A pochi giorni dal voto referendario, il quesito più ricorrente che “arrovella” anche noi cittadini italiani con disabilità è se la Riforma istituzionale, voluta dal Governo Renzi e, non dimentichiamolo, pure dalle nostre due Camere, sia qualcosa di estraneo rispetto alla nostra ”quotidianità” e dai nostri diritti oppure, al contrario, rappresenti il tentativo di riorganizzare il “sistema” e la qualità della vita di tutti gli italiani in termini più organici e coerenti con le sfide della ”modernità” e della nuova “società globale.
Volendo improvvisarmi nel fare un po’ di “storia” del sistema istituzionale italiano, potrei affermare che le profonde innovazioni che hanno investito il nostro Paese a partire dagli anni duemila, a mio modesto avviso, si sono sviluppate attorno ad un evento normativo “periodizzante”: la legge 3 del 2001, che ha profondamente riformato il Titolo V della nostra Costituzione.
La legge costituzionale 3 del 2001, infatti, da inizio ad un processo di “decentramento” e “federalismo” per il quale compiti e funzioni del Governo passano alle Regioni ed agli Enti territoriali (comuni, province e città metropolitane).
Come ogni provvedimento normativo, anche la riforma del Titolo V della nostra Carta costituzionale, al momento della sua emanazione, porta a compimento un processo evolutivo già in atto da tempo nella società italiana: date la complessità e l’”alta velocità” dei cambiamenti del sistema sociale, risulta difficile governare dal centro in modo unitario il Paese, per cui si opera la scelta di avvicinare al territorio il “luogo delle decisioni”, nella convinzione che più vicine esse sono ai cittadini, più risultano efficaci.
Il legislatore ritiene che, portando il luogo delle decisioni a livello locale, il “sistema” Italia avrebbe prestato più attenzione alle esigenze dell’utenza e che una maggiore libertà ed “autonomia” di azione delle Regioni avrebbe innalzato la qualità ed il livello dei servizi da erogare ai cittadini.
Lo Stato, poi, con la legislazione nazionale ed i vincoli di risorse ed organizzativi avrebbe garantito il rispetto dell’unità del sistema e dei cosiddetti LEP (livelli essenziali delle prestazioni) in ambito nazionale.
Le due parole chiave autonomia e decentramento rintracciano tuttavia già nella Costituzione del 1948 una cogente e propulsiva indicazione, allorquando all’art 5 in essa si legge: “La Repubblica promuove le autonomie locali, attiva processi di decentramento amministrativo ed adegua i principi ed i metodi della sua legislazione all’autonomia ed al decentramento”.
Il principio ispiratore della legge 3 del 2001 è senz’altro quello della “sussidiarietà verticale” per cui: “i compiti e le funzioni amministrative devono essere affidati agli Enti territorialmente e funzionalmente più vicini ai destinatari dei servizi”.
Un’ ulteriore e determinante novità della legge 3 è stabilita dal “riformato” art 117, che fissa la potestà legislativa, distribuendola tra Stato e Regioni.
Lo Stato ha la potestà esclusiva nelle materie di sua pertinenza. Mentre la “legislazione concorrente” è divisa tra Stato e Regioni e dove queste ultime hanno la potestà esclusiva, lo Stato si limita ad intervenire determinando i principi generali.
In materia d’istruzione, problematica tanto cara allo scrivente ed alle nostre associazioni di e per persone con disabilità, lo Stato ha la potestà esclusiva sulle norme generali e sulla determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” relativi ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale (tra i quali è pertanto incluso pure il diritto all’istruzione).
Le Regioni hanno invece la potestà esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale, nella programmazione della rete scolastica e nella determinazione del calendario scolastico. I compiti amministrativi, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, vengono invece affidati alle Province ed ai Comuni, tenendo conto dei criteri dell’attribuzione delle scuole del 2° grado alle Province e di quelle del 1° grado ai comuni e del conferimento ai Comuni delle competenze più significative (tra le quali: iniziative di educazione degli adulti, di continuità e di orientamento scolastico e professionale e d’integrazione degli alunni diversamente abili e stranieri (art 139 del D. l.vo 112 del 1998).
