Autore: a cura di Paolo Colombo
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE PER ILLECITO UTILIZZO PERMESSI LEGGE 104/92
La Suprema Corte di Cassazione con una recentissima sentenza . n. 4984 del 4.03.2014 si è pronunciata sull’illecito utilizzo del permesso ex articolo 33 l. 104/1992 da parte di un lavoratore, familiare di un disabile. In sintesi per la Cassazione va licenziato chi usa il permesso della “104” per andare in vacanza invece che dal familiare malato e il datore di lavoro può far pedinare il dipendente da un detective per provare l’illecito utilizzo del beneficio concesso unicamente per garantire l’assistenza ai congiunti. La sentenza, di cu si riporta il testo integrale, riguarda il caso di un licenziamento effettuato per l’illecito utilizzo di un permesso previsto dall’art.33 della legge n.104/92 riscontrato dal datore di lavoro, attraverso un’ agenzia investigativa , che ha smascherato l’utilizzo per finalità estranee a quelle dell’assistenza. Il lavoratore dipendente, attraverso l’uso improprio del permesso, ha violato la finalità assistenziale e la sua condotta è stata coerentemente ritenuta capace di integrare anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale un comportamento idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, in quanto la sospensione dell’attività lavorativa era consentita solo per la finalità assistenziale garantita dal permesso indebitamente fruito. La Cassazione, inoltre, ha legittimato il datore di lavoro anche ad utilizzare un investigatore per controllare il proprio dipendente che abusa del diritto. Tale controllo occulto, per quanto apparentemente inopportuno, non è lesivo della privacy. Il divieto legittimo, per il datore, di spiare i dipendenti, previsto dallo Statuto dei Lavoratori opera solo per i luoghi di lavoro e solo quando è rivolto a vigilare sull’attività lavorativa vera e propria. Nel caso di specie trattato in sentenza, invece, l’utilizzo del detective da parte del datore di lavoro, che avviene fuori dall’unità produttiva ha come scopo quello di tutelare il patrimonio aziendale: ossia verificare se il dipendente sta adempiendo o meno alle obbligazioni del contratto di lavoro. L’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi della ex art. 33 della legge non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa in sé, poiché viene effettuato al di fuori dell’orario di lavoro e in fase di sospensione dell’obbligazione principale lavorativa. Per cui avvalersi di “detective-spia” è pienamente legittimo. Sulla scorta di questa recentissima sentenza della Suprema Corte anche i lavoratori disabili che beneficiano per se stessi di tali permessi devono fare maggiore attenzione e non utilizzarli impropriamente per compiere attività estranee a quelle di riposo e di cura che hanno giustificato la loro assenza dal lavoro.
Per la rilevanza dell’argomento trattato, di qui seguito riporto il testo integrale della sentenza in commento.
Sentenza 04 marzo 2014 n. 4984
Lavoro – Contestazione disciplinare – Illecito utilizzo del permesso ex articolo 33 l. 104/1992 – Licenziamento – Agenzia investigativa.
Svolgimento del processo.
