Psicologia e disabilità visiva, di Maria Luisa Gargiulo

Autore: Maria Luisa Gargiulo

UNA BUSSOLA PER ORIENTARSI
Rubrica per genitori.

La psicologia rappresenta senz’altro una risorsa per le persone ipovedenti e non vedenti, e ciò per numerosi motivi. È banale sostenere che le competenze psicologiche possano essere utili per molteplici aspetti della nostra vita. Questa affermazione potrebbe sembrare ovvia e scontata, ma a volte non si può fare a meno di notare quanto nella cultura italiana sia ancora poco diffusa una conoscenza realistica della psicologia e della sua utilità nella società civile. Troppo spesso assistiamo alla diffusione dai canali di informazione di messaggi contraddittori ed ambigui che qualche volta banalizzano le competenze dello psicologo. Da una parte esiste una grandissima domanda inevasa di salute psicologica da parte della popolazione generale, la quale finisce per rivolgersi a nuove professioni non meglio identificate come il counselor, il pedagogista clinico, il coach, il filosofo clinico ecc.. D’altro canto il gran numero degli psicologi presenti sul territorio nazionale non è pienamente occupato, è palese quindi che vi sia un problema nella pianificazione e realizzazione delle politiche riguardanti la salute, dato che non si verificano condizioni per cui la domanda e l’offerta di questi servizi si incontrano.
Occorre potenziare azioni di comunicazione sociale, per diffondere presso i cittadini conoscenze precise su che cosa la gente si possa aspettare dallo psicologo e per risolvere quali tipi di problemi.
Forse si tratta di un luogo comune, però ancora certi medici di base, dai cui ambulatori passano molte persone prima di essere orientate verso competenze specialistiche, non sono molto adusi ad inviare le persone verso lo psicologo. Di solito si trovano medici molto preoccupati ed attenti ad indirizzare persone cardiopatiche dal cardiologo, altre che hanno dolori articolari dall’ortopedico, quelli che sembrano avere sintomi d’asma dall’allergologo, per le relative diagnosi e cure, ma se ad esempio qualcuno si presenta raccontando di avere qualche disturbo d’ansia, lamenta di dormire in un modo non soddisfacente, di avere difficoltà a concentrarsi o difficoltà a cibarsi in modo equilibrato, è possibile che il medico, nell’intento di aiutare la persona, tenti di minimizzare il suo disagio, gli somministri qualche psicofarmaco, magari dopo aver fatto un’affrettata, non meglio precisata diagnosi di un problema psicologico.
Per fortuna esistono anche tanti medici in gamba e competenti, che hanno compreso l’importanza di orientare i loro pazienti verso i professionisti che specificamente si occupano di un certo settore, come ad esempio lo psicologo. Costoro, oltre a rendere un servizio importante alle singole persone, contribuiscono a diffondere nella popolazione informazioni su cosa sia la psicologia e che cosa ci si può aspettare da uno psicologo, per quali tipi di evenienze e necessità. Non possiamo fare a meno di notare quanto sia del tutto disomogenea la disponibilità e rintracciabilità per il cittadino, di servizi psicologici territoriali nelle differenti zone del Paese, elemento che contribuisce non poco alla scarsa diffusione dell’abitudine di rivolgersi allo psicologo, come ad una delle tante risorse professionali della comunità.
Così come questa difficoltà esiste per la popolazione generale, è facile immaginare come tale lacuna sia presente verso categorie specifiche di persone, ad esempio quelle con disabilità. Nella situazione attuale, si può facilmente intuire come una persona con una disabilità possa essere poco orientata rispetto alle possibilità oppure ai servizi che la psicologia e gli psicologi possono realizzare per lui.
Inoltre, la presenza di una malattia fisica, di solito rende necessari tutta una serie di esami e di attenzioni cliniche, per diagnosticare o per controllare la situazione dell’organo o dell’apparato che è alla base della disabilità. In questo senso la persona, ovviamente, tende a concentrare tutte le proprie energie nel cercare professionisti che si occupino specificamente di quell’apparato.
È piuttosto raro per una persona in una tale situazione, essere informata che, oltre ad occuparsi di quella specifica zona del suo corpo, di quell’organo, di quella lesione o di quella malattia, sarebbe per lui molto utile occuparsi di come tutta la sua persona reagisca a quella minorazione, giacché la malattia, l’organo, l’apparato, eccetera, fanno parte di un sistema più grande e più complesso che, necessariamente, viene condizionato dall’esistenza di quella specifica disabilità.
Considerando poi che la massima parte delle patologie alla base delle varie disabilità appartiene a quella folta schiera di situazioni cliniche per le quali non esistono cure guaritive, è ovvio che, tanto prima la persona smette di concentrarsi solo sull’aspetto medico per passare ad occuparsi del miglioramento delle proprie condizioni generali, tanto prima possono attivarsi quei circoli virtuosi che possono condurre una persona a sentirsi non più soltanto un malato, ma un uomo o una donna realizzati ed integrati.

