Nei giorni scorsi, con la sentenza “pilota” n. 2023 redatta dal giudice Francesco Gambato Spisani, il Consiglio di Stato ha evidenziato come “l’inserimento e l’integrazione nella scuola – con l’ausilio dell’insegnante di sostegno – anzitutto evitano la segregazione, la solitudine, l’isolamento” e “rivestono poi fondamentale importanza sociale, perché rendono possibili il recupero e la socializzazione”.
La sentenza del CDS prende le mosse da un caso verificatosi in Toscana e sollevato dalla madre di un minore disabile: la donna aveva chiesto che la scuola per l’infanzia alla quale il figlio è iscritto, riconoscesse le ore di sostegno per l’anno scolastico 2015-2016. Il dirigente scolastico ha prima fatto presente all’Ufficio scolastico regionale che al minore dovevano essere attribuite 25 ore settimanali di sostegno; poi, acquisite le determinazioni dell’Ufficio scolastico regionale, ne ha attribuito soltanto 13.
Preso atto del numero ridotto di ore, la madre del bambino non si è arresa: ha impugnato la decisione al Tar Toscana, che nel marzo 2015 le ha dato ragione, ordinando a Miur e Usr Toscana di attribuire immediatamente 25 ore; inoltre ha nominato due commissari ad acta in caso di inadempimento.
Ministero dell’Istruzione ed Ufficio regionale hanno impugnato la sentenza del Tar di fronte al Consiglio di Stato. Il quale, ora, ha respinto l’appello.
Tra le principali motivazioni addotte dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Luigi Maruotti, possiamo leggere: “L’attività ed un significativo numero di ore di lezione degli insegnanti di sostegno comportano evidenti vantaggi non solo per i disabili”, “ma anche per le famiglie e per la società nel suo complesso”.
Quanto stabilito dal Consiglio di Stato è molto importante, in quanto conferma la “storica” sentenza n. 275 del 2016 della Corte Costituzionale che ha sancito l’”intangibilità” del diritto allo studio degli alunni con disabilità, con riguardo anche alle misure di assistenza previste per loro dalla legislazione vigente, ivi compreso il servizio di trasporto.
In sostanza, viene ribadito che è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione.
Tuttavia, non mi sento di esultare e di essere entusiasta per sentenze come questa, che ritengono di garantire il diritto all’inclusione, assegnando lo stesso numero di ore di sostegno pari al numero di ore di lezione. Esse, invece, finiscono per contraddire lo spirito più autentico della nostra normativa sull’inclusione scolastica, fondata sull’ICF dell’OMS del 2000 e sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, privando gli allievi disabili dell’imperdibile opportunità di un reale ed efficace percorso di autonomia e di vita indipendente.
Ciò sta provocando il consolidarsi degli attuali “mali” del nostro sostegno e cioè: la progressiva ed inarrestabile “deresponsabilizzazione” dei docenti curricolari per il progetto inclusivo, il crescente perverso meccanismo della delega al solo docente per il sostegno del processo di inclusione degli studenti con disabilità e la conseguente triste “ghettizzazione” di questi ultimi nelle cosiddette “aule di sostegno”. Oggi, infatti, sempre più genitori considerano l’insegnante specializzato, indipendentemente dalle sue competenze, l’unica risorsa a disposizione dei loro figli, parlando addirittura del “loro” docente di sostegno e sentendosi dunque quasi in “dovere” di ricorrere ai giudici per ottenere il massimo di ore di sostegno possibile.
Quanto da me sopra esposto non deve far credere che noi vogliamo “eliminare” gli insegnanti per il sostegno che, al contrario, riteniamo una “preziosa” risorsa al servizio degli alunni/studenti con disabilità. Però, l’errore di fondo del nostro presente sistema di inclusione è quello di dimenticare sempre più spesso che, come previsto dalla legge 517/77, dalla 104/92 e dalla più recente Convenzione ONU sui diritti dei disabili, essi devono essere di sostegno alla classe, ai colleghi curricolari, a tutti gli Organi Collegiali ed all’intero “contesto” per la progettazione e realizzazione di attività scolastiche ed extrascolastiche veramente “inclusive” per “tutti e per ciascuno” e non solo per gli allievi con disabilità.
Insomma, fossi nelle famiglie dei nostri ragazzi, piuttosto che “battagliare” nelle aule dei tribunali per ottenere tante ore di sostegno quante sono le ore di insegnamento, mi batterei al contrario per una seria ripresa della formazione iniziale ed in servizio di tutto il personale scolastico sulle Didattiche inclusive e per la garanzia di una “sacrosanta” continuità didattica per i loro figli.
La cosa più deludente è che neppure la tanto “celebrata” recente Delega della Buona Scuola sul sostegno sembra voler perseguire tali “virtuosi” obiettivi, con buona pace di un proficuo processo di inclusione degli alunni con disabilità del nostro Paese.
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Riforma del sostegno e continuità “tradita”, di Gianluca Rapisarda
Prendo spunto, con questo mio contributo, da un recente articolo di Salvo Intravaia, apparso sulle pagine de La Repubblica lo scorso 11 Aprile ed intitolato “Docenti di sostegno: Con la Buona Scuola li confermano le famiglie”.
Nel suo “pezzo, il giornalista, parlando della Delega sull’inclusione licenziata dal Consiglio dei Ministri il 7 Aprile u.s., riferisce dei dubbi e delle perplessità sollevati dai sindacati e dall’ANIEF in particolare sul comma 3 dell’art 14 del D.Lgs n. 378.
A loro dire, l’articolo “incriminato” del Decreto aprirebbe alle famiglie la possibilità di intercedere a favore di questo o quel bravo supplente, che nel corso dell’anno scolastico si è contraddistinto per il suo lavoro con l’alunno disabile. Effettivamente, esso stabilisce che “Al fine di agevolare la continuità educativa e didattica e valutati, da parte del dirigente scolastico, l’interesse dell’alunno e l’eventuale richiesta della famiglia, ai docenti con contratto a tempo determinato per i posti di sostegno didattico possono essere proposti, non prima dell’avvio delle lezioni, ulteriori contratti a tempo determinato nell’anno scolastico successivo”.
La protesta dei sindacati si fonda sulla loro convinzione che la scelta di un lavoratore pubblico non può essere fatta da chi non ha competenze per valutare la didattica speciale.
Pur rispettando quanto eccepito dal mondo sindacale e dall’ANIEF, mi permetto di non condividere le loro critiche. Non concordo con loro, perché innanzitutto quanto stabilito dall’art 14 comma 3 della Riforma sul sostegno è soltanto una possibilità che dovrà essere regolamentata dal MIUR con un apposito Decreto Ministeriale e, soprattutto, perché credo che in merito al provvedimento sull’inclusione uscito in CDM venerdì 7 Aprile u.s., abbiano sbagliato “bersaglio”.
Fossi in loro, al contrario, io concentrerei le mie energie e profonderei tutti gli sforzi per impedire ed evitare una volta per tutte che nel mondo della scuola si continui ancora a parlare di “supplenti a contratto determinato”.
Il vero “scandalo” del sostegno italiano è che, malgrado la neonata Delega, il MIUR insista pervicacemente con i docenti di sostegno supplenti (loro si privi di competenze specifiche sulla Didattica inclusiva).
Tale perverso meccanismo “corporativo” va denunciato con forza, in quanto va a solo detrimento dei bisogni educativi degli alunni con disabilità e pregiudica loro la garanzia di un’effettiva continuità didattica.