Nel 2014 con la Riforma Del Rio, e la definitiva soppressione delle province e la loro sostituzione con le “città metropolitane”, si assiste ad un “provvisorio” vuoto di poteri e competenze, che viene finalmente sanato con l’art 1 comma 947 della legge 208 del 2015, che sancisce il passaggio alle Regioni delle funzioni e dei servizi fino ad allora forniti dalle ormai “ex” province.
Infine la legge 3 del 2001, con il “novellato” art 118, ci dice che gli Enti territoriali periferici, sempre nel rispetto del principio della sussidiarietà verticale, devono pure adoperarsi per un’organizzazione e tutela “orizzontale” degli interessi, favorendo l’iniziativa e la collaborazione diretta degli stessi cittadini, specie se organizzati socialmente. Accanto al principio di sussidiarietà verticale, la costruzione di un rapporto più impegnativo con la società richiede, pertanto, pure la pratica della “sussidiarietà orizzontale”.
Dunque, superando la tradizionale impostazione del diritto pubblico che vedeva nei cittadini dei soggetti solo da “assistere ed amministrare” e che invece non venivano chiamati alla partecipazione attiva ed a forme di “partneriato “sociale”, finalmente anche noi cittadini con disabilità venivamo considerati “soggetti di diritto” ed attori protagonisti della “cosa pubblica”.
Però, come sovente avviene nel nostro Bel Paese, pur potendo contare su ottime leggi “sulla carta” , troppo spesso poi non si riesce ad applicare le norme in maniera davvero compiuta.
Ritengo che le “eterne incompiute” del sistema normativo italiano si siano intensificate nell’ultimo quindicennio, perchè una grande percentuale delle nostre leggi più recenti (ed ovviamente anche la riforma del Titolo V del 2001 non fa eccezione) è nata in un clima di contrapposizione politica esasperata e “preconcetta”.
In particolare la legge 3 del 2001 è diventata ben presto il luogo e la “bandiera” dello scontro tra i diversi partiti, indipendentemente dal valore della riforma in sé. Infatti, prima alcune Regioni amministrate dal centro sinistra e poi altre governate dal centro destra hanno a turno presentato, nel corso degli ultimi anni, ricorsi alla Corte costituzionale (in seguito tutti respinti) per lesione da parte dello Stato delle competenze loro attribuite dall’art. 117.
E tutto ciò a solo detrimento e nocumento dei cittadini più deboli e naturalmente di noi disabili (che siamo i “più deboli tra i deboli”), facendo sì che ancora nel 2016 (nonostante le belle parole e le “onorevoli” enunciazioni di principio contenute nella riforma del Titolo V del 2001, in quella tentata nel Giugno del 2006 ed infine nell’imminente Referendum istituzionale del prossimo 4 Dicembre), in realtà non ci sia per noi una vera “inclusione”, con conseguenti difficoltà da parte dei nostri bambini, ragazzi ed anziani a raggiungere apprezzabili livelli di qualità della vita.
Troppo facilmente e “desolatamente” è successo che, dal 2001 in poi, ai reali interessi della gente ed ai superiori principi della sussidiarietà verticale ed orizzontale ed al diritto di pari cittadinanza le varie Regioni italiane di qualsiasi “colore” politico abbiano invece anteposto logiche di “parte”, clientelari e “consociative” negli ambiti di pertinenza, che ha loro attribuito la legge 3. Questo loro grave “modus agendi” ha solo aumentato gli sprechi ed incrementato esclusivamente la difformità di trattamento a livello territoriale nell’erogazione dei servizi di trasporto e socio-sanitari, nella formazione professionale e nell’assistenza specialistica ai disabili.
A ciò si aggiunga che l’”organismo” che avrebbe dovuto evitare tali “squilibri” e scompensi territoriali nella fornitura dei servizi, e cioè la “Conferenza Stato Regioni, a mio parere, poco è servito finora a garantire un adeguato coordinamento tra il potere centrale e gli Enti periferici, non riuscendo ad assicurare una reale visione d’insieme che potesse definire ed omogeneizzare le potenzialità delle singole realtà regionali in un unico e condiviso “sistema” nazionale unitario dei servizi.
