Blind walk (la città negata), di Peppino Re

Così, in una insolita torrida serata della scorsa primavera berlinese, mentre gli schiamazzi dei miei due marmocchi si stemperavano nelle ponderate parole gentili pronunciate dalla giovane piccola donna di casa preoccupata per la verifica sui congiuntivi della mattina successiva, la discussione quasi spontaneamente prese la direzione di una riflessione sulla natura dei sogni…
Così Elena Agudio, storica dell’arte introduce il progetto curato dai suoi amici artisti Nicola Pellegrini e Ottonella Mocellin, in una primavera berlinese.
Ma ora ci addentriamo, quasi in estate, nella città di Palermo che quest’anno vive il sogno di essere per un anno “capitale della Cultura”. Ci addentriamo in piazza Maggione e ci spostiamo verso l’ingresso del Teatro Garibaldi, in uno stand della collezione “manifesta”, (quattordici-diciassette di giugno)una rassegna di progetti e di interpretazioni dell’essere di questa città, fra il cuore grande di ascendenza arabo-normanna, e il cuore piccolo di una mafia che spara e che induce alla fuga il proprietario della “antica focacceria s. Francesco. In questo stand, ci sono in piedi  Riccardo e Filippa, Nicola e Ottonella, insieme ai due personaggi che hanno interpretato nel progetto con cui si sono presentati alla mostra e spiegano al pubblico.
Quella sera di questa appena trascorsa primavera berlinese,riprende Elena Agudio, Ottonella, Nicola ed io ci siamo ritrovati a paragonare la figura del sognatore a quella dell’equilibrista:
Il funambolo.
E continua: Così Ottonella e Nicola mi hanno raccontato della loro collaborazione ultra decennale con Santo Graziano e Peppino Re, due amici ciechi dalla nascita. Con loro Mocellin e Pellegrini da circa 12 anni hanno iniziato una alquanto insolita e interessantemente delicata corrispondenza:
una serie di dialoghi e interviste, un diario che raccoglie i racconti dei sogni fatti dai due amici, la peculiarità di una percezione del mondo fatta di immagini non visive, e la qualità della loro materia onirica.
In che modo i sogni di un cieco dalla nascita possono essere popolati di immagini, dunque?
Blind Walk (La Città Negata) è un percorso che Mocellin e Pellegrini hanno pensato esattamente per accompagnarci in questo tipo di esperienza; un esperimento percettivo, poetico e concettuale per aiutarci ad abbandonare la nostra pregiudiziale conoscenza dello spazio e del mondo.
A Palermo, questi interrogativi hanno ora prodotto un itinerario sonoro in cui i due artisti, dal ginepraio di vissuti esposti da noi hanno tratto un testo che finiscono per interpretare sognando, chissà, un colloquio diretto col cuore, capace di saltare le mediazioni.
Ai visitatori incuriositi i due ragazzi presentano la ipotesi di una scena: un percorso da fare, in cuffia, seguendo una mappa ben delineata, visibile connettendosi con il proprio cellulare con il sito “mocellinpellegrini.net”,ascoltando le voci che ti narrano le vicende di due persone che non hanno avuto la vista. Gli interlocutori ci provano, indossano la cuffia, si collegano al sito per trovare la mappa e il testo e partono. Qualcuno dice, ad occhi chiusi, ma non potrà mai essere vero se non vogliono finire vittime degli ostacoli, e così vanno per ballarò, il vecchio mercato, passano da via torino, scavalcano altre traiettorie del pensionato universitario; intanto le voci gli parlano e prendono il corpo di due vicende difficili, in cui devi costruirti le immagini, che non corrispondono sotto le dita a quelle visive, agli spazi che sono tutti da riconoscere a seconda della durezza del terreno, degli odori o maliodori, dei rumori e delle voci che fanno da sonoro; mentre il mondo ti etichetta diverso e finisce per darti più problemi di quelli che ti risolve, con le sue chiusure, con le sue brutture, con i suoi pregiudizi, rendendoti pesanti da vivere perfino i sentimenti, in particolare quelli più forti di amore.
Il ritorno ti dà persone emozionate, meravigliate, forse sconvolte, un poco incredule, e, vedendo gli attori, e poi i personaggi della recitazione, chiedono precisazioni, chiarimenti, attestati di verità, come se.. fossero stati in sogno… “Santo e Peppino”.
Ma, per noi quattro l’enigma non si scioglie e per farlo ascoltiamo altre voci, altri confronti… E allora chissà… ci viene in mente, ci immaginiamo  che queste persone possano aver vissuto uno sgomento indecodificabile… Con quella cuffia inforcata, con quei passi da itinerario, con quelle voci seducenti e persuasive, hanno finito con l’entrare nel mondo dei due protagonisti. Camminando sì, ma seguendo quelle voci, vanno cadendo e spariscono i grandi palazzoni della città, i grandi cartelloni pubblicitari, perfino i cumuli di immondizie sistemati nelle strade, e ti appare un mondo sospeso, nel quale, con fatica, devi trovare la tua strada, col tatto coi piedi, col naso, col cuore. Ti appare un altro mondo, senza il frainteso dei rivestimenti,più intimo ma meno squillante. E poi dalla propria fragilità, terribile, la paura… loro ce l’hanno fatta, e io? Per cui il bisogno di riedificare in fretta . i palazzoni, di risistemare i cartelloni, perfino di riporre alla rinfusa i cumuli di spazzatura.
Ma sarà poi così? Ci interroghiamo sorridenti, in cerca di altre prove. Ma poi ci accorgiamo che sono in fondo suggestioni, e che, al più presto saranno sostituite da altre immagini vere e luccicanti.
Peppino Re