Infatti, a parere di chi scrive, la continuità “negata” agli allievi disabili e non la possibilità di scelta del supplente “precario” (confermabile tra l’altro solo per l’anno scolastico successivo e con contratto determinato) da parte delle famiglie; è questa la reale “occasione mancata” del Decreto n. 378, e che mi fa affermare con molta amarezza e rammarico che, per i nostri ragazzi, la Buona Scuola esiste solo “sulla carta”.
Queste mie considerazioni sono desolatamente confermate dagli sconfortanti dati in nostro possesso. Durante il corrente anno scolastico, il 43% dei 235.000 alunni con disabilità presenti nelle classi di ogni ordine di scuola hanno cambiato il docente di sostegno. Questa grave situazione determina di fatto l’impossibilità di assicurare agli allievi con disabilità quella continuità didattica che risulta essere un fattore determinante per favorirne il successo formativo e tale problema, a mio parere, scaturisce dal fatto che numerosi posti di sostegno sono attribuiti “in deroga” e cioè a docenti supplenti con contratto a tempo determinato (criticità che sarebbe aggravata e non risolta dal già citato art 14 comma 3 del D.Lgs n. 378): in tal senso la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ha stimato lo scorso anno che quasi il 40% dei posti siano coperti tuttora da docenti precari.
Il fatto è che l’enorme domanda di insegnanti di sostegno (circa 120.000 in servizio di cui il 60% circa di ruolo) ha letteralmente mandato in tilt il sistema scolastico territoriale. Diversi Uffici Scolastici Regionali, con aberranti e raffazzonate disposizioni, hanno addirittura dato la possibilità di coprire i posti residuati sul sostegno ad insegnanti di classi di concorso in esubero o che si trovano in “assegnazione provvisoria, paradossalmente non abilitati al sostegno.
Si ricordi a tal proposito la Nota Ministeriale Protocollo n. 24306 del 1° settembre 2016, che recitava testualmente: «In caso di esaurimento degli elenchi degli insegnanti di sostegno compresi nelle graduatorie ad esaurimento, i posti eventualmente residuati sono assegnati dai dirigenti scolastici delle scuole in cui esistono le disponibilità, utilizzando gli elenchi tratti dalle graduatorie di circolo e d’istituto, di prima, seconda e terza fascia». Migliaia di cattedre di sostegno sono state perciò affidate a docenti senza alcun tipo di specializzazione, costringendo in tal modo le famiglie di persone con disabilità a ricorrere sempre più spesso ai giudici per dare un’istruzione adeguata ai loro figli.
A ciò si aggiunga che, nonostante la previsione del suddetto Decreto sull’inclusione del “blocco” decennale dei docenti per il sostegno (si badi bene, però, solo nel medesimo ruolo e non nella stessa scuola e con la conferma finale degli attuali 5 anni), la continuità didattica sarà ancora una “chimera” se non addirittura una “presa in giro”, senza il vincolo per gli insegnanti di sostegno di permanenza con il medesimo alunno/studente disabile per tutto il suo segmento formativo (previsto dalla legge de la Buona Scuola ed inspiegabilmente non adottato con il Decreto attuativo).
E’ questa la continuità didattica prevista dalla nuova legge sul sostegno e ripetutamente “decantata” dalla Ministra Fedeli?
E’ inutile che le parti sindacali e ANIEF continuino ad inseguire “falsi” problemi e a non battersi invece con maggior decisione per un Piano “a lungo termine” di stabilizzazione e di assunzione dei docenti di sostegno, per il loro definitivo passaggio dall’attuale organico di fatto a quello di diritto e per il loro “vincolo al ciclo di istruzione dell’alunno.
La cosa più deludente è che, purtroppo, neppure la tanto “pontificata” neo riforma dell’Esecutivo di venerdì scorso prevede questi interventi “coraggiosi”, strutturali e di sistema.
A questo punto, senza nessun ormai improbabile cambiamento in corso d’opera da parte del Ministero, temo proprio che si farà in modo di perpetuare il sistema attuale, sulla base del quale la maggior parte degli allievi con disabilità sono costretti, ogni anno, a cambiare docente di sostegno e a ricominciare tutto da capo, con buona pace di un loro proficuo processo di inclusione.
Il nuovo sistema del sostegno è legge, di Gianluca Rapisarda
Il CDM avrebbe dovuto licenziare il Testo definitivo della Delega sull’inclusione della Buona Scuola il prossimo 17 Aprile, ma l’approssimarsi delle vacanze di Pasqua, ha fatto accelerare a Venerdì scorso l’approvazione finale della tanto attesa e “sospirata” Riforma del sostegno.
Innanzitutto, estremamente positivo è che, con le novità introdotte in CDM, si rimette al “centro” del processo di inclusione scolastica la famiglia, che partecipa a tutte le fasi: dalla formulazione del profilo di funzionamento dell’alunno (che sostituisce la valutazione diagnostica funzionale, come chiesto dalle associazioni, ndr), alla quantificazione delle risorse da assegnare. Su richiesta delle famiglie, poi, il Piano educativo individualizzato (Pei) entra a far parte del profilo di funzionamento.
Se la prima bozza introduceva la valutazione diagnostico-funzionale (che andava a sostituire gli attuali profilo dinamico funzionale e diagnosi funzionale), adesso, il testo finale del Consiglio dei Ministri, dopo il parere delle Commissioni VII e XII della Camera e VII del Senato parla di un «profilo di funzionamento secondo i criteri del modello bio-psico-sociale dell’ICF, ai fini della formulazione del progetto individuale (di cui all’articolo 14 della legge 8 Novembre 2000 n. 328), nonché per la definizione del Piano Educativo Individualizzato (PEI).
In verità, c’è un poco di confusione poiché nel PEI non paiono esserci cenni al sostegno didattico (art .10), mentre i sostegni – incluso quello didattico – sembrano dover essere contenuti nel profilo di funzionamento: quindi a determinare e quantificare le ore di sostegno sarà pare l’unità di valutazione multidisciplinare, oggi sì arricchita di componenti rispetto all’inizio ma comunque non composta dalle persone che effettivamente conoscono il ragazzo e con un assetto prevalentemente medico.
Una delle novità del testo iniziale del decreto era il fatto che la valutazione dell’inclusione scolastica fosse parte integrante della valutazione della scuola, tramite indicatori che l’Invalsi andrà a definire: ora, con il Decreto definitivo, grazie all’intervento delle principali Associazioni di e per disabili, alla stesura di questi indicatori parteciperà anche l’Osservatorio per l’inclusione scolastica istituito presso il Miur.
Inoltre, apprezziamo tanto gli sforzi delle Commissioni parlamentari e del Governo circa la formazione iniziale universitaria specifica degli insegnanti per il sostegno della scuola dell’infanzia e primaria,i cui crediti formativi sulla Didattica inclusiva e sulla Pedagogia speciale aumenteranno dagli attuali 60 a 120. Tuttavia, resta il” rebus” della mancata previsione della medesima formazione iniziale specifica per i docenti di sostegno della superiore di I° e II°. Su tale parte del decreto, ritengo che il MIUR debba necessariamente intervenire.
Anche la formazione generalizzata di tutto il personale scolastico sulle singole disabilità stabilita dal decreto n.378 mi pare un po’ lacunosa, in quanto non prevede alcun obbligo di osservarla. A tal proposito, per ovviare a ciò, il recente “Piano Triennale di Formazione Obbligatorio” per i docenti curricolari e di sostegno in servizio mi sembra un ottimo strumento e una preziosa opportunità da cogliere da parte di tutte le Istituzioni scolastiche.