Questo, come vale per tutte le persone con una malattia fisica grave oppure con una disabilità, vale dunque anche per le persone con problemi di vista, non vedenti oppure ipovedenti.
In questo scritto cercherò di spiegare e commentare quale attinenza vi è tra la psicologia, nelle sue varie sfaccettature e branche, e la minorazione visiva.

Chi è lo psicologo?
La Legge n. 56 emanata nel 1989, istitutiva della Professione di Psicologo e dell’Ordine degli Psicologi, recita all’articolo 1 che:
“La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico, rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità”.
Dunque la psicologia non si occupa soltanto di singoli uomini e donne, ma si interessa anche al funzionamento dei sistemi interpersonali, fino ad occuparsi di comunità intere, e ciò per prevenire disagi, diagnosticare disturbi, aiutare la persona a ottenere la massima salute possibile, abilitando capacità o riabilitando quelle eventualmente perse. Lo psicologo fa questo usando strumenti specifici. Il medesimo articolo prosegue chiarendo che sono di competenza dello psicologo anche le attività di ricerca, insegnamento e divulgazione scientifica nell’ambito della psicologia.
Dunque, la psicologia non è solo sostegno psicologico, come invece si potrebbe immaginare, facendo riferimento allo stereotipo più comune presente nell’immaginario collettivo.
Ritornando al circoscritto ambito della minorazione visiva, esso è oggetto di interesse da parte di numerose branche della psicologia, come vedremo brevemente.
Nel momento storico attuale, gli psicologi spesso giungono ad occuparsi delle persone con problemi visivi molto dopo l’insorgenza delle patologie visive, e ciò attraverso vari canali. I Centri per la Riabilitazione Visiva (CERVI), istituiti e finanziati dalla Legge n. 284 del 1997, prevedono la figura dello psicologo, all’interno dell’équipe interdisciplinare composta anche dall’oculista, dall’assistente sociale, dall’assistente di oftalmologia e dal riabilitatore. In questi centri, vengono seguite per lo più persone adulte ed anziane, con ipovisione medio-grave che costituiscono la fascia più numerosa dei disabili visivi italiani, tra l’altro in continuo aumento. Inoltre vi sono psicologi nei centri di Riabilitazione per adulti e per l’età evolutiva, direttamente dipendenti dal Sistema Sanitario, oppure, più frequentemente, operanti in regime di accreditamento. Il funzionamento di tali strutture risente della disomogeneità delle varie situazioni sanitarie regionali. All’interno di questi enti vengono “presi in carico“ per trattamenti riabilitativi estensivi o di mantenimento, pazienti aventi una vasta gamma di patologie, e spesso le persone con deficit visivo che vi si rivolgono hanno condizioni percettive le più diverse, e qualche volta sono portatrici anche di altre disabilità.
In queste strutture lo psicologo nel momento in cui il centro riceve la richiesta dalla persona o dalla famiglia, attiva con l’utente una “analisi della domanda”, per meglio chiarire i vari tipi di bisogni della persona, stabilire in che misura il centro può soddisfarli e definire a quali condizioni.
Inoltre, facendo parte dell’équipe, lo psicologo concorre ad orientare i riabilitatori delle diverse discipline nella definizione dei programmi riabilitativi, verificando preventivamente l’esistenza dei prerequisiti emotivi, cognitivi e motivazionali per l’inizio delle varie attività.
Invece nei contesti più specificamente orientati alla diagnosi e alla cura delle malattie visive, come ambulatori oculistici, centri diagnostici per le malattie rare o reparti ospedalieri, il ruolo dello psicologo non è quasi mai previsto. Da ciò deriva che solo le persone seguite da centri di riabilitazione hanno una certa probabilità di incontrare uno psicologo e che ciò accade in una fase senz’altro successiva a quella diagnostica, e per una parte minima delle persone.
Qui di seguito elencherò alcuni campi specifici in cui le scienze psicologiche sono applicabili alla minorazione visiva. Attualmente non esistono molti ambienti in cui gli psicologi interessati possano aggiornarsi in modo sistematico e mettere in comune competenze e esperienze in questo settore. Questo conduce ad una disomogeneità degli approcci e della qualità dei servizi resi, oltre che ad una certa dispersione di informazioni sulle esperienze efficaci e sulle buone prassi.

