Bergamo – Relazione tenuta dalla Dr.ssa Franchi Valentina, psicologa, al convegno organizzato dalla Sezione di Bergamo dell’Uici

La nascita di una perla è un evento davvero miracoloso. A differenza delle pietre o dei metalli preziosi, che devono essere estratti dalla terra, le perle sono prodotte dalle ostriche o meglio da “molluschi perliferi” che vivono nelle profondità marine. Le pietre preziose devono essere sottoposte al taglio e levigate per farne emergere la bellezza. Ma le perle non hanno bisogno di questo processo complementare. Nascono da questi molluschi con una naturale iridescenza, una lucentezza e una morbida luminosità intrinseca che nessun’altra gemma al mondo possiede.
Non è affatto scontato che un mollusco riesca  a produrre una perla. Solitamente questo avviene perché il mollusco reagisce ad uno stimolo come forma di difesa verso un’intrusione.
La formazione della perla avviene quando sui fondali marini elementi estranei al mollusco penetrano all’interno dell’epitelio, creando un’azione di forte disturbo. In breve, la perla si forma attorno ad un corpo estraneo (granello di sabbia, parassita, larva marina, frammento di conchiglia) entrato nel mollusco; questa intrusione produce una forte reazione nell’animale che, non riuscendo ad espellerla, inizia un processo d’isolamento secernendo una sostanza cristallina liscia e dura, definita sostanza madreperlacea. Fino a quando il corpo estraneo resta nel mantello (lembo cutaneo che si trova tra il guscio e il corpo dell’animale), l’ostrica perlifera continua a secernere intorno ad esso la sostanza madreperlacea, strato su strato. Dopo pochi anni, il risultato sarà quello di una bella e splendente gemma che chiameremo perla.

Resilienza: significato del concetto e sue origini

La resilienza può essere definita come il processo che permette la ripresa di uno sviluppo possibile dopo una lacerazione traumatica e nonostante la presenza di circostanze avverse.
È un termine che deriva dal latino resalio, iterativo di salio, che significa saltare, rimbalzare, per estensione danzare. Il termine è stato coniato in fisica per descrivere l’attitudine di un corpo a resistere a un urto, la capacità di un metallo di riprendere la propria forma dopo aver ricevuto un colpo non abbastanza forte da provocarne la rottura. La durezza, la resilienza, la resistenza alla fatica e alle sollecitazioni, in ingegneria, sono definite proprietà meccaniche di un corpo, ovvero i modi in cui si comporta un materiale quando è sottoposto a sollecitazioni esterne di tipo meccanico. In particolare, la resilienza è considerata la capacità che un materiale ha di sopportare sforzi applicati bruscamente, senza rompersi e senza che si propaghino fessure all’interno; il suo contrario è la fragilità. Nel linguaggio informatico, la resilienza concerne la qualità di un sistema che gli permette di continuare a funzionare a dispetto di anomalie legate ai difetti di uno o più dei suoi elementi costitutivi.
Negli anni ottanta il concetto iniziò a essere usato anche in senso figurato, venendo a indicare la nozione secondo cui dopo un trauma passibile di provocare “un’agonia psichica”, come è stata definita da un importante psicoanalista, la persona ferita nell’anima può ritornare alla vita. Il colpo è esistito nel reale, ma il soggetto riesce a riprendersi, ritornando non alla sua vita precedente – in quanto conserva la traccia del colpo nella sua memoria – ma a un’altra vita, appassionante quanto difficile.
Per ragionare secondo questo schema occorre abbandonare la causalità lineare (è stato gravemente ferito e quindi è spacciato per tutta la vita), abituandosi a considerare i problemi nel quadro di un sistema: se un elemento del sistema si rompe, come accade in seguito a un trauma, è l’insieme del sistema stesso che si modifica.