Con sentenza del 30.12.2010, la Corte di appello di Milano, in riforma della decisione impugnata, respingeva le domande proposte da N.D. intese alla declaratoria di invalidità del licenziamento intimato al predetto dall’A. s.p.a. il 30.4.2008 ed alla condanna di quest’ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro, disposta dal Tribunale, sul presupposto dell’illegittimità del controllo operato dalla società ai fini dell’accertamento del fatto poi contestato in sede disciplinare e della conseguente inutilizzabilità della prova, in assenza di un illecito che giustificasse l’attività investigativa. La Corte del merito osservava che la contestazione disciplinare verteva sull’
illecito utilizzo di un permesso ex art. 33 I. 104/92 per fini del tutto estranei a quelli previsti dalla legge, tenuto conto della gravità del contegno del Nulli alla luce della qualifica direttiva posseduta, e rilevava che i fatti non erano stati contestati, essendone stata negata solo la rilevanza disciplinare nonché la liceità delle metodologie di accertamento. Pur convenendo con il primo giudice sul fatto che il controllo a mezzo di agenzia investigativa fosse consentito solo se indispensabile per l’accertamento di un illecito e se privo di alternative, osservava la Corte che, tuttavia, non poteva negarsi la natura illecita dell’abuso del diritto di cui all’art. 33 L. 104/92 citata, tanto ai danni dell’INPS che erogava l’indennità relativa ai giorni di permesso, sia ai danni del datore di lavoro a cui carico restavano per tali giornate l’accantonamento per il t.f.r. ed i disagi per fare fronte all’assenza. Peraltro, per giustificare il ricorso al controllo occulto “difensivo” era sufficiente che vi fosse il ragionevole sospetto che il lavoratore tenesse comportamenti illeciti e che non vi fosse la finalità di ampliare l’oggetto della contestazione disciplinare. I testimoni escussi avevano riferito che il Nulli in due occasioni, alla loro presenza, aveva dichiarato di avere trascorso una vacanza in week end lungo e che, in quanto svolgenti compiti attinenti al rilascio di permessi, essi erano al corrente che in quei giorni il N. era in permesso per la legge 104. Era, dunque, al cospetto di tali dichiarazioni, ragionevole il sospetto da parte dell’azienda che i permessi non fossero utilizzati per l’assistenza alla madre e quindi doveva ritenersi giustificato il controllo difensivo occulto per l’accertamento dell’illecito. Dalla liceità dell’accertamento difensivo conseguiva, pertanto, secondo il giudice del gravame, l’utilizzabilità in giudizio degli esiti dello stesso, non essendo stata contestata la veridicità dei fatti, la cui gravità era connessa non solo all’allontanamento temporaneo dall’abitazione materna, ma al fatto che il N., nel giorno di permesso chiesto per il venerdì 11 aprile 2008, alle 7,55 fosse partito con amici e valigia mettendo tra sé e la finalità di assistenza del permesso una distanza ed una previsione di rientro non prossimo, che rendevano evidente come lo stesso fosse stato utilizzato per altre finalità che la legge garantiva con l’istituto delle ferie. La Corte territoriale considerava, poi, la posizione del N. all’interno dell’azienda, quadro del Servizio Legale, e le competenze specifiche di laureato in giurisprudenza, che escludevano ogni possibilità di errore circa la finalità dei permessi e creavano un specifico pericolo di discredito dell’organizzazione aziendale ove gli altri lavoratori fossero venuti a conoscenza di week end allungati dal permesso per assistenza alla madre. L’abuso del diritto veniva, pertanto, ritenuto tale da integrare una condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia posto a fondamento del rapporto di lavoro.Per la cassazione di tale decisione ricorre il N., affidando l’impugnazione a cinque motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c Resiste, con controricorso l’A. s.p.a, che espone ulteriormente le proprie difese nella memoria illustrativa.
Motivi della decisione.