La Psicologia della percezione
Per prima cosa, non dobbiamo mai dimenticare che le problematiche visive, siano esse a carico degli organi di senso o del cervello, siano esse totali o parziali, determinano una conseguenza nel sistema percettivo, giacché limitano od impediscono la più importante e complessa forma di acquisizione di informazioni che l’essere umano ha a sua disposizione, cioè la percezione visiva.
I problemi visivi condizionano il modo in cui la persona acquisisce informazioni dall’ambiente e si relaziona ad esso.
Quindi il deficit visivo, dal punto di vista psicologico, determina ovviamente innanzitutto una conseguente modificazione dei processi percettivi. La psicologia della percezione si è focalizzata in modo vasto e approfondito sulla percezione visiva delle persone normovedenti. La storia della psicologia della percezione fonda le sue basi all’inizio del secolo scorso; è quindi questa una disciplina per nulla giovane, ed è costellata di ricerche, scuole di pensiero, ed aspetti applicativi. La psicologia della percezione visiva degli ipovedenti è più giovane, avendo circa una trentina d’anni, e rappresenta un importante ambito per comprendere come le persone con ipovisione utilizzino le informazioni visive a loro disposizione, quali siano i processi mentali attraverso i quali queste persone attribuiscono comunque un significato utile a ciò che vedono, anche in condizioni nelle quali la quantità e la qualità delle informazioni visive a loro disposizione è molto scarsa. Nel funzionamento delle persone ipovedenti sono caratteristici alcuni specifici processi top-down come la “visione per indizi”, “l’interpretazione visiva”, “l’integrazione visuo-immaginativa”, e il “completamento intermodale“.
Contrariamente rispetto a quello che comunemente si potrebbe ritenere, l’uso della vista nelle persone ipovedenti non viene sminuito bensì potenziato dall’utilizzo concomitante di altre modalità sensoriali.
La competenza percettiva extravisiva è una risorsa importante sia per le persone cieche che per quelle ipovedenti. Differentemente da quello che un tempo si riteneva, le ricerche ci dimostrano che utilizzare la vista non distrae dagli altri sensi e non ne riduce l’efficienza. Quindi, divenire più competenti nell’utilizzo degli altri canali sensoriali, non rende la persona ipovedente meno vedente.
Le differenti modalità sensopercettive funzionano in modi specifici e peculiari, e quindi, ad esempio, studiare la percezione uditiva significa anche conoscere i diversi fenomeni acustici ed il modo attraverso il quale le persone riescono a ottenere informazioni importanti sull’ambiente, attraverso l’udito, che è un senso distale importante oltre la vista. Le specificità della percezione tattile sono state oggetto di approfondito studio prima dai pedagogisti tiflologi, e solo in seguito dagli psicologi. E’ importante sapere che numerose leggi tipiche della percezione visiva non possono essere applicate alla percezione tattile, essendo quest’ultima una qualità fenomenica dell’esperienza del tutto differente da una sorta di “vista a rilievo”. L’acquisizione di strategie adattive per utilizzare le informazioni provenienti dalla vista e dagli altri canali sensoriali è dunque un importante settore di interesse, i cui risultati sono utili per impostare i programmi di molte attività educative o riabilitative, in cui lo psicologo collabora con altre figure professionali a seconda del caso, come l’ortottista, l’oculista, l’istruttore di orientamento e mobilità, l’educatore, il terapista occupazionale.
Alcune competenze di psicologia della percezione possono essere molto utili anche allo psicologo clinico, in quanto, la conoscenza specifica di certi fenomeni percettivi, mette in migliori condizioni il professionista, quando si accosta alla comprensione del mondo soggettivo del suo paziente disabile della vista, comprendendone meglio la sua esperienza personale, i suoi limiti ma anche le enormi risorse a sua disposizione.