Ciao Pino, di Mario Mirabile

Sono passati ormai 8 giorni da quando l’amico Pino Bilotti, già componente della Direzione Nazionale, ci ha lasciato. Certamente quello che sto per scrivere a molti sembrerà banale e retorico, ma sento il dovere di ringraziare Pino per il lavoro svolto e per quanto mi ha insegnato. Infatti dal 2007 al 2010, ho avuto la fortuna di essere il coordinatore del comitato nazionale giovani con lui che era il referente della Direzione nazionale; il nostro rapporto non è stato sempre idilliaco, più volte abbiamo discusso perché avevamo opinioni diverse, ma trovavamo sempre il punto d’incontro. Pino era fermamente convinto dell’importanza che i giovani hanno per la nostra Associazione e di quanto bisogna fare per avvicinarli, convincerli e formarli per far sì che ne diventino il vero motore pulsante. Forse in quegli anni non siamo riusciti a realizzare molto, erano anni in cui si riducevano tantissimo i momenti di incontro a causa della diminuzione delle risorse, ma insieme ce l’abbiamo messa tutta per raggiungere gli obiettivi che stabilivamo. Non avendo saputo dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, non sono riuscito a salutarlo, ma ci tengo comunque a farlo adesso: Ciao Pino!

Una più grande quota associativa che potrebbe fare più piccola l’Unione, di Carlo Carletti

Perduta la vista in giovane età, l’Unione mi ha Sostenuto e indirizzato nella formazione professionale, nella conquista del lavoro, della pensione e dell’indennità di accompagno, facendomi conseguire e vivere una vita dignitosa. Pertanto attribuisco alla tessera dell’Associazione, indipendentemente dal costo, un immenso valore. Coloro che, come il sottoscritto, si sono formati negli Istituti, nelle attività dell’Unione o che hanno usufruito di altre particolari situazioni positive, conseguendo titoli di studio, professionalità, lavoro, ecc., Sono ormai una componente minoritaria nell’Associazione, destinata a diminuire ulteriormente con il passare del tempo, in quanto i giovani, fortunatamente, sono sempre meno e, purtroppo, anche meno attivi nell’associazione. Noi, ex giovani, abbiamo costruito la nostra esistenza, imparando, fin da subito, a convivere con la nostra disabilità visiva, sostenuti dalla fondamentale presenza dell’Unione, che, avendola conosciuta, la pratichiamo, e quasi tutti la dirigiamo e la rappresentiamo a vario livello. Attualmente, invece, le persone che perdono la vista in età avanzata, non conoscono la storia, le sofferenze, le lotte, le faticose conquiste del movimento dei ciechi. Molte di queste persone, con la perdita della vista, se non ricevono un adeguato sostegno psicologico e pratico all’insorgere dell’handicap, sono destinate a vivere una condizione di solitudine con conseguente stato depressivo senza possibile recupero. I problemi connessi alla cecità in queste persone determinano effetti molto diversi, rispetto a quelli prodotti su di noi che ci abbiamo convissuto fin dalla nascita o dalla giovane età, al punto che, può risultarne complicato anche l’approccio. Infatti, queste persone presentano problematiche così diverse e complesse, che se non adeguatamente studiate e comprese, difficilmente si potranno contenere all’interno dell’attuale Unione. I Dirigenti delle Sezioni, fanno sicuramente il possibile per contattarne il maggior numero, per far emergere in loro i bisogni latenti, dei quali, spesso non ne hanno nemmeno consapevolezza. L’impresa è davvero difficile e impari rispetto alle nostre forze, tanto è vero che il numero degli iscritti all’associazione risulta essere ridotto al solo circa il 25% di quelli assistiti dall’INPS. L’Unione è presente, con le sue scarse potenzialità organizzative e le inadeguate professionalità, quasi sempre soltanto nelle città capoluogo di Provincia dove organizza alcune attività, dalle quali restano di fatto escluse le persone con disabilita visiva che vivono nei comuni periferici. Con queste persone, che risiedono lontano dalla Sede dell’Unione gli incontri sono più rari. Avvengono soltanto con i pochi che hanno una qualche motivazione e aspettativa e non con coloro che sono più fragili, chiusi nelle loro case, che ne avrebbero maggior bisogno. Al cospetto di persone prive di aspettative e bisogni, è necessario valutare tutto, anche l’impatto del costo della quota associativa che, con l’aumento, è più alto di quello praticato dai sindacati, che applicano la percentuale del 0,50%. Va inoltre tenuto presente che la richiesta della quota da parte dell’UICI, giunge all’interessato, dopo che ha espletato la pratica di pensione ed ha già pagato altra tessera al sindacato promotore del Patronato e del Caf, presenti in tutti i Comuni, dove si recherà anche per il 730, per l’ISEE, ecc. Queste persone, non possiedono alcun elemento per associare l’indennità di accompagno , all’azione dell’Unione che non conoscono o che hanno appena conosciuto. Penso all’imbarazzo dei dirigenti periferici nel dover proporre la nuova quota a queste persone, alle quali l’attuale Unione ben poco può offrire. La quota di ingresso di 18 €, per il primo anno, appare un espediente per acquisire un socio, che inevitabilmente andrà perso. La notizia dell’aumento della quota già circola fra i soci più informati e mi sono già stati annunciati diversi propositi di non rinnovarla, ma penso che il numero potrebbe aumentare quando la Direzione Nazionale che è in possesso degli indirizzi dei soci anche delegati, correttamente provvederà a comunicare e motivare a tutti l’aumento. La cosa appare più preoccupante per il futuro, in quanto vi sarà un imprecisato minor numero di nuovi iscritti, che già non sempre compensano i decessi. Pertanto l’aumento deciso, non apporterà alcun significativo vantaggio economico all’Associazione, che invece ne perderà in rappresentatività. Già il numero dei soci partecipanti alle assemblee è molto limitato, offrendo anche questo ulteriore elemento, potremmo consolarci col dire che saremo pochi, ma saremo quelli buoni. Penso che l’Unione, per onorare quella legge che gli affida la rappresentatività e la tutela di tutti i cittadini ciechi, avrebbe potuto inventarsi una tessera ad un costo medio, poco più che simbolico, da inviare a tutti gli, assistiti dall’INPS, insieme ad un conto corrente e una nota illustrativa delle ragioni d’essere dell’Associazione, quale sicuro riferimento per le persone con disabilità visiva. Una comunicazione mirata, sicuramente utile anche al contesto familiare, con possibili ritorni economici. Penso, che l’aumento della quota associativa adottato senza fornire convincenti motivazioni, derivi dal modo diverso di concepire l’Associazione da parte di Dirigenti che svolgono ruoli in organi dell’Unione, che non hanno il diretto rapporto con i disabili visivi e non hanno compiutamente valutato la mutata e maggioritaria realtà sociale afferente la cecità, realtà con la quale invece i dirigenti Sezionali devono confrontarsi ogni giorno e che solo su di loro ricade l’onere di doverlo applicare. Penso che sia stata una decisione inopportuna, nella quale si può leggere, anche un possibile, involontario disconoscimento del sempre più difficile e complicato ruolo dei Dirigenti Sezionali, che non giova all’Unione, la quale per conservare credibile la propria rappresentatività, dovrebbe conseguire il più alto numero di soci, promuovendo una tipologia di tesseramento appropriato alla nuova realtà sociale dei cittadini con disabilità visiva.