Valuto molto positivamente anche il mantenimento ad un massimo di 20 alunni per classe in presenza di ragazzi con disabilità da parte del CDM, dopo il parere delle Commissioni Affari sociali e Cultura della Camera e Istruzione e Beni Culturali del Senato. Infatti, tale disposizione recepisce quanto previsto dagli articoli 4 e 5 del D.P.R. n. 81 del 2009, contrastando il proliferare delle classi “pollaio” tanto deleterie per gli alunni con disabilità. Però, resta il fatto che il Decreto non stabilisce l’inderogabilità del numero di 20 alunni per classe in presenza di disabili, prevedendo che ciò avvenga soltanto in virtù della generica dicitura “di norma”.
Circa la spinosa questione della continuità, mentre la prima bozza di decreto prevedeva un vincolo decennale sul sostegno per gli insegnanti, ora invece, a seguito delle raccomandazioni delle Commissioni, il Governo ha ridotto tale vincolo, nelle more «di superarlo definitivamente al momento di entrata a regime della nuova disciplina della formazione iniziale e del reclutamento degli insegnanti». I contratti a tempo determinato potranno poi essere reiterati «il più possibile», in caso di fruttuoso rapporto docente-alunno e con il consenso delle famiglie.
All’articolo 16 dello Schema iniziale di Decreto 378 (continuità didattica) si aggiunge oggi infine che «al fine di garantire la continuità didattica durante l’anno scolastico, si applica l’articolo 462 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 297 del 1994»: almeno per tutto l’anno l’insegnante di sostegno dovrebbe rimanere lo stesso.
A parere di chi scrive, sulla continuità didattica, qualche ombra rimane, e cioè che il neonato Decreto non prevede nulla per contrastare il fatto che più del 40% degli attuali docenti per il sostegno sono supplenti e hanno incarichi precari “in deroga”. Per ovviare bisognerebbe rivedere i criteri degli organici dei docenti specializzati, che dovrebbero poter transitare dal presente organico di fatto a quello di diritto delle scuole e prevedere un serio e strutturale Piano di assunzione attraverso appositi Concorsi.
Infine, in merito alla continuità “negata”, ritengo che le Commissioni parlamentari e l’Esecutivo si siano dimenticati inspiegabilmente della raccomandazione della medesima Buona Scuola che indicava di “vincolare” il docente di sostegno all’intero ciclo d’istruzione dell’alunno con disabilità.
Invece, sono positive le mie considerazioni sulll’altro tema “caldo” della Delega, e cioè la valutazione degli alunni con disabilità in sede di Esame di Stato. Infatti, l’articolo 12 del D.Lgs. n. 384, sulla valutazione degli alunni con disabilità e disturbi specifici dell’apprendimento, che aveva creato molte perplessità, viene modificato: per gli alunni con disabilità certificati il consiglio di classe o i docenti contitolari della classe, possono prevedere per lo svolgimento delle prove standardizzate misure compensative o dispensative, adattamenti della prova o l’esonero dalla prova.
All’esame di Stato che conclude il primo ciclo di istruzione, il vecchio testo diceva che le prove differenziate – qui stava la preoccupazione – «se equipollenti a quelle ordinarie, hanno valore ai fini del superamento dell’esame e del conseguimento del diploma finale», mentre ora, secondo quanto approvato in CDM, «le prove differenziate hanno valore equivalente ai fini del superamento dell’esame e del conseguimento del diploma».
Infine, il comma 4 dell’art 3 del D.Lgs n. 378 che istituisce l’assistenza igienico-personale degli allievi con disabilità a “carico” dei collaboratori scolastici, non avendo subito modifiche dal CDM, a mio avviso, farà certamente discutere, perché su di esso ancora non c’è chiarezza. Infatti, oggi, solitamente, è il personale specializzato con corsi di formazione da 900 ore ad occuparsi dei bisogni “personali” degli allievi con disabilità, mentre tale supporto da parte dei collaboratori scolastici è facoltativo (tra l’altro con sole 40 ore di formazione ai sensi dell’art 47 del CCNL).
Con l’approvazione definitiva della Delega, dunque, il personale ATA sarà tenuto ad occuparsi oltre che delle tante mansioni quotidiane, anche dell’assistenza igienica degli studenti, con l’obbligo di partecipare ad iniziative formative nell’ambito del Piano Nazionale, ma senza specificarne né le modalità di svolgimento, né il numero di ore.
Come dire che, non solo ci rimetteranno i “collaboratori”, che verranno non adeguatamente formati ed oberati con prestazioni aggiuntive”, ma soprattutto, gli alunni con gravi disabilità, che rischieranno di veder penalizzato il servizio di assistenza personale nei loro confronti, con buona pace di un loro proficuo processo di inclusione.
In definitiva, sono stati certamente apprezzabili gli sforzi delle Commissioni di Camera e Senato e dell’Esecutivo che hanno accolto taluni nostri suggerimenti, quali il già citato inserimento dell’associazionismo di riferimento tra gli interlocutori dei processi di inclusione scolastica insieme alle famiglie, o anche quello dell’Osservatorio per l’Inclusione Scolastica tra i soggetti che esprimono parere sulla valutazione della qualità dei servizi delle istituzioni scolastiche; e bene anche il recepimento della nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF)».
E tuttavia,a parere dello scrivente, il Testo definitivo del Decreto del Governo sull’inclusione scolastica è da ritenersi “vecchio” dal punto di vista culturale e pedagogico, in quanto non fa esplicito riferimento all’art 24 della Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità e considera ancora “staticamente” la Didattica inclusiva una prerogativa soltanto degli alunni/studenti con disabilità e non come una preziosa risorsa al servizio dei bisogni educativi di tutti e di ciascuno.
L’attenzione alle “differenze individuali” di ciascun alunno da parte di tutto il “contesto” e non solo del docente di sostegno per le necessità degli allievi disabili: è questa la vera “discriminante” pedagogica, lo spartiacque su cui insistere per transitare definitivamente dalla vecchia dimensione “integrativa” della scuola italiana alla nuova cultura dell’inclusione “for all”.
Prendere il contesto inclusivo per superare l’emergenza educativa e uscire dalla “medicalizzazione” della diversità, di Luciano Paschetta
Venerdì scorso il governo ha approvato in via definitiva le otto deleghe alla legge 107 accogliendo in buona parte gli emendamenti proposti dalle associazioni, tuttavia, come sempre, l’approvazione di una norma non rappresenta solo un punto di arrivo, ma un nuovo punto di partenza.
In questi ultimi mesi, nel dibattito a “tutto tondo” che si è sviluppato sull’inclusione scolastica ho avuto modo di sottolineare più volte che a garantire una reale inclusione delle persone con disabilità, scolastica prima e sociale poi, era il livello di inclusività del “contesto”. Altri hanno avuto modo di ricordare che, perché l’inclusione si realizzi, occorre che la scuola e il contesto sociale cambi in questo senso, contemporaneamente però leggevamo articoli che parlavano di emergenza educativa nel nostro paese e statistiche che posizionavano la scuola italiana sempre più in basso. Oltre alla ormai diffusa convinzione che le leggi ci sono, ma poi tutto resta come sempre, credo occorra fare alcune riflessioni per capirne la carenza che sta degradando il nostro sistema educativo.