Psicologia della salute e psicologia medica
La relazione tra la persona ed il mondo della salute e della medicina, senz’altro per chi ha problemi fisici, costituisce un nucleo importante della vita e dell’esperienza quotidiana. Riferendoci alla popolazione generale, lo psicologo studia il modo con il quale le persone percepiscono e gestiscono la salute e il benessere, e si relazionano alle malattie ed al mondo delle cure. Nei paesi anglosassoni vi è una certa tradizione, per la quale gli psicologi aiutano i medici a comprendere gli aspetti emotivi e relazionali del loro agire col paziente. Ciò è oggetto di un’attenzione maggiore nei settori della medicina che si occupano di problematiche particolari e che pongono i clinici in una condizione di alto stress emotivo, ad esempio quando essi devono occuparsi di persone con malattie terminali, o che non possono essere guarite. Esiste quindi un duplice ambito nel quale lo psicologo può essere utile: da una parte aiutare i pazienti a gestire meglio possibile il loro rapporto con le malattie, le cure e i medici. Dall’altro versante, gli psicologi possono aiutare i medici a migliorare la propria capacità di prendersi cura, comunicare, relazionarsi, comprendere i pazienti.
In Italia sono poco diffuse le opportunità per uno psicologo di lavorare per migliorare la comunicazione medico-paziente, ma questo sta iniziando ad avvenire, ad esempio tra i medici che si occupano di malati oncologici, di persone affette da HIV, o che si occupano di emergenza e che intervengono in situazioni estremamente critiche come catastrofi ambientali, violenze, eccetera.
Invece, nella maggior parte dei centri clinici in cui ci si occupa di persone con problemi visivi, ad esempio i centri diagnostici, troppo spesso nel nostro Paese lo psicologo è vissuto ancora come “il collega della stanza accanto”, in una situazione in cui l’aspetto medico e quello psicologico sono rappresentati ed esaminati come settori separati, contribuendo ad una visione parcellizzata della persona/paziente, e rimandando all’utente una percezione di lui come costituito da tante parti staccate:

quella psicologica, quella medica oculistica, quella degli ausili, eccetera.
È parte della competenza di uno psicologo, collaborare con il medico per migliorare le modalità di comunicazione della diagnosi delle malattie fisiche gravi, e conseguentemente agevolarne la comprensione e l’elaborazione da parte del paziente.
Aiutare il paziente a gestire l’impatto psicologico delle malattie fisiche è importante, giacché la comunicazione di una diagnosi può essere senza dubbio ritenuta un evento potenzialmente traumatico, secondo le attuali conoscenze e classificazioni internazionali.
Un delicato ed importante aspetto, concerne l’aiutare il medico a gestire il senso di frustrazione, e a ridurre il rischio di burn-out professionale, giacché il clinico che lavora con persone con disabilità, deve necessariamente fare i conti con i limiti di efficacia delle cure mediche.
Un altro ambito in cui lo psicologo può essere utile, concerne l’aiutare il paziente a fare collegamenti tra le esperienze soggettive e gli stadi patologici nelle malattie visive. Se questo aspetto viene sottovalutato, il paziente ha una percezione sdoppiata della propria condizione visiva. Da una parte essa è definita dalle diagnosi, dalle spiegazioni mediche e dai referti, tutti ambiti dei quali la persona diviene prima o poi abbastanza informata. Dall’altra la situazione è determinata dal proprio vissuto soggettivo:
la propria percezione visiva, con tutti quegli ”strani fenomeni visivi”, caratterizzati da bizzarri effetti ottici od impressioni soggettive incostanti, che popolano un mondo privato ed inconfessato, perché quasi mai oggetto di attenzione. Eppure aiutare la persona ad avere una idea unitaria di se stessa, affiancandola nel fare collegamenti tra l’aspetto oggettivo medico e quello soggettivo percettivo, può essere molto utile per agevolare il processo di adattamento della persona alla propria condizione, e migliorare l’integrazione delle conseguenze della malattia nella propria identità personale.

