di Linda Legname – Vice Presidente Nazionale
“Puoi spararmi con le tue parole,
Puoi tagliarmi con i tuoi occhi,
Puoi uccidermi con il tuo odio,
Ma ancora, come l’aria, mi solleverò”.
Maya Angelou
Non voglio cominciare con il classico e intramontabile “c’era una volta”, ma desidero invece raccontare oggi una storia e una realtà attuale, ben ancorata al presente, fatta di quel bisogno di avere un posto nella comunità alla quale si appartiene, di impegnarsi, riscattarsi, riuscire a costruire il proprio progetto di vita.
Non è e non sarà mai, questo, un argomento da narrazioni del passato, ma un tema di sempre che riconduce alla lotta quotidiana per guadagnare la propria giornata, definire il proprio ruolo sociale e umano, in una parola: realizzare una propria esistenza di libertà e uguaglianza.
Dunque, non “c’era una volta”, ma c’era da sempre e c’è oggi la Donna: madre, lavoratrice, moglie, dirigente, compagna, sorella, amica, figlia, amante, ribelle, creativa, distruttrice, folle, disabile.
Forte come una quercia, fragile come cristallo, delicata come una lacrima, resistente come l’acciaio, sensibile come un nervo scoperto, coraggiosa come una leonessa, leggera come una rondine in volo, timida come una carezza, virtuosa come una santa, volubile come piuma al vento…
Mille aggettivi diversi, mille apprezzamenti e definizioni, mai basteranno, tuttavia, a dare chiarezza e completezza al progetto d’amore che le donne portano con sé. Spesso private e denudate della loro dignità e libertà, eppure sono proprio le donne a riuscire ancora a emozionarsi del sorriso di un bambino; a meravigliarsi dinanzi a un tramonto; a commuoversi per un abbraccio inatteso; a piangere e sorridere, a urlare al mondo intero il proprio amore sviscerato per la vita, nonostante tutto!
Le donne, sì, le donne. Sono forti e coraggiose. Hanno paura, ma ugualmente scelgono di portare in grembo e far nascere un bambino, anche disabile, che molto probabilmente sconvolgerà loro la vita.
Sono le donne a dare vita – e a volte anche la loro vita – a quegli stessi uomini che forse ruberanno il loro sorriso, non di rado, perfino con violenze fisiche e psicologiche.
Sono sempre loro, le donne, a sopportare in silenzio i soprusi, gli abusi, le discriminazioni nei luoghi di lavoro, nei locali pubblici, per strada, spesso tra le mura domestiche. Eppure resistono… E tornano a scegliere un compagno da amare, sfidando la paura per le probabili assenze e il rischio dell’ennesima sconfitta.
Ogni giorno una sfida diversa, una catena di responsabilità piccole e grandi che comportano spesso, troppo spesso, rinvii e rinunce. C’è sempre, infatti, prima di me, prima di noi, qualcos’altro da fare, qualcun altro da accudire, un servizio, un impegno, un compito al quale dover dedicare il tempo, il corpo, l’intelligenza, l’attenzione, l’anima.
E ancora, sì, ci sono loro: le donne con disabilità. Donna e disabilità. Quasi un duplice marchio negativo.
Un fattore già di per sé causa di discriminazione e pregiudizio, la disabilità moltiplica i suoi effetti negativi sulla persona nel caso si tratti di una donna a esserne portatrice. Spesso infatti, per una donna con disabilità, alla discriminazione di sesso e di genere, si somma quella dovuta alla menomazione fisica, psichica o sensoriale e per aggiungere al danno la beffa, risultano ancora troppo frequenti i pregiudizi degli stessi uomini con disabilità verso le donne nelle loro stesse condizioni.
Fatica immensa e raddoppiata per affermare la propria personalità, farsi riconoscere, guadagnare quel diritto all’esistenza e all’uguaglianza. Una sommatoria, anzi, una moltiplicazione di discriminazioni assurde dinanzi alle quali oggi ancora non riusciamo a mettere la parola “BASTA”.
Alla lotta quotidiana di una donna con disabilità per dare forza e dignità al proprio progetto di vita, in famiglia, a scuola, sul lavoro, con le persone più prossime, si aggiunge, appunto, anche la beffa di una condizione di discriminazione ancora oggi persistente perfino tra di noi, nelle nostre associazioni rappresentative e di tutela, nella nostra Unione.