Una delle caratteristiche più interessanti che emerge dagli studi sulla resilienza è proprio la capacità di trasformare un’esperienza dolorosa in apprendimento, inteso come la capacità di acquisire delle competenze utili al miglioramento della qualità della vita e all’organizzazione di un percorso soddisfacente, in relazione al contesto di riferimento. L’evento traumatico, che in molti casi rischia di far richiudere la persona solo ed esclusivamente nella condizione di dolore, causa di azioni e comportamenti spesso nocivi, può divenire, al contrario, motore di cambiamento possibile.
È stata proposta, trattando il tema della guarigione di fronte ai traumi, oltre a quella dell’ostrica e della perla la metafora dell’albero: ferito da giovane, cresce intorno alla ferita. Durante la sua crescita la ferita diviene piccola in confronto alle sue dimensioni. I nodi e i rami, anche deformi, testimoniano gli ostacoli procurati nel tempo e superati. Il modo in cui l’albero cresce e si sviluppa esprime la sua originalità e la sua bellezza.
Vulnerabilità e risorse

Il processo di resilienza implica la possibilità di integrare i due volti – limite e capacità – nel corso del percorso di vita. L’incontro tra le risorse e i limiti, fra la parte forte e debole, non designa, da questo punto di vista, la separazione tra i due aspetti, ma al contrario la loro complementarietà e la possibile ricerca di integrazione.

La dimensione della vulnerabilità, assunta come componente complementare da associare alla dimensione risorsa, a volte non ancora compresa e conosciuta, può trasformarsi in opportunità di crescita.
L’etimologia della parola vulnerabilità deriva dal latino vulnus, che significa ferita e che può condurre ad altre parole quali lesione, strappo, bruciatura, o ancora a una ferita rimarginata che comporta sempre una cicatrice. La ferita deve essere protetta, disinfettata e fasciata: ha bisogno di tempo, spazio, cure e attenzioni particolari per potersi rimarginare in modo appropriato. L’animo umano, quando è ferito, funziona un po’ come la pelle: quando il sistema si rompe, si entra in una fase di confusione e di perdita della bussola interna che fino a quel momento aveva permesso l’orientamento, e si accede a una condizione di vulnerabilità in cui gli elementi di vulnerabilità predominano su quelli di forza. La crisi rappresenta anche una rottura: non si è più quelli di prima ma cosa si diventerà ancora non è dato saperlo.
In un primo momento la fuga può essere un percorso possibile, che ripara dalla disintegrazione totale e dalla crisi all’interno della quale ci si trova. È importante però che essa rappresenti una condizione momentanea e non di stabilità, poiché fa correre il rischio di voler interrompere il cammino per evitare di soffrire ancora.
La vulnerabilità sembra essere, in questo particolare momento storico e nella società occidentale, una condizione che spaventa, e sempre più spesso si tenta di allontanarla, negando la parte di fragilità che è in ogni uomo. Crediamo, forse troppo spesso, di essere individui invulnerabili, in grado di sopportare qualsiasi situazione, o forse i valori che sembrano caratterizzare il nostro mondo occidentale, quali il denaro, il successo, la competizione, la produttività, inducono a comportamenti di chiusura, e di negazione delle nostre stesse sofferenze quotidiane.
Un approccio resiliente alle difficoltà, viceversa, necessita di una disposizione ad abbandonare alcune delle certezze e dei propri assoluti per scoprire che ciò che non conosciamo può essere motivo di apprendimento di un qualche cosa di inaspettato; implica, inoltre, l’incontro tra l’esperienza acquisita nel corso dei tempi, che ha favorito la costruzione del percorso di vita e ha fatto assumere delle certezze e l’inatteso, il nuovo che può arrivare, la risorsa che può scaturire, nonostante le premesse e le aspettative di partenza. Necessita, inoltre, della possibilità di prendere le distanze da una modalità che giudica, interpreta, circoscrive senza lasciare vie di scampo, ancora prima di avere osservato e offerto un’occasione per il cambiamento.
Le crisi, in questo modo, possono essere assunte come elementi di ricchezza, generatrici di nuove esperienze. Esse sono da considerarsi, nonostante il dolore che possono generare e il desiderio di allontanarle, come passaggi e situazioni che immancabilmente si incontrano. Crescere implica anche entrare in crisi, ed è sinonimo della potenza creatrice che può scaturire da un momento di assoluta difficoltà.
Il benessere psichico, nei momenti di crisi, ha anche fare con la ricerca di strategie che permettano di riannodare i fili di una storia interrotta che non deve essere negata e nella quale l’evento traumatico non sarà eliminato, strategie che però contribuiranno al superare soglie di dolore che, diversamente, sarebbero molto più difficili da affrontare.
La sofferenza, infatti, può essere trasformata, elaborata, ma non negata o omessa. Il dolore può invadere e indurre a comportamenti di evitamento, di chiusura, di negazione a causa dell’impatto e delle condizioni all’interno delle quali ci si trova ad operare; a ciò si oppongono la possibilità di riannodare fili tra passato, presente e futuro e la dimensione della speranza.
La resilienza implica, dunque, la capacità di balzare fuori, di saltare, quindi è un po’ questa capacità di risposta interna di una persona ad affrontare situazioni difficili della vita, la cui assenza è definita sindrome di Charlie Brown, che indica il sentimento di impotenza tipico e naturale di colui che ha la percezione di non avere alcuna personale capacità di controllo sulla sua situazione, nessuna capacità di poterla modificare o di prevedere un aiuto, un rinforzo per riuscire a incidere su di essa.
La resilienza, quindi, non consiste in una riparazione, di un’eliminazione del danno, anzi, si parte da questo, dalla condizione di base che non può essere modificata. Uno studioso della resilienza, quando gli fu domandato: “Come posso agire per evitare di essere chiuso nella sindrome di Charlie Brown?”, rispose: “Quando un quadro rovinato dalle intemperie viene restaurato si verifica una rinascita, un abbellimento, una metamorfosi, poiché i colori tornati freschi e luminosi non sempre corrispondono a quelli originali”.
Alcuni studiosi sostengono che le persone resilienti sono felici, omettendo la dimensione del dolore e della fatica, mettendo in luce solo la dimensione della forza e della possibilità intrinseca ad ogni essere umano, rischiando di promuovere la cultura del più forte sul più debole. La resilienza, viceversa, pur essendo espressione di una via che apre le porte alla speranza e di una potenza che sorprende, ha un prezzo molto alto da pagare: affrontare le prove prima di superarle e uscirne rafforzati. La resilienza non coincide con il sogno americano in cui tutto è possibile, non corrisponde solo alla forza d’animo e nemmeno alla sola forza di volontà, e nemmeno alla felicità. Non si tratta, come abbiamo detto, di negare la dimensione del dolore ma di accoglierla, trasformarla, per non rimanere incastrati solo in essa.
Essere resilienti: la crisi come opportunità