Il nostro sistema scolastico fino alla fine degli anni ’60 aveva funzionato secondo un modello che potremo definire: “scuola organismo”. Era questa la scuola gentiliana, governata e diretta dal centro, quella dove la norma era prescrittiva, che si reggeva su curriculum rigidi e su programmi predefiniti e dove il ruolo del docente rispetto all’organizzazione era sostanzialmente passivo e I suo dovere era applicare le norme e il suo piano di lavoro, quando richiesto, era , spesso, la trascrizione dell’indice del libro di testo. Definisco questo modello “scuola organismo” perché esso era caratterizzato dalle modalità di funzionamento analoghe a quelle dell’organismo umano, dove i vari organi funzionano ed interagiscono tra di loro secondo regole precise e determinati fenomeni si ripetono in modo immutato e ciclico. E’ questo il periodo che gli storici chiamano dell’”esclusione”: la scuola organismo non sapeva integrare il “diverso” al suo interno, così come l’organismo umano rigetta un corpo estraneo.
Quel modello è andato in crisi , non solo sotto la spinta ideologica del ‘68, ma come conseguenza del passaggio dalla scuola di “élite” a quella di “massa” e a partire dagli anni ‘70 la scuola si organizza secondo un modello che chiameremo ” modello arena”. Un’arena caratterizzata da un valore della norma sempre più debole, nella quale, rotti i vecchi schemi, nascono spontanee iniziative di sperimentazione con diversi tentativi di progettazione settoriale: è tipico di questo periodo avere, all’interno di un istituto, un gruppo di docenti che lavorano benissimo programmando insieme ed innovando la loro azione didattica, a fianco di altri che continuano più rigidamente a seguire i programmi ed ignorano cosa fanno i colleghi. E’ in questo “clima” che si avviano i primi inserimenti di alunni con disabilità nella scuola di tutti, che, nel ’77, preceduta nel ’74 dalla riforma Malfatti, viene emanata la legge 517, la quale pone quale “conditio sine qua non “perché l’integrazione si realizzi la modifica del contesto scuola. Cosa questa che, in questi anni, è avvenuta solo in modo disorganico e disomogeneo a “macchia di leopardo”, il “sistema” nel suo complesso non mutò, nonostante la legge 104, né le cose sono cambiate molto neanche con la concessione alle scuole dell’autonomia didattica e organizzativa, un modello di “scuola sistema dove la norma è solo più atto di indirizzo nell’ambito della quale ogni istituto esercita la sua autonomia dalla progettazione del piano dell’offerta formativa (definisce la propria carta dei servizi ed il regolamento disciplinare(è possibile anche modificare fino al 20% del curriculum, rendere flessibile l’orario dei docenti nel corso dell’anno, lavorare per classi aperte, ecc.), la normativa non è più prescrittiva: non descrive più il “come fare”, non precisa più le procedure specifiche, ma si limita a fornire gli “indirizzi”, ad indicare le “piste” entro le quali muoversi per raggiungere gli obiettivi definiti nel P.T.O.F..
Parallelamente all’evoluzione del sistema abbiamo avuto l’evoluzione dei principi ai quali si riferiva la scolarizzazione degli alunni con disabilità: fino alla fine degli anni ’60 la loro educabilità era fondata su una pedagogia incentrata sulle specifiche disabilità (scuole speciali per alunni con disabilità intellettive, visive, motorie auditive). Nei primi anni ’70 la proposta pedagogica dei sostenitori dell’integrazione degli alunni con disabilità , faceva riferimento alla pedagogia di “tutti” ed era incentrata sull’alunno in quanto persona da educare ed ha questo modello si ispirò la legge 517 , quando subordinò il successo dell’integrazione ad un adeguamento del contesto. L’evoluzione del modello, così come avvenuta negli anni ’80, ‘90 e continuata negli anni 2000, sottovalutando l’importanza del contesto e facendo del docente di sostegno il “perno” del processo di inclusione, ha favorito il sorgere delle cattedre di pedagogia speciale (non specialistica) il che ha incentrato il modello di inclusione su una “pedagogia speciale” riservata solo agli alunni con problemi, e ha rafforzato lo svilupparsi della delega creando il binomio tra l’alunno con disabilità e il “suo” docente per il sostegno. Tutto ciò a fatto dell’alunno con disabilità sempre più un “problema” di cui si occupa la pedagogia speciale o un “caso” di cui si devono occupare esperti del settore (psicologi, psicoterapeuti, neuropsichiatrici infantili, riabilitatori, ecc.)
Come abbiamo detto, al di là di felici situazioni, il sistema nel suo complesso spesso esprime ancora scarse capacità e competenze progettuali e organizzative e rimane incapace di utilizzare tutte le opportunità che la norma gli offre, rimanendo in un “limbo” tra il “vecchio” che non c’è più ed un “nuovo” che non riesce a costruire., con l’inevitabile caduta di qualità del servizio scolastico in generale e di una crescente incapacità nel garantire il successo dell’inclusione degli alunni con disabilità.
Se questa è, sia pur molto sintetica, l’analisi di come si è venuto evolvendo il nostro sistema scolastico e, al suo interno, il modello di inclusione, è necessario cercar di capirne la causa profonda.
In questi ultimi due mesi leggendo e rileggendo i testi degli atti di delega della legge 107 per proporne gli emendamenti possibili, ho fatto alcune considerazioni che vorrei condividere. La scuola dagli anni ’70 ad oggi dal punto di vista normativo è molto cambiata, così come è cambiata la normativa sull’inclusione , in entrambi i casi in senso positivo, negli anni nelle scuole sono entrate diverse nuove figure: il docente per il sostegno, ma anche psicologi, educatori, psicomotricisti, assistenti alla comunicazione alla persona, ecc. alla cui scarsa specializzazione abbiamo spesso imputato la “debolezza” del modello di inclusione, questo può essere vero, ma perché sostanzialmente il contesto oggi è meno inclusivo di quanto lo fosse nei primi anni ’70 e perché la nostra scuola non è riuscita a stare al passo con quella del resto dell’Europa? Cosa è mancato?
E proprio scorrendo gli atti di delega che ho notato come nel nostro sistema educativo manchi una figura fondamentale: quella del Pedagogista, tanto che nella commissione di valutazione per la definizione del profilo di funzionamento prevista dall’atto di delega 378, volendo inserire una figura con competenze pedagogiche non si è potuto far di meglio che in dicare genericamente un rappresentante esperto del MIUR, nella stesura del P.E.I. gli “esperti” sono tutti di area sanitaria (neurospichiatra infantile e riabilitatori), mi si dirà, ma i pedagogisti sono i docenti, questo può essere vero nella scuola per l’infanzia e nella primaria, ma certamente non nella secondaria. In quasi nessuno dei piani di studio che hanno condotto all’insegnamento delle diverse discipline sono previsti esami di pedagogia, docimologia e didattica della disciplina (non sto parlando di crediti relativi alle tematiche della disabilità). Questo mentre la scuola dell’autonomia non è più la scuola del “programma” uguale per tutti (principio di uguaglianza), ma la scuola della progettazione di percorsi formativi “per tutti e per ciascuno” (principio di equità). Una progettazione per unità didattiche per ciascuna delle quali dovrebbero essere previsti: le metodologie, e gli strumenti didattici da utilizzare, i tempi e le modalità di valutazione formativa e sommativa da applicare, capacità di progettazione queste che possiede solo chi è esperto pedagogista e che non appartengono certo alla generalità dei docenti. Le grandi assenti dalle nostre scuole sono le scienze pedagogiche: come potrà diventare inclusivo un contesto scolastico in cui i docenti imparano ad insegnare sulla pelle dei ragazzi, di tutti i ragazzi.
Nell’atto di delega 377 sulla formazione iniziale dei docenti per la scuola secondaria si è chiesto l’acquisizione di almeno 30 CFU sulle tematiche pedagogiche riferite alla disabilità, ma come si potrà parlare con profitto di metodologie didattiche particolari a studenti che nulla sanno di pedagogia e didattica.
