigia che poteva ispessirsi se si calpestava la mota del fondo.

Talvolta il sole riusciva ad illuminare benissimo le profondità del lago e tutto diveniva più facile. Il cocchio, il cocchio d’oro del console Flaminio era la mia ossessione: dovevo trovarlo. E lo trovai. Le ruote serrate dal fango, le fiancate, tutta una crosta compatta color verderame; a scalfirle, però, appariva l’oro. Bisognava pulirlo, togliere le concrezioni secolari ed era proprio per questo che prima di coricarmi mettevo sotto il cuscino scalpelli, spazzole dure e robusti pennelli. Nel sogno, immancabile, mi vedevo tutto preso ad adoperare quegli attrezzi. Il sogno durò più di una settimana e finalmente il cocchio divenne lucido, maestoso, non lontano dalla proda orientale del lago. Potrei anche trascinarlo fuori con delle grosse funi di canapa, dicevo; e mi procurai queste funi. Per l’intero giorno pensai intensamente all’operazione. Attesi la notte con un’ansia terribile. Mi addormentai a fatica. Non sognai più nulla e così nelle notti successive.