Elemento principale della teorizzazione sulla resilienza è che le crisi, pur con tutto il carico di fatica e dolore che comportano, possono essere considerate anche come delle opportunità.
La crisi infatti ha una caratteristica particolare: porta scompiglio nel sistema di sicurezza e prevedibilità che ognuno di noi, nella sua vita, ricerca e persegue. Sentirsi sicuri e all’interno di un mondo prevedibile, infatti, è un bisogno fondamentale dell’essere umano, e un adeguato senso di sicurezza è condizione necessaria per l’equilibrio psichico. Un eccesso di tali componenti, tuttavia, se da un lato ci mette al riparo da sentimenti come ansia e paura, dall’altro impoverisce progressivamente la nostra vita, chiudendoci al nuovo, al diverso, all’imprevisto. Le crisi, in questo senso, riportano inevitabilmente nella vita delle persone queste dimensioni che, se adeguatamente affrontate, possono dare come esito non solo una buona risoluzione della crisi stessa, ma anche un arricchimento generale che forse non sarebbe stato possibile se la crisi stessa non fosse avvenuta.

Il primo passo per entrare in questo percorso e, quindi, per costruire resilienza, è conoscere di che cosa si tratta, ovvero scoprire in se stessi e negli altri gli elementi che hanno permesso di sopravvivere, resistere, trasformare e costruire.

Ma che cos’è dunque la resilienza? Può essere definita come la capacità o il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare a un esito negativo.
La resilienza ha dunque due componenti:
la resistenza alla distruzione e la possibilità di preservare l’integrità nonostante circostanze difficili;
la capacità di costruire positivamente la propria vita nonostante le situazioni difficili.
Si tratta dunque non solo della resistenza ma anche del superamento della difficoltà. Comporta per la persona, quando è sottomessa a pressioni, la possibilità di proteggere la sua integrità, di costruirsi e aprirsi delle vie malgrado le circostanze difficili.
La resilienza propone di non ridurre mai una persona ai suoi problemi ma di dichiarare anche le sue potenzialità. Ciascuno deve poter trovare dentro di sè delle soluzioni, ovvero divenire responsabile del suo processo di cambiamento.

La resilienza, afferma uno dei suoi massimi studiosi, è più che resistere, è imparare a vivere. Secondo questa prospettiva, la resilienza non è mai posseduta o non posseduta in assoluto, totale, acquisita una volta per tutte, ma varia a seconda delle circostanze, della natura del trauma, del contesto e dello stadio di vita.