Psicologia dello sviluppo
Veniamo all’aspetto più conosciuto riguardo l’apporto della psicologia al mondo della minorazione visiva: mi riferisco agli studi ed alle applicazioni nel settore della psicologia dell’età evolutiva.
È ormai noto come vi siano numerose differenze tra le persone che sono nate con un deficit visivo o lo hanno acquisito nei primissimi anni di vita, e quelle che invece hanno iniziato il proprio sviluppo a partire da capacità percettive integre, e sono divenute cieche o ipovedenti nel corso della vita.
Il modo in cui la minorazione precoce della vista condiziona lo sviluppo psicologico è stato oggetto di ampio interesse negli ultimi decenni. Vi sono alcuni importanti studi che paragonano lo sviluppo dei bambini ciechi e di quelli ipovedenti, con bambini che non hanno problemi visivi.
Siamo in possesso anche di un test di sviluppo, standardizzato sulla popolazione italiana, specificamente pensato per bambini non vedenti ed ipovedenti dal primo al sesto anno di vita.
Attraverso varie ricerche, ormai si è giunti alla conclusione che la minorazione visiva dalla nascita determina un ritardo del raggiungimento delle tappe dello sviluppo rispetto alla popolazione normale, con un massimo picco nella seconda infanzia, con particolare riguardo allo sviluppo psicomotorio, all’età di esordio e agli aspetti pragmatici e contenutistici del linguaggio verbale, ai processi operativi e cognitivi, specie per le operazioni infralogiche.
Questa differenza tende a diminuire fino ad annullarsi nell’età adolescenziale, con il raggiungimento della fase delle operazioni formali e del consolidamento del pensiero astratto. Ma ciò di solito non avviene in modo automatico. Il bambino con problemi di vista dalla nascita va incoraggiato a contrastare l’inibizione esploratoria, che si manifesta con una certa ritrosia nell’esplorazione grossomotoria e motoria fine, in una tendenza alla chiusura relazionale, ed in una difficoltà a comprendere l’aspetto significativo implicito del comportamento umano e a reagire ad esso in modo interattivo. Tutto questo può condurre ad una scarsità di esperienze concrete ed interpersonali significative, condizione che può essere alla base di una serie di problemi dello sviluppo, secondari alla minorazione visiva.
Dunque, nei periodi in cui si possono riscontrare dei ritardi transitori, è necessario intervenire con appropriate azioni educative e abilitative, affinché tale situazione non possa originare delle problematiche più serie e stabili.
Esiste una ambiguità ed una oggettiva difficoltà diagnostica, qualora al deficit visivo siano associate altre patologie fisiche, oppure vi siano altri disturbi dello sviluppo. La difficoltà può essere data dal fatto che alcuni dei più diffusi disturbi ad esordio infantile, attualmente vengono diagnosticati attraverso procedure che prevedono l’utilizzo della vista da parte del bambino.
La ricerca diagnostica non ha ancora prodotto batterie di test standardizzati per la diagnosi degli altri disturbi, che pure vi possono essere nei bambini ciechi o ipovedenti o con pluriminorazione. La necessaria modificazione delle procedure diagnostiche e valutative per poter accertare l’esistenza di questi disturbi anche nei bambini ciechi o ipovedenti, diminuisce la quantità di strumenti standardizzati a disposizione dello psicologo e del neuropsichiatra infantile.
Non potendo utilizzarsi tutti i test ed i protocolli comunemente conosciuti per valutare l’esistenza di disturbi quali il ritardo mentale, i disturbi pervasivi dello sviluppo, i disturbi specifici dell’apprendimento, si debbono attuare procedure osservative modificate, basate essenzialmente sull’osservazione clinica. Questo determina la necessità di una specifica preparazione ed esperienza, cosa che riduce enormemente la quantità di professionisti sul territorio in grado di svolgere questo tipo di servizio. Attualmente ciò rappresenta un aspetto problematico, una frontiera sulla quale pochi sono gli investimenti fatti, sia per mettere in comune le conoscenze esistenti, che per creare strumenti con alta validità ed attendibilità, tali da costituire protocolli diagnostici facilmente riproducibili e con un alto grado di concordanza.