Accompagnamento Salone Internazionale del Libro di Torino 2018, di Marco Farina

E’ la prima volta che scrivo qui ma cercherò di essere breve e conciso. Mi chiamo Marco Farina e son socio U.I.C.I. di Sassari e vorrei ringraziare i presidenti ed i vari collaboratori di Sassari, Genova e Torino in modo particolare il volontario del servizio civile ordinario Simone, nonché le referenti del servizio volontari Sabrina di Genova e Enza di Torino perché mi hanno permesso di partecipare attivamente come autore del libro “Il sole splende per tutti” al Salone di Torino nello stand s76 della casa editrice Europa edizioni, sita nel terzo padiglione fiera a Torino Lingotto. Porterò nel cuore le sensazioni suscitatemi da questa esperienza ma ho creduto opportuno farvene partecipi perché è la dimostrazione plastica del motto Volere è Potere e del significato del lavoro di squadra. Uniti si può.
Saluti
Marco Farina da Sassari

Annuncio, di Matteo Tiraboschi

Autore: Matteo Tiraboschi

Ciao a tutti, sono Matteo Tiraboschi e insieme all’amico Gabriele, ho creato un gruppo aperto su WhatsApp. Lo scopo è quello di far conoscere e magari anche risolvere alcune problematiche che ci toccano nella vita quotidiana. Il gruppo si chiama: Risolviamo. Potete contattarmi tramite la mia pagina Fb, visitando il sito internet www.matteotiraboschi.org oppure direttamente tramite WhatsApp al mio numero 3385092651. Grazie.

Aumento della quota associativa: ma è davvero una buona idea? di Mario Mirabile

Autore: Mario Mirabile

Come è noto, il Consiglio Nazionale, nell’ultima riunione, ha deliberato l’aumento della quota associativa da €.49,58 a €.72,00, la cui entrata in vigore è prevista per il prossimo anno.
In queste poche righe, non intendo criticare la scelta del Consiglio Nazionale, bensì stimolare un dibattito che, su un argomento così importante, credo debba coinvolgere soprattutto le strutture territoriali che quotidianamente hanno il contatto con i soci e, più in generale, con i disabili visivi sui relativi territori.
Se, in linea di principio si può dire che un aumento del 45% della quota associativa si giustifica per un blocco ventennale della cifra, altrettanto si può dire, a mio modesto parere, che l’aumento non si giustifica se si considera la situazione in cui versa il nostro paese e, più in generale, la società in cui viviamo.
Da tutte le riunioni, da tutti i dibattiti sulle varie mailing list e sui social si evince che è sempre più complicato avvicinare i giovani all’Unione; si sa che è sempre più complesso avere dati dall’INPS e dalle commissioni preposte all’accertamento delle invalidità; gli Istituti per ciechi, ove ancora funzionanti, non ricoprono più il ruolo di una volta; le professioni tradizionali dei ciechi stanno sempre più cedendo il passo a nuove prospettive occupazionali, quando va bene, ma soprattutto al precariato, alla disoccupazione e alla emarginazione dei ciechi. Combattiamo quotidianamente a far comprendere ai rappresentanti delle Istituzioni a tutti i livelli che il nostro sodalizio non può essere considerato alla stregua di piccole realtà associative territoriali e settoriali e che la disabilità visiva è una disabilità complessa e diversa rispetto alle altre e per questo necessita di interventi specifici. A tutto ciò dobbiamo aggiungere che stiamo vivendo una stagione politica del tutto nuova, complessa, ignota e comunque diversa da quella precedente, o quanto meno con attori diversi con cui dobbiamo iniziare ad interloquire.
Per farla breve, credo che non ci possiamo permettere il lusso di perdere neanche un socio, anzi dobbiamo essere in grado di diventare un punto di riferimento imprescindibile anche per quei ciechi che fino ad ora hanno snobbato l’Unione.
Per far ciò, non credo che possiamo partire da un aumento così drastico della quota associativa; a mio modesto parere, la quota di €.72,00 può essere raggiunta, ma a seguito di un processo graduale che duri 4/5 anni e, comunque, con una campagna di comunicazione che non pregiudichi il rapporto quotidiano tra il socio e la struttura territoriale.