Tornando alla questione del prossimo Referendum, ormai dall’inizio della scorsa Estate, non facciamo altro che sentire parlare di riforma istituzionale ed elettorale. Ma i dibattiti ed i “faccia a faccia” televisivi sono “egemonizzati” soltanto dai facili personalismi e dalle sterili polemiche tra le opposte fazioni, piuttosto che dal buon senso e dalla voglia di far capire ad esempio a noi persone con disabilità se e come cambierà realmente la nostra vita ed il “mare magnum” del sociale, in caso di vittoria del sì.
Sappiamo per certo che dovrebbe cessare il “tira e molla” ed il ping-pong del sistema bicamerale, che troppe volte ha ritardato od addirittura “bloccato” l’approvazione di alcune significative leggi a nostra tutela, che dovrebbe essere eliminato il CNEL ed infine che dovrebbe mutare radicalmente il (fino ad oggi) ”controverso” e “frazionato” rapporto tra lo Stato e gli Enti locali, con la nascita del famoso “Senato delle Regioni o delle autonomie”.
E proprio quest’ultimo tema mi sta particolarmente a cuore e credo che certamente sarà uno degli argomenti all’ordine del giorno nell’agenda politica e nella attività delle associazioni di e per disabili dei prossimi anni. Infatti, indipendentemente dall’esito del voto referendario, sono fortemente persuaso che tutti i nostri partiti di oggi e di domani non possano e potranno prescindere dalla consapevolezza, che deve diventare sempre più diffusa all’interno del mondo politico, che la qualità del servizio offerto agli utenti disabili deve essere il più possibile omogenea a livello territoriale.
In effetti, oggi, anche a causa dell’uso distorto ed a volte di “bottega” che tutte le Regioni italiane hanno fatto delle competenze loro concesse dalla legge 3 del 2001, è abbastanza chiaro che esistono forti disparità territoriali. Una disomogeneità di trattamento che è spesso molto evidente, con zone dove, grazie soprattutto alla solidarietà locale, si riesce a far “decollare” strutture nuove ed “accoglienti”, e altre regioni del Paese dove invece i servizi sono decisamente di fortuna.
E si badi bene che le discrepanze non sono basate sulla classica divisione italiana tra Nord e Sud. Il fenomeno si presenta a macchia di leopardo, con alternativamente zone del Meridione e del Settentrione servite bene oppure lasciate in condizioni preoccupanti.
Ebbene, io penso invece che, qualsiasi sarà l’assetto istituzionale della nostra Repubblica dal 5 Dicembre in poi, non potranno più esserci province dove le cose funzionano bene e altre dove invece i nostri utenti non ricevono le prestazioni adeguate.
In questo senso, sia che dovessero avere la meglio i sostenitori del sì, sia che dovessero prevalere i fautori del no, da cittadino con disabilità permeato da un forte “senso dello Stato” ed estremamente fiducioso nelle nostre istituzioni, ho la convinzione che il Referendum del 4 Dicembre p.v. costituirà comunque per tutte le nostre forze politiche l’”occasione” giusta per fare uno sforzo di analisi puntuale e di riflessione profonda sullo stato dell’arte del “sistema dell’inclusione” in Italia e delle sue varie e difformi articolazioni e declinazioni territoriali.
A tal proposito, sarà nostro impellente compito e nostra indifferibile responsabilità, grazie al traino della FAND e della FISH, sfruttare il Referendum e qualsiasi suo risultato, come una “sfida” da cogliere per abbandonare le gelosie ed invidiucce del passato e per fare “squadra”, creando tra di noi una “rete” coesa e compatta capace di “guidare” ed orientare la politica nell’organizzazione di un “sistema” nazionale unitario ed omogeneo dei servizi, che possa garantire finalmente a tutti i disabili del nostro Paese autentiche condizioni di pari opportunità e le stesse “chance” di crescita formativa e di assistenza.
Referendum ed inclusione dei disabili: Comunque andrà, sarà una “sfida” da cogliere, di Gianluca Rapisarda
Autore: Gianluca Rapisarda