Lo psicologo ed i genitori
In età evolutiva la componente dei comportamenti e degli atteggiamenti dei genitori è uno dei fattori massimamente determinanti per molti aspetti che riguardano la vita mentale, il comportamento, l’attenzione, l’orientamento al compito, lo stato di tranquillità o ansia, il livello di autonomia del bambino. Dunque, molto del lavoro che può fare lo psicologo riguarda rendere più competenti i genitori nel comprendere e rispondere adeguatamente alle necessità del bimbo. Di solito questo compito è reso arduo a causa di due ordini di fattori:
1) Il bambino si comporta in maniera non sempre intuitivamente comprensibile, a causa della mancanza di alcuni segnali comunicativi che di solito automaticamente attivano comportamenti di cura o di interazione giocosa da parte degli adulti care giver.
2) Il genitore si trova a sperimentare stati mentali con forti connotazioni di ansia, impotenza, colpa, fallimento, collegati alle esperienze relative alla patologia del bimbo e alle vicissitudini mediche, tali per cui non è sempre pienamente in grado di comprendere i suoi comportamenti e fornire la necessaria base sicura alla crescita.
Lo psicologo assiste dunque i genitori nella comprensione dei bisogni e dei comportamenti del figlio e nell’elaborazione dei loro sentimenti riguardanti la minorazione visiva, per agevolare la realizzazione di una relazione sicura di attaccamento.
In tal modo attua anche una importante azione di prevenzione secondaria, perché diminuisce la probabilità di insorgenza di problematiche potenzialmente accentuate da fattori insiti nella relazione genitore-figlio. L’utilità di questo tipo di interventi è maggiore, tanto più precoce è l’intervento dello psicologo.
Una delle situazioni nelle quali il ruolo degli psicologi si è dimostrato assolutamente cruciale è quella della terapia intensiva neonatale (TIN). In questo contesto lo psicologo è utile per supportare i genitori nel far fronte a questa difficile situazione, alla separazione prolungata col bambino, alle cure mediche intensive cui il bimbo viene sottoposto, alle diagnosi, alle condizioni fisiche precarie spesso critiche in cui versa, ecc..
All’atto della dimissione dagli ospedali in Italia non è previsto un sistematico intervento interdisciplinare, che dovrebbe comprendere anche un sostegno psicologico nelle varie fasi di adattamento dei genitori alla diagnosi del bambino. L’intervento dello psicologo, che attualmente viene realizzato specialmente in Centri specializzati e meno sul territorio, prosegue con un sostegno ai genitori per aiutarli ad adattarsi nella relazione affettiva, assistiva ed educativa col bambino.

Relazioni familiari e psicoeducazione
Gli interventi definiti di psicoeducazione, hanno il fine di orientare il genitore e le altre figure educative a comprendere il comportamento del bambino nelle varie circostanze, e dare quindi degli strumenti di lettura più adeguati e normalizzanti, che consentono ai genitori stessi di adottare atteggiamenti educativi più opportuni.
La percezione di fragilità del bambino, o di precarietà e pericolosità dell’ambiente in cui quest’ultimo è inserito, può condurre il genitore ad avere comportamenti di iperprotezione, caratterizzati dall’aumento di tutti i comportamenti finalizzati alla assistenza, ed alla diminuzione di quelli che hanno come fine l’educazione, l’esplorazione ed il gioco comune. Un altro atteggiamento, apparentemente derivante da motivazioni opposte, è quello secondo il quale il genitore si comporta con il bambino come se quest’ultimo non avesse il problema visivo che pure possiede. In un certo senso, in questi casi, il genitore si comporta richiedendo implicitamente al bambino di ottenere dei risultati attraverso mezzi e procedure del tutto uguali a quelli che potrebbe avere una persona con una vista normale. Quasi come se avesse difficoltà a comprendere profondamente che, sebbene spesso si possono ottenere risultati analoghi a quelli degli altri, a volte debbono essere utilizzati mezzi, tempi e procedure comportamentali parzialmente diversi, perché diversa è la condizione di partenza.
Ma anche questa condizione di negazione, come quella sopra accennata di iperprotezione, si muove a partire da un sentimento profondo di paura dell’incapacità del bambino.
In molti casi, questo si manifesta in una certa tendenza ad evitare l’ansia che il genitore potrebbe provare tutte le volte che il bambino si accinge ad affrontare un compito, con le difficoltà tipiche di una persona che ha problemi di vista. Evitare questa situazione può significare sostituirsi al bambino, anticipandone i bisogni e trovando per lui tutte le soluzioni, oppure aspettandosi che il bimbo si comporti come se vedesse. Questo duplice atteggiamento educativo non mette in condizione il bambino di sperimentare, affinare e potenziare le proprie capacità, confermando quindi la paura originaria del genitore. Il ruolo dello psicologo è quello di aiutare il genitore a vivere in modo più sereno, informato e realistico il proprio rapporto con il bambino, riappropriandosi delle proprie funzioni genitoriali nei suoi aspetti emotivi, assistivi, ludici, normativi ed educativi in modo più equilibrato.