Infine è sicuramente lodevole aver inserito i servizi per l’infanzia (0-3 anni) nel sistema educativo , atto di delega 380, ma anche qui a sostenere le famiglie fornendo consulenza saranno, ancora una volta, figure dell’area sanitaria, pediatri, psicologi e neuropsichiatrici infantili per i quali il bambino con difficoltà diventerà un “caso” da curare, anziché essere affidato ad un pedagogista che si “prenda cura” della sua educazione ed aiuti i genitori a vivere il loro ruolo di educatori dando loro gli strumenti per educare il bambino con attenzione alla sua diversità.
Infine l’atto di delega 378 richiamando l’art. 14 della legge 328/2000, per favorire l’inclusività del territorio, prevede nella procedura per l’inclusione scolastica la redazione del Progetto individuale che, unitamente al P.E.I. sarà alla base nella definizione delle risorse per il sostegno da affidare alla scuola, ma anche in questo caso manca la figura che dovrebbe avere le competenze necessarie a tracciare un percorso educativo efficace: quella del pedagogista, ma il decreto non poteva prevederlo mancando , nel nostro paese, il riconoscimento di tale figura.
Se è vero , come è vero che ciò che garantisce il successo del processo di inclusione è il livello di inclusività del contesto, se non vogliamo che questa resti , ancora una volta, una bella affermazione è urgente il riconoscimento della figura che, capace di “prendersi cura” (non curare” i ragazzi con disabilità affiancando i genitori nei primi anni di vita non per indicare “terapie”, ma suggerire comportamenti educativi e percorsi formativi idonei a sviluppare le potenzialità del loro bambino, ma anche di fornire alla scuola e alle diverse agenzie educative del territorio il necessario supporto per la progettazione di percorsi educativi attenti ai bisogni del singolo, sia in grado di rendere i diversi contesti inclusivi, favorendo altresì il superamento dell’emergenza educativa: il pedagogista. Da diversi mesi è giacente in Senato il Disegno di legge n. 2443 già approvato alla camera che ne prevede l’istituzione, ma che sembra essersi arenato, ci attende una nuova battaglia, rendere consapevoli parlamentari di un principio sul quale abbiamo promosso il processo di inclusione quando affermavamo che la scuola che è capace di includere gli alunni più deboli è la scuola che va meglio per tutti, così dotare il nostro sistema educativo di una figura con specifiche competenze nel settore, vuol dire uscire dalla “medicalizzazione” della diversità, favorire il superamento dell’emergenza educativa, rendere la nostra scuola più efficace e inclusiva.
Luciano Paschetta
Far rinascere il sostegno, di Gianluca Rapisarda
Con il presente contributo, prendo spunto da un articolo di Giovanni Maffullo, intitolato “La rete sfilacciata dell’inclusione scolastica”, pubblicato sul Giornale Superando, lo scorso 27 Marzo.
Secondo Maffullo, infatti, la neonata delega sull’inclusione poco (se non addirittura niente) avrebbe stabilito per ovviare alle attuali gravi criticità del sistema inclusivo italiano e cioè: la scarsa e modesta formazione specifica di tutto il personale scolastico ma anche delle famiglie sulle singole disabilità e, conseguentemente, la deresponsabilizzazione degli insegnanti curricolari che, unitamente ai genitori dei ragazzi disabili, tendono a considerare i docenti specializzati dei veri e propri “tuttologi, ovvero gli unici responsabili su cui “scaricare” il processo di inclusione scolastica.
Ebbene, anche a causa di tali “lacune” dello schema di Decreto n. 378, che non mi sembrano sanate pienamente dalla mancata previsione 1) di un’adeguata formazione iniziale specifica dei futuri docenti di sostegno della secondaria di I° e II°, 2) dell’obbligo di formazione generalizzata di tutto il personale sulla Didattica inclusiva e sulla Pedagogia speciale e 3) di un’effettiva continuità didattica e di un Piano strutturale di assunzione e di stabilizzazione delle decine di migliaia di docenti specializzati “in deroga”, in un mio recente articolo uscito su queste pagine, ho definito la suddetta Delega sull’inclusione “un topolino partorito dalla montagna”.
La convinzione della “giustezza” ed appropriatezza di tale mio non lusinghiero epiteto affibbiato al D.Lgs n. 378 si è rafforzata in me in questi giorni, dopo aver ripreso, per motivi di lavoro, i dati di un’indagine scientifica che, su volontà di Luciano Paschetta, (il mio predecessore alla Direzione dell’Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione), l’I.Ri.Fo.R. dell’UICI ha condotto tre anni fa sullo stato dell’arte dell’inclusione scolastica degli allievi con disabilità visiva. Effettivamente, constato con rammarico ed amarezza che da allora non è cambiato pressoché nulla.
I risultati di quella ricerca sono stati davvero “sconfortanti” e preoccupanti e ci dicono che, a fronte di un massiccio intervento in termini di numero di ore di sostegno garantite negli ultimi anni ai ragazzi ciechi ed ipovedenti, anche con disabilità plurime, ciò non ha assolutamente prodotto un elevamento della qualità del loro processo di inclusione, anzi…
Basti pensare che, all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo, le ore medie settimanali erogate ad ogni 100 alunni disabili visivi frequentanti la scuola erano già considerevoli e cioè 1290, ma che nel 2012 tali ore per il medesimo numero di studenti è salito addirittura a 2510 (1630 svolte dai docenti per il sostegno, 420 dagli assistenti alla comunicazione e 460 dagli assistenti domiciliari), senza che tale aumento abbia favorito una loro migliore inclusione.
Le cause di tale “grave” stato di cose sono da individuare e rintracciare:
nell’insufficiente preparazione e formazione specifica sulla minorazione visiva da parte degli insegnanti specializzati e degli assistenti alla comunicazione (sempre dalla sopracitata recente indagine dell’I.Ri.Fo.R. è emerso che meno del 50% degli operatori scolastici conosce il Braille, che il 77,7% di loro non possiede competenze tiflodidattiche e tiflopedagogiche e che soltanto il 41,5% dei docenti per il sostegno e degli “assistenti” ha avuto esperienze pregresse con alunni non vedenti ed ipovedenti),
nella crescente delega al solo docente specializzato degli studenti con disabilità visiva (solo uno su quattro degli alunni minorati della vista svolge la lezione prevalentemente in classe, mentre più del 13% di essi è “emarginato” e “ghettizzato” nell’aula di sostegno),
ed infine, nell’ormai cronica “distorta” percezione da parte della stragrande maggioranza delle famiglie dei principi pedagogici e didattici dell’autentica “cultura” dell’inclusione.
Per avviare una virtuosa “controtendenza all’odierno sistema, indipendentemente dall’indifferibile riforma del sostegno, è invece necessario un “radicale” cambio di approccio e di mentalità da parte di certi genitori ed insegnanti per il sostegno, che dovrebbero smetterla finalmente di rincorrere i “totem” di un passato che faceva ritenere e per certi versi fa ancora ritenere l’insegnante specializzato (spesso poco qualificato e preparato) ed il maggior numero di ore possibile di sostegno quali uniche ed “ineccepibili” garanzie del successo formativo dei loro figli.
Non è il solo docente specializzato a garantire la qualità del sostegno, ma la scuola nel suo complesso, se ben valorizzata ed opportunamente stimolata. Solo questa “prospettiva” culturale e professionale più moderna, ancor più di mille Decreti sull’inclusione, potrà ridare dignità di ruolo e di funzione ai docenti specializzati.