Spero davvero che su un argomento così importante e su decisioni così strategiche per il futuro della nostra associazione si possa sviluppare una vera discussione.

Ciao Enzo: luce di un cammino, di Massimo Vita

Autore: Massimo Vita

Ciao Enzo, ieri mentre lavoravo in sede nazionale, mi ha raggiunto la triste notizia della tua dipartita. Ho sentito in Caterina, che mi dava la notizia, una profonda tristezza e mi sono sentito come svuotato.
Dopo qualche momento di sconforto e di smarrimento ho rivisto i momenti vissuti con te da quando, giovane dirigente a Torino, ti ho conosciuto con il maestro Tomatis. Ho ripensato ai dialoghi sui temi dell’istruzione prima e del libro parlato poi. Ho ripensato ai tuoi consigli e al tuo equilibrio. Ho ricordato quando sei stato con Tommaso Daniele a Siena e a come mi sei stato vicino.
Salutarti è triste come è triste sapere che la tua sposa non ti avrà più al suo fianco ma ci consola la certezza che dall’alto ci accompagnerai e ci accompagnerà sempre il tuo esempio di dirigente illuminato e socio legatissimo alla nostra grande famiglia associativa.
Allora questo non è un addio ma un grazie per quanto hai fatto per tutti noi e per l’associazione.
Un abbraccio forte e un arrivederci con tanta stima e affetto.

Massimo Vita

Un otto marzo senza mimose, di Mena Mascia

Autore: Mena Mascia

Con quale coraggio anche quest’anno parleremo dell’otto marzo come se davvero si trattasse di una festa, dimenticandoci di tutte quelle donne, vittime di violenza, la morte delle quali ci viene propinata quotidianamente dalla cronaca? Non le piangiamo semplicemente perché non ci appartengono, oppure ci siamo talmente abituate a sentirne parlare che le notizie ci scivolano addosso come acqua su vetro? Parlare di quella memorabile giornata come di una festa, mentre dovremmo ricordare sempre l’episodio che ne ha suggerito la memoria, (tante donne imprigionate in una fabbrica e fatte morire bruciate), rende colpevoli tutte noi di un’ingiustificata indifferenza che non ci assolve.
Mentre madri e figli piangono la perdita di vittime di amori sbagliati, in quel giorno i fiorai vendono a carissimo prezzo minuscoli mazzolini di mimose che spesso servono a placare le coscienze colpevoli dei nostri compagni irrispettosi e distratti.
In qualità di responsabile regionale del Molise per le pari opportunità, e non solo come donna, io quest’anno ho inteso celebrare l’otto marzo promuovendo un incontro imperniato su tre iniziative che mi sono sembrate significative: “La creatività attraverso le mani”, “Le donne raccontate dai poeti”, “Appartenere è esserci”.
La prima iniziativa consiste nell’avere invitato la cittadinanza a recarsi presso la sezione territoriale dell’unione per visitare un’esposizione dei miei lavori artistici a calza. Lungi da me un momento di autocelebrazione, mi è sembrato opportuno renderci visibili attraverso un diverso trascorrere del tempo libero.
Nella seconda iniziativa le volontarie del servizio civile reciteranno delle poesie a loro scelta sulla donna, perché la giornata che vivremo non passi inosservata.
Nella terza iniziativa consegneremo gli attestati della fine del corso braille alle nove partecipanti che l’hanno frequentato, dopo averlo espressamente richiesto.
Salutate le autorità presenti, ci recheremo presso un noto ristorante della città per consumare insieme una pizzata in allegria.
Mena Mascia