Queste considerazioni suscitano alcune domande: da dove viene questa forza? Quali sono i fattori e gli indicatori sottesi alla resilienza? Quali gli elementi che permettono a una persona di costruirsi un percorso capace di sviluppare resilienza di fronte a eventi critici? Quali le azioni per promuovere e costruire la resilienza? Che cosa accade tra la persona e i suoi limiti e le sue risorse, tra la sofferenza e la volontà di fuoriuscirne?

È corretto parlare di resilienza soltanto se un trauma è seguito da una certa ripresa evolutiva, da una ferita ricucita. L’esperienza traumatica però rimane iscritta nella memoria, le cicatrici rimangono come “lesioni nell’anima del vincitore battuto”. Lo sviluppo non può comunque proseguire il suo iter normale poiché il trauma è diventato parte integrante della storia della persona che, ferita, potrà proseguire uno sviluppo segnato inevitabilmente dalla ferita inferta alla sua personalità. Non sarà però solo una persona lesa, deficitaria, problematica, rinchiusa nel suo dolore. Potrà proseguire il suo sviluppo e trasformare in apprendimento la sua storia.

La resilienza si fonda dunque su un approccio multifattoriale che comprende i fattori di vulnerabilità e i fattori protettivi della persona e del gruppo (famiglia, comunità).
Gli studi sui fattori di protezione dimostrano che la protezione dipende da variabili genetiche e costituzionali, da disposizioni e caratteristiche di personalità, dal sostegno dell’ambiente (familiare ed extra-familiare) circostante e anche dal grado di comprensione, disponibilità e accessibilità sociale.
In generale, i fattori di protezione si possono dividere in fattori individuali (temperamento, capacità di riflessione e comprensione delle cose), familiari (calore umano, coesione e interesse dei familiari o di chi si prende cura), di sostegno (rete di sostegno sociale, organizzazione dei servizi sociosanitari ed educativi).
Non è detto, comunque, che se manca uno dei fattori indicati la resilienza non sia possibile; inoltre l’elenco dei fattori protettivi non deve essere considerato esaustivo e descrittore di un fenomeno in realtà molto più complesso. I fattori di protezione possono promuovere un processo di resilienza, ma non sono la resilienza, e viceversa.

Fatte queste necessarie premesse possiamo ora considerare alcune categorizzazioni proposte per i fattori protettivi.

Gli studi relativi al trauma hanno sottolineato come, in questi casi, la costruzione della resilienza fosse legata ad alcuni fattori:
la natura dell’evento (intensità, durata);
il contesto di vita (presenza o mancanza di una rete di sostegno, di una famiglia, di una comunità di appartenenza);
le caratteristiche individuali;
le competenze (capacità apprese, abilità necessarie ad affrontare una situazione traumatica e consapevolezza di essere in grado di affrontare tale situazione);
le risorse (possibilità di incontrare un contesto e persone – professionisti o meno – capaci di attivare le risorse anche latenti comunque presenti – tutori di resilienza –, e scoperta e riconoscimento di proprie risorse);
stima e fiducia in se stessi e negli altri;
l’avere un progetto e un compito da portare avanti;
la storia dei successi e dei fallimenti.

Alcuni studiosi hanno identificato un insieme di elementi, che costituiscono risorse e forze interne alla persona e sono collegate alla resilienza:
assunzione di consapevolezza: capacità di identificare i problemi, le risorse e a ricercare soluzioni personali e per gli altri ponendo attenzione ai segnali ricevuti dal contesto;
indipendenza: capacità di stabilire dei confini tra se stessi e le persone vicine;
relazioni: sviluppo di relazioni soddisfacenti con gli altri;
iniziativa: permette di controllarsi e dominare il proprio ambiente e di trovare piacere nello svolgere attività costruttive;
creatività: favorisce la possibilità di rifugiarsi in un mondo immaginario che permette di prendere le distanze dalla sofferenza interiore e di esprimere positivamente le proprie emozioni;
humour: consente di diminuire la tensione interiore;
etica: guida l’azione nelle scelte positive e negative e favorisce la compassione e l’aiuto reciproco.