Infatti, in una realtà scolastica così strutturata, il “nuovo” docente per il sostegno non dovrà né insegnare agli alunni/studenti con disabilità, né occuparsi della valutazione del loro profitto (restituendo una volta per tutte tali prerogative esclusivamente agli insegnanti curricolari), ma potrà “riqualificarsi” come esperto di progettazione, capace di supportare adeguatamente il collega titolare della disciplina, il Consiglio di classe, i Dipartimenti disciplinari, il Collegio docenti, i CTS ed i CTI ed ovviamente l’intera “rete” scolastica nella stesura, realizzazione e valutazione di un PianoAnnuale per l’Inclusività (PAI) quale premessa “imprescindibile” e parte integrante di un Piano Triennale dell’Offerta formativa finalmente “for all”.
Solo frequentando Istituti scolastici davvero inclusivi ed “autonomi”, caratterizzati da ambienti, materiali e strumenti didattici e tecnologici “accessibili”, il bambino/ragazzo con disabilità non sarà più soltanto l’alunno di questo o quel docente per il sostegno, ma della “scuola tutta”, potendo partecipare in condizioni di pari opportunità insieme ai compagni ad attività integrative e laboratoriali scolastiche ed extrascolastiche, a percorsi personalizzati ed individualizzati di insegnamento-apprendimento, per classi aperte e parallele, per gruppi omogenei ed eterogenei, a materie facoltative, aggiuntive ed opzionali, a stage efficaci di alternanza scuola-lavoro ecc…
Da questo punto di vista, oltre a recepire le necessarie modifiche allo Schema di Decreto n. 378 suggerite dalla FAND e dalla FISH, dovrà essere particolare cura del Ministero mettere finalmente tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado nelle reali condizioni di sfruttare al meglio tutti gli strumenti che la normativa già esistente sul sostegno e sull’autonomia (fino alla recentissima e criticatissima Buona Scuola) loro consente, per implementare e migliorare la qualità del processo di inclusione scolastica dei ragazzi con disabilità, creando strutture organizzative flessibili e più confacenti alle effettive esigenze formative dei diversi alunni e utilizzando in modo funzionale l’organico potenziato per la progettazione e la realizzazione di una didattica autenticamente all’insegna dell’”UDL” (Universal Design for Learning).
Come d’incanto, in siffatto modo, la scuola si riscoprirà finalmente un’istituzione “inclusiva” ed attenta alle “differenze” individuali e capace di offrire risposte efficaci ed efficienti ai bisogni educativi di tutti e di ciascuno.
L’attenzione alle “differenze individuali” di ciascun alunno da parte di tutta la “comunità scolastica” e non solo del docente di sostegno per le necessità speciali degli allievi disabili: è questa la vera “discriminante”, lo spartiacque tra la vecchia dimensione “integrativa” della scuola italiana e la nuova cultura dell’inclusione “for all”.
Riforma del sostegno: Le Commissioni Cultura ed Affari Sociali licenziano il Testo, di Gianluca Rapisarda
E’ in arrivo una delle deleghe attuative della legge 107/2015, una delle più tecniche e delicate, quella che riguarda l’inclusione degli alunni/studenti con disabilità. Dopo che le associazioni, nei mesi scorsi, avevano denunciato criticità e richiesto alcuni cambiamenti, le commissioni Cultura e Affari Sociali hanno licenziato un testo «che a detta delle relatrici On. Simona Malpezzi e On. Eleonora Carnevali “mira a costruire una scuola il più inclusiva possibile».
Tante le modifiche proposte. Riguardano, tra l’altro, la procedura per il riconoscimento della disabilità, il funzionamento dei gruppi territoriali per l’inclusione, il meccanismo per l’attribuzione dell’organico di sostegno alle scuole. Ma, soprattutto, si rimette al centro la famiglia, che partecipa a tutte le fasi: dalla formulazione del profilo di funzionamento dell’alunno (che sostituisce la valutazione diagnostica funzionale, come chiesto dalle associazioni, ndr), alla quantificazione delle risorse da assegnare. Su richiesta delle famiglie, poi, il Piano educativo individualizzato (Pei) entra a far parte del profilo di funzionamento».
Passa inoltre, per quanto riguarda lo schema di decreto n. 377 (formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria), la richiesta delle associazioni di una reale formazione iniziale sulle didattiche inclusive per tutto il personale scolastico e di una formazione specifica per gli insegnanti di sostegno: che dovranno cumulare 60 crediti formativi universitari relativi alle didattiche dell’inclusione, oltre a quelli già previsti dal corso di laurea. I crediti «specifici» saranno in tutto 120: 60 prima della frequenza del corso di specializzazione, altri 60 durante.
Apprezziamo tanto la disponibilità e l’apertura mostrata dalle Commissioni parlamentari Cultura ed Affari Sociali sulla formazione iniziale specifica sulle singole disabilità, dei futuri docenti per il sostegno e sulla formazione in servizio sulla didattica inclusiva e sulla pedagogia speciale di tutto il personale scolastico prevista nel neonato Decreto sull’inclusione, purché si faccia veramente loro obbligo di osservarla.
A tal proposito, il recente “Piano Triennale di Formazione Obbligatorio” per i docenti curricolari e di sostegno in servizio mi sembra un ottimo strumento e una preziosa opportunità da cogliere da parte di tutte le Istituzioni scolastiche. La Formazione estesa a tutto il contesto, infatti, potrebbe finalmente ridurre e contenere il più triste e perverso fenomeno dell’attuale modello dell’inclusione scolastica del nostro Paese e cioè la delega al solo docente specializzato dell’alunno/studente con disabilità, con la conseguente emarginazione e ghettizzazione di quest’ultimo nella famigerata “aula di sostegno”.
Valuto pure molto positivamente il mantenimento delle classi con allievi con disabilità ad un numero massimo di 20 alunni. Tale fondamentale disposizione del Decreto, frutto del gran lavoro di squadra e di sinergica condivisione svolto dalla FAND e dalla FISH, infatti, recepisce quanto già previsto dagli art n. 4 e 5 del DPR 81 del 2009 e contrasta il proliferare delle “classi pollaio”, davvero deleterie per gli studenti disabili.
E per garantire la continuità didattica, gli insegnanti di sostegno non potranno più passare automaticamente, solo facendo domanda, a insegnare una materia, ma dovranno sostenere esami specifici. Questo eviterà lo svuotamento delle graduatorie per il sostegno. I contratti a tempo determinato potranno poi essere reiterati «il più possibile», in caso di fruttuoso rapporto docente-alunno.
Però, a parere di chi scrive, sulla continuità didattica, qualche ombra rimane, e cioè che il neonato Decreto non prevede nulla per contrastare il fatto che più del 40% degli attuali docenti per il sostegno sono supplenti e hanno incarichi precari “in deroga”. Per ovviare bisognerebbe rivedere i criteri degli organici dei docenti specializzati, che dovrebbero poter transitare dal presente organico di fatto a quello di diritto delle scuole e prevedere un serio e strutturale Piano di assunzione attraverso appositi Concorsi.
A mio avviso, un’altra importante criticità del Testo licenziato dalle Commissioni parlamentari è il mancato riferimento esplicito all’art 24 della Convenzione Onu del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, che invita a considerare finalmente il diritto all’istruzione come un insopprimibile diritto umano da garantire a qualsiasi cittadino, a prescindere dalla sua limitazione funzionale, e non un semplice e “generico” diritto da tutelare.
Tale grave “vulnus”, infatti, non promuove quel «cambio di mentalità e di approccio” tanto auspicato dalle Associazioni di e per persone con disabilità, che consentirebbe di passare una volta per tutte dalla vecchia dimensione “integrativa” alla nuova prospettiva culturale dell’inclusione.