Abbiamo dovuto, infatti, ricorrere alle cosiddette quote rosa, grazie alle quali abbiamo trovato un po’ di spazio tra i ruoli associativi dirigenti, sempre comunque monopolizzati in larga maggioranza dal genere maschile. Qualcosa comincia a muoversi nelle sezioni territoriali con la presenza di figure femminili alla Presidenza e nei Consigli, ma ancora in misura davvero molto esigua. Per non parlare delle Presidenze dei Consigli regionali, dove la presenza di segno maschile si conferma ben 19 volte su 21.
Certo, tutte persone degne di stima e meritevoli di occupare il posto che occupano, questi presidenti. Ma possibile che si rimanga ancora tanto lontani da percentuali un po’ meno squilibrate?
Nell’ultimo Congresso del novembre scorso, le candidature femminili erano giusto sufficienti a rispettare la quota rosa di un terzo, eppure ben dieci delle undici candidate sono risultate elette. Di conseguenza, in Consiglio Nazionale abbiamo una presenza complessiva di dodici donne e trentatrè uomini, con una percentuale femminile del 25 percento circa che si rispecchia anche nella Direzione dove le donne sono soltanto un quarto del totale.
Tanto cammino ancora da fare, dunque, perché l’altra metà del cielo possa davvero essere una metà.
Luce Irigaray scrive “La prima democrazia comincia a due”, cioè tra uomo e donna.
Sì, un cammino lungo, di civiltà, rispetto e umanità attende ancora le donne per guadagnare quella parificazione vera, autentica, costante e incancellabile, nella nostra Associazione, così come nel resto della Società, perché siamo purtroppo lontani, molto lontani da questo traguardo.
Ho dovuto sperimentare sulla mia pelle, come su quella di tante altre donne come me, la fatica di essere dirigente che per diventare tale è chiamata a mettere tutta se stessa, tutti i talenti a disposizione, pochi o tanti che siano, tutta la passione per il lavoro che si sta facendo. E poi, quando hai messo tutto questo, quando hai conquistato con l’impegno il tuo diritto a stare fianco a fianco con i colleghi dirigenti uomini, ebbene, proprio allora, molte volte devi ancora dimostrare quanto il posto che occupi è frutto delle fatiche tue e non invece il risultato di qualcosa che ti è stato comunque regalato, che hai ottenuto magari con il ricorso ad arti subdole di femmina o perfino peggio.
Ecco, le allusioni ammiccanti, le insinuazioni sleali, quei silenzi di pietra che a volte ti piovono in faccia come pugni, magari entrando non attesa in una stanza dove, chissà, i presenti stanno proprio esprimendo malignità proprio sul conto tuo.
Noi, le donne dell’Unione, le dirigenti territoriali, regionali, nazionali, rivendichiamo con tutta la nostra forza, all’interno dell’Associazione il diritto a essere considerate e giudicate solo ed esclusivamente per il nostro lavoro, per le nostre capacità, per il tempo donato alla causa e l’impegno profuso nell’esercizio del ruolo. E ancora, rivendichiamo il diritto a essere persone, donne, con i nostri sentimenti e affetti, per i quali esigiamo soltanto rispetto e silenzio.
Quante volte dovrà ancora accadere per noi donne di dover essere considerate non solo per le nostre qualità, ma soprattutto per la femminilità che vive in noi e più volgarmente per le nostre parti femminili e per le nostre scelte private? Divenga dunque davvero, questo 8 marzo di pandemia e distanziamento, una occasione di riflessione comune di donne e di uomini sul proprio modo di essere e di interpretare la propria presenza nella comunità che ci accoglie. Andare oltre le mimose, i sorrisi a volte ipocriti, le festicciole, i gentili doni, per un 8 marzo che viva con noi ogni giorno dell’anno nella correttezza e nel rispetto dei sentimenti, delle intelligenze, del corpo, delle scelte, dei desideri, degli inevitabili errori.
Nel mio nuovo ruolo di Vice Presidente Nazionale una riflessione che desidero condividere con tutti voi sui veri pilastri dell’esistenza umana: diritto alla vita, alla libertà, al lavoro, alla felicità, all’amore. Ora e sempre. Per ogni donna, per ogni uomo. Per l’uomo e la donna insieme che sono fatti della stessa sostanza.