Braille Vs. Tecnologia: una partita da giocare?, di Franco Lisi

Autore: Franco Lisi

versione integrale
“Altri hanno piantato ciò che noi mangiamo. Noi piantiamo ciò che altri mangeranno.”
Da un antico proverbio persiano
Da diversi anni ormai, come per le festività più importanti, il 21 febbraio si celebra la ricorrenza della Giornata Nazionale del Braille, istituita con Legge n. 126 del 3 agosto 2007.
Il copione è collaudato e si replica in lungo e in largo in tutto il territorio nazionale: convegni, seminari, articoli, interviste, sono tra le iniziative più comuni promosse dalla nostra Associazione e dalle Amministrazioni locali. Lo scopo è chiaro: vivificare e mantenere accesa la memoria di un glorioso passato; informare, ribadire, persuadere che il braille continua a rappresentare una parte essenziale nel processo della formazione culturale in ciascuna fase della vita di una persona non vedente.
Molti (esperti, professori, dirigenti, esponenti politici), per la verità forse non tutti intimamente convinti, si prodigano a spendere fiumi di parole, tesi ed energie a sostegno di un codice di scrittura che vola verso il compimento dei suoi 200 anni di età.
Ma quali sono le vere ragioni che stanno alla base di una difesa in contumacia sostenuta da un numero così considerevole di “avvocati”? Da chi lo vogliamo proteggere? Perché riteniamo di doverlo promuovere? Chi è, se esiste, il suo nemico, il suo più diretto competitor? Da tempo si dice che il braille è alla resa dei conti, che deve vedersela con la tecnologia, intendendo per questa la sintesi vocale. Ma è proprio così? E’ quest’ultima l’avversario da combattere e da battere?
Sappiamo, e non possiamo far finta di nulla, che viviamo nella società dell’informazione, una società in cui la quantità sacrifica la qualità, in cui il possedere va a scapito del sapere. Orientarsi fra ciò che è utile e ciò che è spreco è spesso problematico e la tecnologia, in questo senso, per come oggi in molti la utilizziamo, compresi noi ciechi, ci conduce diritti verso questa trappola. Guardiamo allo schermo di un computer o di un palmare, di uno smartphone o di un tablet, pressoché indifferenti; ascoltiamo risuonare e scorrere veloci, parole, e-mail, documenti, comandi, pressoché distaccati, senza spesso porre la giusta attenzione agli effetti dei contenuti, ai concetti espressi. Diceva quel tale che ciò che è davvero importante, arricchente non è la quantità di libri che leggiamo, ma il modo, l’intelligenza con cui li leggiamo. A scuola, guai se non hai un pc o un cellulare, al lavoro, se non sei informatizzato, non hai speranza di successo. Sembra impossibile pensare alla quotidianità senza tecnologia: prenotare un servizio pubblico, accedere ad una cartella sanitaria, gestire un conto corrente bancario, fare la spesa on-line, sono solo alcune operazioni per le quali è richiesto il possesso di un pc connesso o di uno smartphone. I nostri figli (siamo rapidamente passati dagli adolescenti ai bambini) sono intestatari di un numero telefonico.
Eppure, dietro questa montagna di tecnicaglia che, da un lato mette tutti in fila, allinea, si insinua in tutte le sfere sociali, è alla portata di tutte le tasche, azzera le distanze, favorisce la velocità d’azione e la riduzione di margini d’errore, dall’altro richiede competenze relazionali elevate, seleziona, discrimina, emargina, crea il digital divide. Qui dentro, dentro questa cornice tratteggiata di opportunità e di esclusione, di impossibilità e di accessibilità, sta, o non sta, l’integrazione sociale dei ciechi.
Se dunque è vero, come per lo più si ritiene, che il mondo del digitale rappresenta una corsia preferenziale per perseguire l’obiettivo della piena inclusione sociale dei disabili, non possiamo farci trovare impreparati di fronte alle insidie che pur si celano nei labirinti dei miliardi di bytes e di bits disseminati lungo il cammino.
In questo panorama, nel quale la comunicazione tattile sembra perdere “punti”, affannarsi a cercare un capro espiatorio, nemici ed avversari, serve solo a spostare l’attenzione; di fatto, le cause del crescente disuso del codice braille risiedono più verosimilmente altrove. A mio avviso, piuttosto, se il braille vuole recuperare le posizioni cedute, deve guardarsi dentro, deve misurarsi con la propria pigrizia e autostima, con la propria sofisticazione e con le proprie potenzialità, con la propria indipendenza e con i nuovi compagni di viaggio con cui avvedutamente integrarsi: l’inesauribile trascorrere del tempo e l’impatto dell’ineludibile cambiamento sono le sentinelle alle quali presentare le referenze. Non esiste alcuna partita da giocare; deve solo credere in se stesso accantonando presunti timori reverenziali, fermare la corsa, girare la testa ed ammirare il passato. Da più parti si sostiene, un po’ beffardamente, che la lettura in braille sia lenta e comunque non paragonabile alla velocità della sintesi vocale. Affermazioni di questo tipo sono assolutamente vere, ma parziali, peraltro in qualche modo tecnicamente non corrette, dal momento che l’utilizzo della sintesi vocale pone il fruitore nella veste di ascoltatore e non di lettore. Per di più, non vi è ”braillista” al mondo che pensi di gareggiare con la velocità massima di un sintetizzatore! In occasione del suo anniversario, gli dovremmo invece essere grati proprio per il suo punto di forza: la lentezza. Nel racconto “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”, Luis Sepulveda scrive: “Una volta sistemata là sopra, dietro la testa della tartaruga, la lumaca le chiese dove stava andando, ma l’altra ribatté che non era la domanda giusta e che avrebbe dovuto chiederle invece da dove veniva. Così, mentre da lassù la lumaca vedeva passare le erbe del prato a una rapidità sconosciuta, la tartaruga le raccontò che veniva dall’oblio degli esseri umani…”