Riformare il sostegno e non rendere il contesto inclusivo non serve, di Gianluca Rapisarda
Lo scorso 10 Marzo, si è concluso presso le Commissioni parlamentari Cultura ed Affari sociali il dibattito sullo schema di Decreto per la promozione dell’inclusione scolastica (atto del Governo n. 378).
Il mio auspicio è che alle recenti belle parole di “apertura” ed ai “buoni propositi” della Ministra Fedeli seguano ora anche fatti concreti a favore della qualità del processo di inclusione degli alunni/studenti con disabilità del nostro Paese.
Ma la domanda che mi “frulla” in testa costantemente in questi giorni, arrovellandomi, è la seguente: “Fino a che punto ha senso riformare il sostegno se poi, come quasi sempre avviene in Italia, le nostre tante ed “innovative” leggi (e quelle sull’inclusione scolastica ne sono una prova “tangibile”) non si traducono in “buone prassi” e non hanno una ricaduta concreta e positiva sull’intero “sistema”?.
A scanso di equivoci, voglio subito precisare, che chi scrive è un “convinto” assertore e fautore della necessità di riformare l’attuale modello del sostegno italiano, come d’altronde più volte scritto anche sulle pagine di questo giornale. Tuttavia, ho il timore che, stanti così le cose, dalla lettura approfondita che tutte le Associazioni di e per persone con disabilità abbiamo finora fatto del suddetto “schema di Decreto n. 378”, la tanto decantata Delega sull’inclusione della Buona Scuola si riveli un semplice “topolino partorito dalla montagna”, ovvero una “leggina” assolutamente priva di una visione organica, strategica, di “sistema”.
Con tutto il rispetto per gli “estensori” del neonato D.Lgs n. 378, non mi pare però che esso si prefigga il “nobile” scopo di debellare le attuali “distorsioni” del sistema “inclusivo” italiano e cioè, l’insufficiente formazione generale e specifica dei docenti curricolari e per il sostegno e di tutto il personale scolastico sulle singole disabilità, la scarsa continuità didattica ed, in particolare, la crescente “delega” al solo docente specializzato dell’allievo con disabilità, con la sua conseguente emarginazione nelle cosiddette “aule di sostegno”.
Ragionare ancora in termini di disabilità come legata indissolubilmente alla persona con disabilità e non ispirarsi alla sua nuova visione più “dinamica” introdotta dalla ICF dell’OMS nel 2000, continuare a parlare genericamente di “tutela del diritto allo studio” e non di diritto all’istruzione come “insopprimibile” diritto umano da garantire ad ogni cittadino, a prescindere dalla sua limitazione funzionale, come previsto dall’art 24 della Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità e, soprattutto, considerare l’inclusione ancora come un mezzo per mettere dentro chi prima ne era escluso o che rischia l’esclusione e non invece come un “ineludibile” strumento per rendere il “contesto” finalmente accogliente e “for all”: sono queste, a parere di chi scrive, le più madornali e “sesquipedali” sviste e criticità dello “schema di Decreto n. 378” di cui sopra.
Non serve modificare i nomi od inventarsene di nuovi, ogni qualvolta si vara una riforma della scuola. Quello che serve oggi per assicurare un efficace ed efficiente modello di inclusione nel nostro Paese è invece un “radicale” cambio di mentalità e di approccio, sì da comprendere una volta per tutte che non è il solo insegnante specializzato a garantire la qualità del sostegno, ma è la “scuola tutta”, un contesto davvero “inclusivo” che può favorire il successo formativo di tutti e di ciascun alunno.
Da operatore della scuola che si è sempre battuto per un vero ed efficace processo di inclusione degli alunni/studenti con disabilità, sono stanco di sentire dire e “proclamare” anche nei più autorevoli convegni che la Didattica inclusiva è un tema che concerne soltanto una particolare e determinata categoria di allievi (quelli disabili per intenderci).
Essa, al contrario, può e deve essere riferita più giustamente all’intera popolazione “studentesca”, a tutto il personale scolastico e, pertanto, al “contesto”, per poter dare risposte efficaci ed efficienti ai bisogni educativi di tutti e di ciascuno, nella normalità e finalmente senza alcun “sostegno”.
Riappropriamoci e ritroviamo dunque lo spirito più genuino ed autentico della cultura dell’inclusione, così come brillantemente enunciata dalla Convenzione ONU del 2006 e ratificata dal nostro Paese dalla legge 18 del 2009, per rendere il contesto davvero “inclusivo” e per modificare i presupposti dell’intera nostra organizzazione scolastica.
Più di quarant’anni non sono bastati per eliminare la parola inclusione, di Luciano Paschetta
Ho letto con interesse l’articolo di Rosa Mauro “Inclusione? No, scuola di tutti” anche perché il mio unico libro scritto sull’argomento nel 1975, sulla scorta della mia esperienza di consulenza ai primi “inserimenti” di alunni con disabilità visiva nelle scuole torinesi, assieme alla compianta amica prof.sa Giuliana Oberto, una insegnante di lettere di scuola media che aveva avuto in classe in via sperimentale un cieco totale, (ovviamente senza insegnante di sostegno), l’avevamo proprio intitolato: “Handicap e scuola, il bambino cieco nella scuola di tutti”. A quel nostro libro si affiancò quello dell’amico il prof. Oscar Shindler, un audiologo che aveva seguito i primi inserimenti di sordi nelle scuole della città: “Handicap e scuola il bambino sordo nella scuola di tutti”.
Ciò significa che noi , antesignani dell’inclusione, pensavamo a una scuola per tutti, e a questa nostra idea si ispirò il legislatore. Quando nel 1977 fu approvata la 517, la salutammo con favore proprio perché anteponeva e subordinava il lavoro dell’insegnante per il sostegno alla classe , all’adeguamento del contesto attraverso una nuova didattica inclusiva, di qui la previsione, della stessa legge, di un rapporto docente per il sostegno/alunno con disabilità di solo 1/4. Pensavamo e scrivevamo che egli era come la “cartina di tornasole” che indicava che la didattica applicata andava adeguata per poter “integrare” ( questo è un termine d’”epoca”) i più deboli, scrivevamo anche che l’alunno con handicap (questa la terminologia di allora) era “una risorsa” per la classe, proprio perché la sua presenza avrebbe dovuto motivare i docenti al cambiamento verso una scuola per tutti. Il resto è storia, una storia, che come ho avuto modo, in questi ultimi tempi, di denunciare e scrivere in diverse occasioni, a preso un’altra strada puntando tutto sul docente per il sostegno, lasciando pressoché immutato il contesto. Una storia dove l’università, in questi 40 anni, nei percorsi di laurea che portano all’insegnamento delle diverse discipline nella scuola secondaria, non solo ha ignorato ed ignora quasi del tutto i problemi legati all’insegnamento agli alunni con disabilità, ma che non ha neanche sentito la necessità di inserire, tranne sporadiche eccezioni, crediti di pedagogia e didattica della disciplina, quasi che l’insegnare sia una scienza infusa. Una storia che, mentre si chiudevano le scuole speciali, ha visto nascere presso diverse università le cattedre di pedagogia speciale, come che vi fosse una pedagogia che si occupa solo dell’educazione dei bambini senza problemi ed una pedagogia “altra” per chi perfetto non è. Una storia che ha registrato la progressiva delega dell’insegnamento agli alunni con disabilità al docente per il sostegno e, conseguentemente, reclamare sempre più ore di sostegno e come garanzia della continuità didattica la presenza del medesimo docente per il sostegno per l’intero ciclo di scuola del ragazzo. Una storia che ha registrato la richiesta alle scuole del P.A.I. di (Piano annuale per l’inclusione), a fianco del P.T.O.F. (Piano triennale dell’offerta formativa) e del P.A. (Piano annuale), documenti questi già richiesti in precedenza, quasi che vi sia una scuola per gli alunni “inclusi” ed una per gli altri. Una storia nel corso della quale sono cambiati i termini “inserimento” prima, “integrazione” poi ed ora “inclusione”, con i quali si definisce l’apertura delle scuole alla frequenza degli alunni con disabilità, ma dove non sono bastati più di quarant’anni per cambiare di pari passo la scuola facendola diventare la scuola che , non solo iscrive tutti quelli che glielo chiedono , ma sappia veramente essere la “scuola di tutti” sul piano reale della didattica e non solo sul piano formale della norma e che mettendo al centro del dialogo educativo l’alunno, diventi capace di offrire agli alunni condisabilità pari opportunità di apprendimento (non sempre è possibile dare pari apprendimenti e pari opportunità di relazione e socializzazione.