Relazioni familiari, giovani ed adulti
Chi si occupa di persone con disabilità dal punto di vista psicologico, sa che l’adolescenza è un momento nel quale la persona inizia a fare i conti con le problematiche riguardanti l’inclusione nella propria identità personale dei connotati soggettivi connessi alla disabilità visiva. Il conflitto tra la necessità dell’adolescente di conoscersi ed accettarsi come persona portatrice di caratteristiche particolari, e quella di confrontarsi e sentirsi parte di un gruppo di pari, caratterizza fortemente questo periodo del ciclo di vita della persona con disabilità. Contemporaneamente, diviene più forte la necessità di svincolarsi dalle abitudini assistenziali che, fino a qualche anno prima, erano state per il bambino fonte di protezione e sicurezza. Il bisogno di autonomia cresce, ma anche la capacità della persona di percepire i propri limiti. Lo psicologo ha quindi il ruolo di accompagnare l’adolescente verso una conoscenza realistica della sua disabilità in quanto tale, delle reazioni altrui, ma anche della possibilità di confrontarsi con i propri pari sul piano della cooperazione e non dell’agonismo, abbandonando quindi gli atteggiamenti derivanti dalla rinuncia, dalla vergogna o dalla sfida. Inoltre emergono i bisogni collegati alla crescita emotiva e sessuale, e quindi la necessità di confrontarsi con le insicurezze derivanti dalla propria immagine sociale, dalla necessità di adottare comportamenti di corteggiamento e sviluppo di tutte le dinamiche che riguardano il rapporto con l’eros, il proprio ed altrui corpo, la gestione e comunicazione dei sentimenti, ecc..
Sebbene inserita in un contesto del tutto diverso, la paura dell’incapacità può essere un sentimento riscontrabile anche nelle relazioni familiari con adulti disabili della vista. Ciò si può declinare in un atteggiamento della persona ed anche di alcuni suoi familiari, di negazione delle difficoltà direttamente connesse al deficit visivo, di disinteresse verso l’acquisizione di abilità più appropriate alla situazione, insieme al rifiuto di dotarsi di strumenti ed ausili specifici come quelli alla lettoscrittura ed alla mobilità autonoma.
Il ruolo dello psicologo, specie se ben informato sull’esistenza di opportunità riabilitative e mezzi idonei all’autonomia, è quello di sostenere la persona nel cambiamento interiore, concomitante con l’acquisizione di nuove abilità, anche attraverso lo sviluppo di nuove risorse. In molti casi questo significa anche lavorare per consentire alla persona la possibilità di mostrarsi socialmente secondo una nuova immagine, giacché la massima parte dei comportamenti, degli strumenti e degli ausili per le persone con disabilità visiva, sono visibili agli altri.
La dimensione della vergogna e spesso del segreto, sono tematiche ricorrenti con le quali lo psicologo in un contesto di psicoterapia individuale può aiutare la persona a confrontarsi, nell’intento di raggiungere un nuovo adattamento ed una migliore qualità della vita.
Con le dovute differenze, a volte si possono riscontrare situazioni familiari nelle quali la persona adulta, specialmente quando è divenuta cieca o ipovedente dopo la costituzione della famiglia, viene trattata secondo un assunto implicito di inabilità emotiva e familiare. Non è raro, per lo psicologo che si occupa di persone non vedenti o ipovedenti adulte, riscontrare situazioni di coppia o di famiglia, in cui la persona si trova esclusa anche da ruoli e responsabilità che pure potrebbe continuare a mantenere, nonostante la sopravvenuta disabilità della vista.
Quando si è verificato un cambiamento o una interruzione nel lavoro, la persona deve affrontare un ulteriore problema, giacché le mansioni lavorative concorrono a formare l’identità personale e sociale di ogni individuo. In questo senso, è compito dello psicologo aiutare la persona a traghettare nel cambiamento, con l’accortezza di preservare e valorizzare tutte le abilità e le qualità che aveva acquisito in passato. Inoltre, occuparsi dei figli, pianificare le vacanze, preoccuparsi della casa, concorrere alle decisioni, essere di aiuto e non soltanto essere aiutato, sono esperienze di vita che possono essere restituite alla persona, nell’ambito di una normalità dell’equilibrio familiare. Per conseguire questo obiettivo lo psicologo clinico deve aiutare la persona innanzi tutto a comprendere quali sono le dinamiche con le quali la famiglia ha reagito alla disabilità. Il secondo passo consiste nell’aiutare la persona a “disinnescare“ gli atteggiamenti sostitutivi degli altri familiari, riappropriandosi di quei ruoli che una volta gli competevano, restituendo a ciascuno il proprio, in un equilibrio migliore.