A nostra volta, ritengo utile gettare uno sguardo fugace all’indietro per accorgerci come questi puntini abbiano potuto “bucare” attraverso la notte dei tempi e presentarsi sotto le nostre dita più robusti che mai. Fino a 30-40 anni fa, i saperi arrivavano ai ciechi in prevalenza tramite il codice braille scritto su carta. A scuola e al lavoro, come nella vita privata, tutto il materiale veniva prodotto manualmente con il punteruolo e la tavoletta o con la dattilo-braille: i compiti di matematica, di latino, di greco, di lingua straniera, gli appunti, gli spartiti musicali, le brutte copie nei compiti in classe di Italiano… L’odore di quei fogli fatica a sparire dalla nostra memoria olfattiva, dai nostri ricordi. Quintali di carta riempivano le stanze dei nostri Istituti dedicate esclusivamente ad ospitare tomi enormi, ingombranti, posti in fila in lunghissimi e altissimi scaffali, per poi costituire un arredo che caratterizzava le nostre case. Per dare un’idea dello spazio necessario, prendiamo a mo’ di esempio la Divina Commedia: l’opera consiste di 96550 parole distribuite in 32 volumi braille; il singolo volume ha uno spessore approssimativo di 6-7 centimetri; posizionati uno accanto all’altro, occupano complessivamente una lunghezza di circa 2 metri.
Negli anni ‘80 e primi ’90, il sistema braille deve affrontare una prima grande prova di resistenza. E’ il tempo dei terminali 3270 (comunemente denominati terminali stupidi); si affacciano sul mercato dando bella mostra di sé i primi personal computer da tavolo, i sistemi operativi sono testuali e la lettura dello schermo è lineare e sequenziale: è tempo di tecnologia assistiva! Ascoltiamo, un poco indispettiti, la voce stridente dei primi sintetizzatori vocali e, curiosi, scorriamo le dita sui primi display braille a sollevamento meccanico; è il periodo dei display da 80 caratteri a 8 punti, di lunghezza pari a 1 metro con peso superiore ai 10 kg; si progettano addirittura scrivanie specifiche dotate di speciali alloggiamenti: una vera ed indescrivibile emozione “leggere” lo schermo con le mani! Si aprono inesplorati scenari nel mercato del lavoro e si sperimentano nuove professioni come quella del programmatore. Grazie alla tecnologia, dunque, il braille si evolve salvando i ciechi dall’emarginazione sociale.
Con il progressivo ridimensionamento dei personal computer (i primi pesavano 5 chili e montavano hard disk da 20-40 mega, ad esempio Compaq), si diffondono sempre più display braille da 20, 40 caratteri con tecnologia più sofisticata di tipo piezoelettrico. Parallelamente al miglioramento della qualità del braille, anche la sintesi vocale vive una costante evoluzione, elevando ampiamente le proprie performance. Quel che
più conta, in questo tempo, è l’inarrestabile sviluppo dello screen reader, sofisticatissimo programma in grado di stabilire, tra le innumerevoli funzioni, quale parte dello schermo debba essere riportata o evidenziata sulla barra braille o letta dalla sintesi vocale. La crescente complessità dei software di base e degli applicativi di uso più comune portano ai primi corsi di formazione, destinati a diffondersi velocemente su tutto il territorio. Gli elevati costi dei dispositivi braille, la breve durata dei corsi di alfabetizzazione, la fragile conoscenza del codice braille da parte degli istruttori, l’esigenza prioritaria di insegnare l’ABC dell’informatica, l’eterogeneità dei requisiti degli allievi, sono tra le principali cause che fanno generalmente preferire l’insegnamento mediante l’ascolto della sintesi in luogo della lettura tramite il display braille.
A metà degli anni ‘90, il signor Braille supera l’ennesima sfida che vede il passaggio dalle piattaforme testuali ai sistemi grafici: su tutti, dal sistema operativo DOS all’ambiente di lavoro WINDOWS. Sono momenti difficili e delicati, nei quali si assiste ad un generale disorientamento fra i produttori, i distributori e gli utenti. Vengono ripensate le modalità, le metodologie e le strategie di fare formazione. Si passa da una lettura lineare di righe e di caratteri statici (corrispondenza 1 a 1) a pulsanti, icone, finestre estremamente dinamici e di diversa ampiezza. Ci tuffiamo nell’universo della rete internet! Si incomincia a parlare del concetto di Accessibilità ai sistemi, agli applicativi, ai libri di testo digitali. Qui, non si spaventa il braille, ma chi il braille ha il dovere di insegnarlo. L’Accessibilità è un termine che sottintende un concetto ancora oggi di stretta attualità. Sfocerà con la Legge Stanca n. 4 del 9/1/2004, il cui articolo 1 recita: “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici” e si basa sul principio costituzionale di uguaglianza, affermando che “la Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici”.
La progressiva miniaturizzazione dei prodotti tecnologici e della componentistica incoraggia le aziende del settore a disegnare display e tastiere braille dalle dimensioni sempre più ridotte. Due ulteriori campi di applicazione prevalgono e si profilano due distinte direttrici.
La prima consente, a chi sa scrivere in modalità braille, l’utilizzo di quella vasta gamma di notebook progettati appositamente per i ciechi; si tratta di veri e propri computer, muniti di display braille e tastiera braille, con memorie praticamente illimitate, su cui sono installati software proprietari e in quelli di ultima generazione sistemi operativi open-source. La consultazione di testi, la stesura di appunti o relazioni, la gestione di rubriche e agende, rendono queste “macchinette” amici fedeli e preziosi nella conduzione delle attività di tutti i giorni: a scuola, al lavoro, nella vita privata. Sono vere e proprie biblioteche portatili! La dotazione di funzioni quali la gestione della posta elettronica, la connessione ad internet e al satellitare le rende particolarmente appetibili e versatili.