Con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 ed 8 I. 300/70, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che il controllo dell’ agenzia investigativa non può riguardare in nessun caso né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, alla attività lavorativa, che è sottratta alla vigilanza altrui, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale prospettata. Secondo il ricorrente, appare, quindi, violativo degli artt. 2 e 3 Statuto avere ritenuto legittimi i pedinamenti che hanno determinato la contestazione disciplinare prodromica al licenziamento, in quanto certamente non finalizzati a rilevare illeciti a danno del patrimonio aziendale, attenendo, invece, all’adempimento dell’obbligazione di fornire la propria prestazione lavorativa a fronte della percezione della retribuzione. Occorreva che i controlli occulti fossero disposti contro attività fraudolente o penalmente rilevanti, laddove la Corte del merito aveva introdotto il tema dell’abuso del diritto che esulava completamente dall’interpretazione delle norme citate dello Statuto, collegando a tale ipotesi di abuso la possibilità di controllo difensivo occulto e scardinando la consolidata acquisizione interpretativa che ritiene legittima tale forma di controllo solo ove finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, ovvero alla verifica di comportamenti delittuosi del lavoratore. Assume il ricorrente che, se l’esercizio di un diritto potestativo in caso di sviamento della sua propria funzione può rifluire nell’abuso del diritto stesso, il controllo verte sulle modalità di esercizio di un diritto, non finalizzato assolutamente a quei soli scopi che legittimano i controlli occulti. Peraltro, la fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, non avrebbe integrato l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, c.p., in assenza di ogni artificio o raggiro posto in essere dal suo autore. Con il secondo motivo, il N. lamenta violazione dell’art. 342 c.p.c. e del d. Ig.vo 30.6.2003, n. 196, e deduce la nullità della sentenza, ex art. 156 e 161 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, n. 4 c.p.c., rilevando come la Corte territoriale abbia completamente omesso di considerare la circostanza, evidenziata dal giudice di primo grado, dell’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte degli investigatori privati laddove l’A. non aveva mai riferito alcunché a proposito dell’esistenza dell’atto di incarico e che ciò doveva indurre la Corte a dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione ex art. 342 c.p.c.. Ed invero, era richiesta la conformità dell’incarico alle autorizzazioni del garante, conformità che costituiva presupposto indispensabile ai fini della legittimità dell’investigazione e della legittimità del controllo e quindi della contestazione (in tale senso era la pronuncia del Tribunale). Poiché la inesistenza di un incarico conforme alle disposizioni del Garante non era controverso, non era invocabile l’art. 360, n. 5, c.p.c., atteso che la totale mancanza di motivazione sul punto determinava la nullità della sentenza, deducibile ai sensi dell’ art. 360, n. 4, c.p.c..Con il terzo motivo, viene dedotta l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c. e la violazione degli artt. 246, 416, 3° comma, 257 c.p.c. e dei principi in ordine alla testimonianza de relato, assumendo il N. che non vi sarebbe stata la prova del ragionevole sospetto che avrebbe legittimato il ricorso ad un controllo occulto, ma che, in base al tenore delle testimonianze di F. e V., doveva ritenersi che il preteso viaggio fosse proprio quello di cui al pedinamento e che la fonte fosse stata proprio l’Agenzia Investigativa, sicché la circostanza della vacanza riferita dal N. alla persona addetta alla segreteria costituiva dichiarazione priva di significato univoco, potendo la vacanza essersi realizzata in giorni estranei al permesso. Aggiunge, quale ulteriore considerazione a fondamento dell’impugnazione, che neanche sarebbe dato comprendere, alla luce dei risultati dell’investigazione, in quale data sarebbe stato effettuato il viaggio in Svizzera al quale si sarebbe riferito il N. conversando con le segretarie e la ragione per cui il predetto si sia indotto a confidare proprio alle stesse l’uso improprio del permesso ai sensi della legge 104. Peraltro, il M., firmatario della contestazione, aveva un interesse in causa che avrebbe potuto giustificare un suo intervento adesivo, atteso che, in caso di definitivo accertamento dell’illegittimità del licenziamento, l’A. avrebbe potuto rivalersi su di lui. La mancanza di motivazione sull’attendibilità del teste, una volta ritenuta la sua capacità a deporre, si traduceva, poi, in un vizio censurabile ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., ed anche la F. e la V. non potevano essere considerate testi di riferimento. Infine, si assume che il G., indicato de relato dal M., rappresentando l’A., non era persona estranea alla controversia, per cui non era possibile acquisirne la deposizione.Con il quarto motivo, il N. deduce la nullità della sentenza ai sensi degli artt. 156 e 161 c.p.c., ex art. 360 n. 4 c.p.c.) ed ascrive alla decisione violazione dell’art. 5 L. 604/66 ed omessa motivazione, evidenziandone la totale assenza con riguardo a fatti controversi e decisivi per il giudizio, tra i quali l’avere prestato cure alla propria madre in data 11.4.2008, non potendo ritenersi che non vi sia stata contestazione della veridicità dei fatti contestati.