E’ “sotto il peso” di questa storia che in questi giorni assistiamo ad un gran fermento attorno ai decreti di delega della legge 107/15, dove, ancora una volta, anziché porre l’attenzione allo sviluppo di un “contesto” quale vero garante di una scuola per tutti e per ciascuno, lasciatemelo dire, mi sembra ci si ispiri piuttosto al famoso detto del Gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”, così noi continuiamo a proclamare la “scuola di tutti” ma a parlare di “inclusione”.
Luciano Paschetta
Comunicato stampa Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli
Roma, 9 febbraio 2017
Scuola, Fedeli: “Miglioreremo decreto su inclusione scolastica. Studentesse e studenti con disabilità devono avere pari opportunità formative”
“Tutte le studentesse e gli studenti con disabilità saranno messi nelle condizioni di svolgere al meglio il proprio percorso di studi e di concluderlo sostenendo prove che attestino le loro specifiche competenze e abilità, in base al Piano educativo individualizzato, predisposto di proposito per loro”.
Così la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Valeria Fedeli risponde alle preoccupazioni espresse da famiglie, organizzazioni sindacali e associazioni che si occupano di disabilità in merito ad alcune disposizioni contenute nel decreto attuativo della Buona Scuola sull’inclusione scolastica. Con particolare riferimento agli esami conclusivi del primo grado.
“Voglio rassicurare– aggiunge Fedeli – famiglie, sindacati e associazioni. Il decreto attuativo sull’inclusione scolastica nasce dalla volontà e dalla determinazione di dare alle ragazze e ai ragazzi con disabilità pari opportunità formative e una qualità della vita all’altezza delle loro esigenze e dei loro sogni. Per questo le imprecisioni o le problematiche emerse verranno migliorate in ambito parlamentare. Abbiamo chiaro che la disabilità è ricchezza, non è qualcosa in meno ma una positiva diversità e la nostra azione sarà improntata su questo principio cardine”.
Nei giorni scorsi la Ministra Fedeli ha incontrato diversi rappresentanti delle associazioni per ascoltare le loro istanze e gli stessi sono stati ascoltati nelle Commissioni che stanno esaminando il decreto in Parlamento e nell’Osservatorio sull’inclusione del Miur. “Rispetto all’esame di secondaria di primo grado – aggiunge la Ministra – la stessa legge 104 del 1992 stabilisce chiaramente che le studentesse e gli studenti della scuola dell’obbligo debbano essere verificati in base agli obiettivi del Piano educativo individualizzato, affinché si possa ragionare sulle abilità specifiche sviluppate e potenziate durante gli anni di studio. Continueremo su questa strada e rafforzeremo una scuola di diritti e di opportunità che metta al centro le ragazze e i ragazzi, le loro peculiarità e il loro desiderio di futuro. Vogliamo costruire per loro una scuola che li accompagni nel domani. E una società che li
accolga e faccia della loro diversità un’occasione di crescita globale”.
Sostegno: continuità didattica tra ambiguità e irrealtà, di Luciano Paschetta
In questi giorni di intenso dibattito sui decreti delega della legge 107, tra gli altri argomenti , si è scritto molto anche sulla necessità di garantire la continuità del sostegno agli alunni con disabilità, cosa questa del tutto condivisibile purché si faccia chiarezza sul come si intende garantirla. Ho già avuto modo di scrivere in più occasioni che garante dell’inclusione non è il docente per il sostegno, ma il contesto, ovverossia: una classe i cui docenti titolari si facciano carico dell’insegnamento anche all’alunno con disabilità ed una scuola che sappia accoglierlo garantendogli pari opportunità di apprendimento, di accessibilità agli ambienti ed al materiale didattico ed alle opportunità di socializzazione. Opinioni queste ampiamente condivise da articoli di altri amici.
Viceversa in questi giorni abbiamo visto chiedere a garanzia della continuità didattica la permanenza del docente per il sostegno per l’intera durata del corso di studi dell’alunno. Una posizione questa ambigua sul piano pedagogico perché se è vero, come è vero, che garanzia dell’inclusione è un contesto che sappia interagire sul piano didattico e relazionale con l’alunno con disabilità, la permanenza dello stesso insegnante per il sostegno è indubbiamente cosa importante, ma non lo è meno la continuità dei maestri e dei professori titolari ai quali è dato il compito di insegnare anche a lui. L’inclusività è data da: un piano triennale dell’offerta formativa che dia linee guida, per una scuola per tutti e per ciascuno che, come tale, favorisca la partecipazione degli alunni con disabilità al dialogo didattico, , dal quale discenda un piano annuale per l’inclusione che individui strategie , metodologie ed una organizzazione delle attività didattiche capaci di rispondere ai loro “bisogni di apprendimento “ ed al quale possano far riferimento i consigli di classe interessati per sviluppare P.I. inclusivi alla cui progettazione collaboreranno tutti i docenti e la famiglia ed al quale si atterranno tutti i docenti , sia pur con la collaborazione del docente per il sostegno nell’attività didattica quotidiana.
Viceversa richiedere la permanenza del solo docente per il sostegno sull’alunno significa perpetuare un concetto errato: quello che questi sia il “docente dell’alunno disabile”, cosa questa che fanno le famiglie quando si limitano a rivendicare l’aumento delle sue ore.
Sarebbe già più coerente con la normativa chiedere la permanenza per un certo periodo dello stesso docente per il sostegno “sulla classe/scuola. Queste richieste, al di là delle valutazioni didattico-pedagogiche, sono comunque irrealizzabili sul piano pratico e nel contesto normativo che regola lo stato giuridico del personale docente. Legare il periodo di permanenza in una determinata sede al numero degli anni del ciclo scolastico frequentato dall’alunno disabile concretamente sarebbe realizzabile solo nel caso di rapporto 1/1 , diversamente, se, ad esempio, al momento dell’assegnazione della sede al docente gli verrà affidato un alunno di prima e uno di quarta, quando quello di quarta terminerà, lui riprenderà uno di prima e per altri cinque anni non potrebbe di nuovo cambiare sede, e così via.
Tuttavia al di là di questi “tecnicismi” il richiedere una permanenza sulla sede del docente per il sostegno per un tempo diverso da quello dei colleghi è improponibile poiché la mobilità del personale è normata da regole precise che riguardano tutti i docenti (e non potrebbe essere diversamente).
Per avere continuità occorre avere stabilità dell’organico di tutti i docenti di una determinata scuola , per questo noi avevamo accolto con favore l’obbligo di permanenza triennale nello stesso ambito territoriale , come un primo passo verso una maggior stabilità dei docenti sulle classi.
Luciano Paschetta