Secondo altri studi, possono aiutare la promozione della resilienza:
le caratteristiche della persona, l’ambiente che la circonda, la società/cultura in cui si situa;
la ricerca di un progetto coerente capace di dare nuovi significati alla propria vita;
il sostegno della comunità (gruppo/famiglia); una comunità che si fonda sui principi della solidarietà e della fratellanza favorisce lo sviluppo della resilienza; è auspicabile quindi la costruzione di una comunità capace di accogliere, senza il bisogno di esibire, le fragilità umane, per aiutare a potenziare gli elementi di forza. Quando si è colpiti da un evento, tragico e improvviso, quando ci si trova in condizioni e situazioni difficili, non è semplice trovare le parole per comunicare, sia per chi versa in questa condizione, sia per chi si trova ad aiutare. L’impatto con la realtà dolorosa rischia di prendere il sopravvento e di non lasciare spazio ad altro. A un luogo in cui abitare, in cui costruire un noi, dove sia possibile esperire, dialogare, incontrare per incontrarsi, attivare un processo di scambio reciproco, attraverso il quale costruire, insieme, un cambiamento possibile. In molte circostanze la persona non chiede aiuto, o non pensa di poterlo trovare, ha bisogno di silenzio, di rispetto e di trovare una mano a cui rivolgersi secondo i suoi tempi, le sue modalità.
La costruzione di un percorso di aiuto reciproco, l’attivazione di sostegni può favorire la costruzione di resilienza nella persona che si trova in situazione di difficoltà e nel contempo aiutare a scoprire e dialogare con le parti ferite, nascoste, insite in ognuno.

Emerge quindi come la resilienza sia l’esito di più elementi e di più livelli (personale, relazionale, sociale). Una possibile schematizzazione di questi livelli è quella che individua, per la costruzione della resilienza, tre fattori: io ho, io sono, io posso.
Io ho, ad esempio, persone che mi circondano di cui mi fido e a cui voglio bene, che mi aiutano quando sono in pericolo o sono malato.
Io sono una persona che può piacere ed essere amata, che ha rispetto di sè e degli altri, responsabile delle proprie azioni e contenta di fare le cose per gli altri.
Io posso trovare il modo per risolvere i problemi che incontro, parlare agli altri di cose che mi spaventano o mi preoccupano e trovare qualcuno che mi aiuti quando ne ho bisogno.

In sintesi, si possono individuare alcune componenti fondamentali della resilienza:
la ricerca e conoscenza dei bisogni e soprattutto delle risorse delle persone e del gruppo, e non solo la definizione di una diagnosi chiara dei problemi;
la possibilità di mobilizzare le risorse e di non focalizzare l’attenzione solo ed esclusivamente sulle difficoltà;
la presenza di interventi con il coinvolgimento attivo della persona, del gruppo e della comunità di appartenenza;
il percorso di cura, riabilitativo, da attuare in funzione di un’attenta analisi dei bisogni;
la relazione, lo stare con, l’essere consapevoli gustando ciò che si ha.

Secondo alcuni autori la resilienza e le tappe attraverso le quali può esse costruita può essere rappresentata come una casa.
Il suolo corrisponde alla soddisfazione dei bisogni primari (alimentazione, sonno, cure primarie, ecc.).
Le fondamenta sono costituite dalle risorse e competenze personali e dalla possibilità di usufruire di contatti informali, di creare una rete solidale.
Nel giardino si trova la capacità di scoprire una coerenza e un senso nel proprio percorso di vita.
Al primo piano della casa troviamo la stima di sè, le attitudini e le competenze, lo humour. Il primo piano corrisponde alla possibilità di costruire progetti concreti, di far assumere alla persona delle responsabilità e di partecipare attivamente. Ciò esige una grande attenzione alla quotidianità, poiché molto spesso si determina attraverso gesti quotidiani; richiede inoltre che vengano valorizzate le attitudini e le competenze della persona perchè questa non sia rinchiusa solo ed esclusivamente nel ruolo di vittima.
Nel granaio vengono collocate tutte le altre esperienze, a seconda del contesto e della situazione.

Mi sembra di poter affermare, per concludere, che la resilienza, alla luce di quanto detto su vulnerabilità, trauma, fattori di protezione, mostri come la persona consti di una natura originale, complessa e solo parzialmente circoscrivibile; la persona prova emozioni e sentimenti, possiede risorse e limiti, fragilità e punti di forza; vive in un contesto, risente ed è influenzata dalla situazione culturale a cui appartiene, esprime dei valori, è circondata da altre persone, situazioni e mondi da esplorare.
La comunità è un fattore di protezione importante per la promozione della resilienza. Pensarsi abitanti in una comunità significa riconoscersi parte di un tutto in cui ognuno e ciascuno possano riconoscersi e in cui sia possibile attivare reti solidali di aiuto, scambio e confronto.