Con il quinto motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 1 L. 604/66, 2119 e 2106 c. c. e rileva ancora la nullità della sentenza, ex art. 156 e 161 c.p.c. oltre che l’omissione od insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la contestazione relativa a fattispecie analoga a quella di abuso di congedo parentale non era in linea con i principi in materia di proporzionalità del licenziamento disciplinare ed alla valutazione della condotta secondo i criteri applicativi di norme elastiche, da condursi con giudizio di valore adeguato al contesto storico sociale. Assume che il giudizio della Cassazione deve ritenersi esteso alla sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, con valutazione di un contegno che nelle finalità del permesso contempli anche l’esigenza dalla persona che assiste di avere ulteriore occasione di riposo o di stacco e ciò anche nella prospettiva di un giudizio sulla proporzionalità della sanzione.
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo deve essere disatteso stante quanto ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla portata delle disposizioni (artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970), che delimitano – a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali – la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi – e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3) -, ma non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (cfr. , in tali termini, Cass. 7 giugno 2003, n. 9167). Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 10 luglio 2009 n. 16196).Nel caso considerato il controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 L. 104/92 (suscettibile di rilevanza anche penale) non ha riguardato l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo stato effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa. Deve, pertanto, ritenersi che la decisione impugnata sia conforme ai principi sanciti in materia ed in linea con gli orientamenti giurisprudenziali richiamati. Quanto al secondo motivo di ricorso, che evidenzia la nullità della decisione per avere superato, omettendo ogni motivazione al riguardo, quanto affermato nel capo della sentenza di primo grado con riguardo alla mancanza di un atto di incarico conforme alle specifiche autorizzazioni del Garante per la protezione dei dati personali, occorre considerare che in realtà l’affermazione, costituendo un mero inciso di motivazione, reso ad abundantiam, non necessitava di espressa impugnazione, e quand’anche si ritenesse diversamente, la fattispecie implicava il coinvolgimento di dati personali non sensibili e chiaramente pertinenti rispetto allo scopo perseguito dalla società che, come sopra detto, era del tutto rispettoso delle norme dello Statuto poste a tutela del lavoratore. Non si poneva, pertanto, una questione di acquiescenza ad un capo di decisione autonomo, idoneo anche da solo a sorreggere la decisione, sicché l’asserita violazione dell’art. 342 c.p.c. risulta, in definitiva, destituita di giuridico fondamento.
Il terzo motivo è ugualmente infondato. Nella prima parte della censura si assume che le circostanze riferite dalle testi F. e V. sarebbero le stesse di cui all’accertamento investigativo, sicché sostanzialmente non vi era stato il sospetto ingenerato da circostanze preventivamente acquisite da tali testi, ma il datore avrebbe affidato il mandato all’agenzia a scopo meramente esplorativo. La censura mira in tale maniera a sollecitare una non consentita valutazione del merito, in contrasto con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi della motivazione della sentenza, deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione (o il capo di essa) censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, e quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi, mentre non può farsi valere il contrasto dell’apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice di merito con il convincimento e con le tesi della parte, poiché, diversamente opinando, il motivo di ricorso di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito (v. tra le altre, Cass. 5 marzo 2007 n. 5066, Cass. 5274/2007 e, precedentemente, Cass. 15693/2004). La seconda parte della censura verte, invece, sulla ritenuta incapacità a deporre del teste M., ma in primo luogo deve rilevarsi che nessun accenno viene fatto ali termini ed ai modi in cui una tale eccezione era stata tempestivamente sollevata nella fase del merito. Vero è, poi, che ove la capacità a deporre del teste non possa essere messa in discussione per non essere stata la relativa questione tempestivamente sollevata, il giudice del merito non è esonerato dal potere – dovere di esaminare l’intrinseca attendibilità di detto testimone, specialmente in caso di contrasto tra le risultanze di prove diverse, e legittimamente può tener conto dell’interesse del teste all’esito del giudizio, anche là dove tale interesse non sia formalmente tale da legittimare la sua partecipazione allo stesso, (cfr. Cass. 18 marzo 