Si comunica che è disponibile all’interno del Catalogo OnLine il seguente audiolibro:
Alberto Folgheraiter, Giorgio Lunelli, “Aurelio Nicolodi. Una luce nel buio dei giorni”, num. cat. 86721.
“Quali che sieno i dolori, le amarezze e le incomprensioni che ho trovati sulla mia via, non rimpiango di averla battuta. In ragione esatta del travaglio che mi è costata, mi ha compensato con soddisfazioni indicibili. Prima fra tutte, l’aver potuto costruire dal nulla. Costantemente partii dallo zero assoluto di mezzi e di esperienze giudicati sterili e negativi per antonomasia. Più di una volta, nel corso delle mie complesse organizzazioni, ebbi la sensazione esaltante di precorrere i tempi”.(Aurelio Nicolodi, Discorsi sulla cecità, Firenze 1944).
Tutto era cominciato trent’anni prima, una domenica di luglio del 1915. Una giornata di guerra com’era da due mesi, da quando cioè l’Italia, violata la neutralità proclamata per quasi un anno, aveva aperto le ostilità contro la duplice monarchia danubiana della quale era alleata fin dal 20 maggio 1882. Infatti, nel timore di restare isolata e in balia della Francia, dopo la “questione romana” (1870) l’Italia si era lasciata coinvolgere nell’alleanza degli Imperi centrali, con Germania e Austria, benché avesse con quest’ultima più di una questione in sospeso: le terre “irredente” dal Trentino all’ Istria, alla Dalmazia.
“Essere considerati uomini fra uomini, cittadini tra cittadini, con tutti i doveri e i diritti inerenti, era per un cieco, venticinque anni fa, semplice utopia. Inabilitato, in base al Codice del 1865, a tutelare i propri interessi, soggetto all’aleatorietà di un’educazione obbligatoria solo a parole, perché, in realtà, dipendente da protezioni, influenze, benefici e comunque limitata ai soli corsi elementari, il cieco era, di fatto, in balìa della carità pubblica, non solo per l’istruzione e l’assistenza, ma anche per il lavoro. Questo, irrisoriamente retribuito, si risolveva in una sorta di sfruttamento, oramai così invalso da apparire logico agli stessi ciechi. Il materiale didattico scarso o nullo. Spesso un solo libro di testo doveva bastare a un’intera scolaresca. Gli insegnanti improvvisati e scelti fra gli stessi ciechi anche quando la cecità del maestro era incompatibile. Poche e caotiche le biblioteche, frutto di copisti volontari e costituite di libri scorretti, scelti secondo il gusto e l’arbitrio del copiatore e non secondo la necessità dello studioso. Gli istituti, simili ad asili, accoglievano, purché ciechi, bambini, adulti, vecchi, malati, deficienti, in una mescolanza di sessi, di età, di mentalità, che era quanto di più deprimente si potesse immaginare. Ivi, molte energie che un ambiente adatto avrebbe potuto mettere in valore, perivano miseramente nell’annichilimento più assoluto. La musica, retaggio, se non unico, perlomeno comune ai ricoverati, quasi che il non vedente determinasse automaticamente un’inclinazione musicale. Impianti da lavoro nulli o quasi. I lavoratori che germinavano qua e là avevano una vita breve e atrofica, dominati dal loro stesso criterio costituzionale che era l’elemosina e non da una studiata valorizzazione delle effettive possibilità dei ciechi. Provvedimenti di carattere previdenziale neanche l’idea, il cieco essendo considerato un essere già fuori dalla vita, ombra che si trascinava di pari passo con la morte. Tali erano le condizioni dei ciechi un venticinquennio addietro.” (Aurelio Nicolodi, 1945)
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