La seconda prospettiva ci riconsegna una piena e “totale” accessibilità al mondo dei tablet e degli smartphone. Viviamo un ulteriore passaggio che determina una rivoluzione radicale, sia dal punto di vista sociale (cambiano i canali di comunicazione e cambia il linguaggio di comunicazione, le relazioni aumentano in numero e diminuiscono in solidità, si azzerano le distanze), sia nelle modalità di utilizzo (sono dotati di tecnologia touch, non dispongono di tastiera fisica). Sono dispositivi potentissimi, destinati nel tempo a sostituire i tradizionali computer. Montano sofisticatissimi screen reader di alta qualità che permettono una buona interazione tramite il canale vocale e il sistema braille. Tuttavia, mancando di tasti in rilievo integrati, il loro pieno utilizzo da parte di noi ciechi richiede elevate abilità e specifiche competenze. Per queste ragioni, il loro utilizzo in campo scolastico e professionale è pregiudicato e circoscritto a esigue aree di applicazione. Connettere un display braille, magari munito di tastiera braille, ad uno smartphone è oggi, comunque, un’opportunità da non lasciarsi sfuggire, dal momento che qualsiasi informazione da internet, la lettura di libri e giornali, la consultazione di dizionari, la fruizione di giochi, tutto è a portata di dita, tutto è immediatamente braille che scivola sotto le mani: abbiamo l’opportunità di leggere, di conoscere, di avere il mondo in braille, in una mano. Quell’opera che una volta “rubava” spazio nelle nostre case, oggi conserva le sue 96550 parole in 600 kb di memoria che corrispondono a 600.000 caratteri. Per rendere ancora una volta
l’idea più precisa del cambio di prospettiva, la dimensione media di una memory card è di 64 giga che equivale a 64 miliardi di caratteri. A dire che questo contenitore è capace di ospitare circa 106.000 (cento seimila) testi della Divina Commedia. Se dovessimo riprodurli in tradizionali volumi braille, ricopriremmo oltre 200 km, distanza tra Milano e Bologna.
Il tema della produzione del braille, volendo riferirsi in questo senso alla stampa su materiale cartaceo di testi, appunti, disegni, offre spunti di interessante dibattito tra i produttori di stampanti braille, esperti di tiflotecnica, di tiflopedagogia e tifloinformatica. E’ evidente che, con l’avvento del digitale, l’utilizzo diffuso di questo supporto non è più completamente giustificabile. Ragioni come quelle dell’ingombro, della conservazione del materiale, della tempistica nella realizzazione, dello scorrimento rapido del testo, fanno optare per la creazione di documenti informatici decisamente più “manipolabili”. Ciò non di meno, la varietà dei costi e la disponibilità di un’ampia gamma di modelli di stampanti aprono ad utili campi di applicazione. Poter ad esempio disporre con relativa facilità di una stampante braille, a casa o a scuola, rende possibile, in linea generale da chiunque, il trasferimento rapido su carta di parti di testo, di esercitazioni, di semplici matrici e di grafici accessibili. Si aggiunge che, oltre che per la velocità di stampa e per la possibilità di stampare ad interpunto, i modelli più evoluti sono in grado di riprodurre disegni in rilievo, in nero, a colori. E’ possibile ottenere scritte in braille, in nero o in entrambe le modalità sovrapposte. La facilità di avere in un “batter d’occhio” qualsiasi testo digitale stampato – si pensi che anche la trascrizione di un libro mediante scanner è un’operazione alla portata di tutti – pone il problema della qualità della segnografia e dell’osservanza delle regole di impaginazione braille. La duplice prospettiva di leggere in braille su carta o tramite display propone un altro motivo di riflessione: l’insegnamento del braille può avvenire indifferentemente attraverso entrambi i supporti? Unanimemente gli esperti sono del parere che, per ragioni che qui non tratteremo relative allo sviluppo della percezione tattile e dell’acquisizione del concetto di spazialità, soprattutto se il discente è un bambino, muovere i primi “passi” nella fase di prima alfabetizzazione del codice, scorrendo le dita su una pagina tradizionale, sia un processo indiscutibilmente insostituibile.
Al termine di questa, seppur veloce e incompleta panoramica, possiamo affermare che la tecnologia, almeno quella buona ed amichevole, non sembra avere, fino ai nostri giorni, penalizzato oltremodo il braille e le nostre velleità di integrazione sociale. Indubbiamente, non è concesso abbassare la guardia allentando la pressione sui produttori di tecnologia assistiva e rinunciando alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema dell’accessibilità digitale.
Le leve e gli ambiti, tuttavia, verso i quali sarebbe più proficuo indirizzare le nostre intelligenze più vivaci e i nostri sforzi, ritengo che riguardino, almeno in questa fase, i contesti di applicazione e le modalità di utilizzo dei software applicativi. In questo senso, dobbiamo provare a valutare con obiettività i vantaggi derivanti da un’ottima padronanza della letto – scrittura del codice e da un’ottima padronanza delle funzioni e delle potenzialità dei più moderni dispositivi elettronici braille, nonché gli svantaggi derivanti dal non esserne in possesso.
Se pensiamo, ad esempio, al tema dell’inclusione scolastica, sappiamo che il modo di fare scuola e la comunicazione didattica, diversamente dal passato, sono basati sulla velocità, sulla varietà delle fonti, sulla comunicazione non verbale, sulla trasmissione di immagini/video; ne consegue che la parola, scritta o parlata, perde di valore, diminuisce di importanza e di incisività, non costituendosi quale solo veicolo privilegiato nella trasmissione degli insegnamenti. Ciò inevitabilmente riduce per tutti in maniera drastica i tempi dedicati alle esercitazioni della lettura (ad alta voce) e della scrittura. A maggior ragione, il sistema braille, implicando e richiedendo fatiche ed energie ulteriori, non incoraggia certo gli studenti non vedenti e chi ha il compito di insegnarlo ad investimenti giudicati superficialmente inopportuni. In più, nei casi in cui, per buona sorte ve ne sono molti, si conviene di riservare spazio temporale all’insegnamento del codice braille, emerge largamente una gravissima lacuna metodologica che rischia di vanificare gli sforzi e di conseguenza compromettere la qualità dei risultati. E’ fuor di discussione che è di enorme importanza insegnare il braille in qualsiasi modo, purché si trasferiscano all’allievo le abilità anche minime nella decodifica e nella