2003 n. 3956). Nel caso considerato non si ravvisano, tuttavia, errori di valutazione idonei a legittimare la censura come prospettata anche con riguardo al profilo dell’attendibilità delle deposizioni acquisite, essendo state le testi di riferimento legittimamente escusse sulla base dell’indicazione di conoscenza dei fatti ad esse attribuita. Il quarto motivo solleva una critica avulsa dalle risultanze processuali laddove si contesta l’iter argomentativo in relazione alla circostanza che la contestazione da parte del ricorrente vi era stata anche con riguardo all’effettivo verificarsi dei fatti contestati. Ed invero, posta la rilevanza probatoria attribuibile per quanto sopra detto ai risultati dell’investigazione, non rilevano circostanze ulteriori riferite alla assistenza comunque prestata alla madre dal N. prima di partire per il week end, permanendo l’abuso del diritto connesso all’utilizzo improprio del permesso ex art. 33 L. 104/92.
Ove l’esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile, ma presupponga un’autonomia comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti – come nella specie – di interessi familiari tutelati nel contempo nell’ambito del rapporto privato e nell’ambito del rapporto con l’ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall’ordinamento. L’abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico. In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi verificato un abuso del diritto potestativo allorché il diritto venga esercitato, come nella specie, non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività. La condotta del ricorrente si è posta in contrasto con la finalità della norma su richiamata, e pertanto la sua connotazione di abuso del diritto e la idoneità, in forza del disvalore sociale alla stessa attribuibile, a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario correttamente sono state ritenute dal giudice del gravame capaci di integrare il comportamento posto dal datore a fondamento della sanzione disciplinare.
Il quinto motivo verte sulla correttezza del giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte territoriale con riguardo alla condotta del N.. In ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011 e da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n. 6498) che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. È stato, altresì, precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).
In tema di ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass. 6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., (norma c.d. elastica) compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale. Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata dal lavoratore sotto tale profilo appare rispettosa dei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte, in quanto il giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della stessa, valorizzando, ai fini della valutazione della gravità della condotta, non solo e non tanto l’allontanamento temporaneo dall’abitazione materna “quanto il fatto che N. nel giorno del permesso ex art. 33 chiesto per la giornata di venerdì 11 aprile, alle 7,55 sia partito con amici e valigia al seguito, così mettendo fra sé e la finalità di assistenza del permesso una distanza e una previsione di rientro non prossimo che rendono del tutto evidente che il permesso …. è stato utilizzato per altra finalità, che la legge garantisce con l’apposito istituti delle ferie”. In tale modo il Nulli – come condivisibilmente osservato dal giudice del merito – ha violato, attraverso l’abuso del relativo diritto, la finalità assistenziale allo stesso connessa e la condotta posta in essere è stata, pertanto, coerentemente ritenuta capace di integrare anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale un comportamento idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, sia perché le eventuali convinzioni personali del ricorrente di potere fare affidamento in una prassi consolidata o nella collaborazione di una badante sono dei tutto irrilevanti in presenza di comportamento che ha compromesso irrimediabilmente il vincolo fiduciario, sia perché la sospensione dell’attività lavorativa era consentita, come chiarito in sentenza, solo per la finalità assistenziale garantita dal permesso. Peraltro, deve anche aversi riguardo al fatto che, come, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, l’intensità della fiducia richiesta è differenziata a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono e che il fatto deve valutarsi nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante alla potenzialità del medesimo a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr., tra le altre, Cass. 10.6.2005 n. 12263). Per tutte le esposte considerazioni, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio, in forza del principio della soccombenza, cedono a carico del ricorrente, e vanno liquidate nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed in euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)