Le competenze sociali e di comunicazione interpersonale
Il problema dell’ambiguità e della comprensibilità sociale è tipica specialmente della condizione della persona con ipovisione. Infatti, sebbene la maggior parte delle situazioni visive non possa essere ricondotta agli stereotipi più conosciuti del cieco assoluto, quest’ultima condizione sembra essere più comprensibile ed accettata.
Di fatto, assistiamo sovente ad un misconoscimento e ad una percezione sociale non adeguata della persona con ipovisione, anche per una difficoltà insita in questa situazione, di dare una immagine univoca e stabile della capacità e delle necessità della persona.
Le condizioni ambientali e di contesto creano una varietà enorme di differenze nei comportamenti e nelle necessità della persona ipovedente, spesso anche solo con il mutare delle ore del giorno, degli ambienti, o di molte altre variabili. Tutto questo insieme di fattori concorrenti non sono automaticamente compresi dalle persone che hanno a che fare con i disabili della vista.
Di qui, una grande probabilità di sperimentare per costoro esperienze di fallimento empatico, ad esempio di scarso aiuto in situazione di bisogno, oppure di un atteggiamento protettivo e negazione delle proprie capacità in situazioni in cui la persona sperimenta di essere in grado di fare da sé.
Il rischio è che la persona, per limitare le probabilità di deludere le aspettative e non sentirsi accettata nei suoi comportamenti spontanei, scelga di avere una immagine sociale sempre bisognosa, oppure sempre adeguata. Lo psicologo psicoterapeuta individuale può facilitare la persona nella comprensione di questi meccanismi di incomprensione interpersonale, aiutandola a trovare il modo migliore per affrontare le varie situazioni, per aumentare la propria libertà nel relazionarsi con gli altri.
Per conseguire questo tipo di obiettivi, sono molto utili anche gli interventi di gruppo, perché questo può essere un contesto ottimale nel quale le persone possono sviluppare la capacità di analizzare gli atteggiamenti sociali propri ed altrui e affinare le competenze sociali legate allo stare in un gruppo.
Questo tipo di situazioni consentono anche di avvalersi delle funzioni di sostegno e confronto reciproco, messa in comune delle risorse e normalizzazione della propria condizione, che sono effetti benefici tipici degli interventi di gruppo.
In questo senso sono molto indicati i training psico-sociali, che appunto mirano all’acquisizione di strumenti specifici per aumentare le competenze di interazione e di comunicazione interpersonale.
In particolare, le ricerche dimostrano che vi è una certa tendenza ad avere atteggiamenti, a volte anche alternanti, basati sulla passività o sulla aggressività. Di conseguenza appaiono utili gli interventi mirati all’aumento della assertività, la capacità di ascolto reciproco, la capacità di descriversi/proporsi in modo efficace, ponendo le condizioni interpersonali per una relazione con l’altro di tipo paritetico, quindi non basata né sulla dipendenza né sulla sfida.
Da questa incursione non certo esaustiva nei vari ambiti di pertinenza della psicologia emerge che vari sono i vantaggi per la persona con deficit visivo, derivanti dall’uso di servizi psicologici competenti ed adeguati nei vari momenti della vita. Tutti gli strumenti di comunicazione e divulgazione scientifica sono utili per far comprendere alle persone che la attivazione mirata e ragionata dei servizi qui descritti, non è necessariamente segno di patologia anzi, a volte, cercare lo strumento giusto al momento adeguato, può essere segno di una buona capacità della persona di prendersi cura di se stessa. Ma è importante non dimenticare che lo psicologo non può operare nell’isolamento, e la sua attività può essere maggiormente utile, se concepita in un contesto interdisciplinare, inserita nel più generale ambito delle azioni rivolte alla cura della persona ed alla prevenzione del disagio in situazioni critiche.

Dott.ssa Maria Luisa Gargiulo

Psicologa Psicoterapeuta, opera a Roma ed in tutta Italia nel settore della psicologia clinica e nel campo della minorazione visiva. In questo ambito è autrice di numerose pubblicazioni.
e-mail info@marialuisagargiulo.it
www.marialuisagargiulo.it

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