composizione dei caratteri: tramite tavoletta e punteruolo o tastiera braille, su carta o su display braille. Lodi a coloro che si adoperano su base volontaristica a tenere corsi di alfabetizzazione braille in prevalenza a favore degli adulti, promossi dalle nostre strutture associative e dai nostri circoli ricreativi. Se questo è apprezzabile nelle situazioni in cui si intende perseguire l’obiettivo del trasferimento della conoscenza del sistema in breve tempo, di contro, l’insegnamento della letto-scrittura in un contesto scolastico, quale strumento essenziale nel processo di crescita culturale del bambino/ragazzo non vedente, presuppone solide metodologie e strategie didattiche che vanno ben al di là del mero e pedissequo insegnamento mnemonico tabellare e della rappresentazione dei punti per ciascun carattere. Senza avere la pretesa di essere esaustivi in questa sede nella trattazione dell’argomento, penso che, in troppe circostanze, l’incertezza nel possesso di un metodo tiflo-didattico consolidato, sia la causa principale della sostanziale inefficacia di chi insegna e di un generale “impigrimento” di chi apprende. Nei corsi di insegnamento del braille rivolti agli insegnanti, ma ancor prima nei percorsi formativi nell’area tiflopedagogica, l’insegnamento di questo codice avviene, spesso, seguendo criteri privi di fondamento didattico e scientifico. E’ compito di chi disegna percorsi formativi di alto livello scongiurare questo rischio. Dobbiamo affidare a chi si occupa di scienze tiflologiche l’abilità di trasferire ad altri formatori la consapevolezza e la competenza didattica a sostegno dell’insegnamento del sistema braille. In caso contrario, i nostri ragazzi, ultimo anello della catena, mostreranno forti fragilità, incertezze e reticenze nell’utilizzo del sistema, trovandolo eccessivamente faticoso e praticamente inutile. Pena, nel tempo, il suo inevitabile progressivo abbandono. (Analfabetismo di ritorno)!
Il mondo delle aziende e l’inserimento nel mercato del lavoro sono un ulteriore contesto meritevole di attenta analisi. I nuovi scenari in questo campo presuppongono prerequisiti di ingresso selettivi, in assenza dei quali si è estromessi. I ciechi, se posseggono abilità accertate e consolidate nell’autonomia e nell’uso della tecnologia, se dimostrano elevate competenze linguistiche, hanno sicuramente frecce al loro arco per far bene. L’esperienza dell’Istituto dei Ciechi di Milano, che da quasi 15 anni investe risorse nell’area dei servizi al lavoro, fornisce molti elementi di valutazione. In sintesi, gli operatori che hanno il compito di condurre analisi dei contesti aziendali, verificare l’accessibilità delle procedure in dotazione, accertare i prerequisiti e attitudini di chi è in cerca di occupazione e progettare percorsi di formazione mirata, osservano generalmente notevoli possibilità di successo allorché si è in presenza di una buona conoscenza del braille da parte dei candidati. Incontrovertibilmente, il possesso di questo strumento favorisce l’autonomia nella manipolazione di documenti e nella gestione di complesse banche dati. Di inestimabile valore ed estremamente apprezzata è la partecipazione in forma del tutto autonoma del non vedente ai processi produttivi. Scrivere e leggere il braille consente l’uso versatile e discreto di qualsiasi dispositivo di facile trasporto: smartphone con display braille o notetaker. Tutto ciò a beneficio dell’inclusione e della proattività.
Personalmente, non so che cosa ne sarà dell’alfabetizzazione dei ciechi negli anni futuri. Se, parola di Albert Einstein, “tutto ciò che ha valore nella società umana, dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate a ciascun individuo”, si può ritenere, senza timore di essere smentiti, che il possesso del codice braille ci metta sulla retta via. Comunque sia, credo nell’immortalità del punto braille che consente ai ciechi di toccare il mistero delle bellezze sublimi e universali; di godere delle emozioni più genuine che costituiscono l’essenza del dono della vita. Leggere in braille versi poetici esalta la complicità tra il sig. Braille e il Poeta con la P maiuscola che si fa indissolubile dinnanzi a tre versi che desidero condividere con il lettore:
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense”.
Da ultimo, non avrei mai immaginato da studente che l’apprendimento del braille sarebbe stato motivo di un’immensa gioia interiore difficilmente descrivibile e che avrebbe ripagato tutte le fatiche della gioventù. Il braille, solo il braille, può e sa far sorgere nel nostro animo una struggente emozione che, forse, costituisce la vera ragione del nostro essere al mondo. Ritrovarsi nel ruolo di padre a leggere con le mani a voce sommessa la favola della buonanotte alla propria bimba è la fortuna più grande che abbia ricevuto dalla vita. Penso che “l’atto di leggere” per tuo figlio, per tua moglie o marito, semplicemente per te stesso, sia un gesto che ti fa sognare un futuro più facile, che ti illumina il viso di un sorriso coinvolgente, che ti ripaga di una malinconia che, forse, si è stratificata ed alberga nei labirinti più intimi e profondi dei nostri sentimenti. Anche per questa ragione, sono infinitamente grato al braille e mi inchino alla base dei suoi puntini.
A lui e a chi lo insegna con professionalità, auguro tanta salute e lunga vita
Franco Lisi – Direttore Scientifico dell’Istituto dei Ciechi di Milano

 

Annuncio, di Emilio Noris

Autore: Emilio Noris

Sono Noris Emilio una volta esisteva in braille un giornale dal titolo “Città nuova” dei Focolarini. Siccome io sono molto di fede chiedo vivamente se c’è qualcuno come me che può dare la sua adesione perché possa essere ristampato.

Sentitamente ringrazio.

Noris Emilio

Via Borgo Palaazzo, 167/c

24125 Bergamo