Un’equipe “tiflopsicopedagogica” a supporto degli alunni con disabilità sensoriali, di Gianluca Rapisarda

Autore: Gianluca Rapisarda

Con il presente contributo, vorrei entrare nel merito della recentissima polemica “scoppiata” tra la Sen. Enza Blundo e l’Associazione degli insegnanti di sostegno “AsIS”, la Consulta Nazionale Docenti Sostegno e l’Unione docenti di sostegno in via di estinzione, a proposito della presentazione nei giorni scorsi da parte della Senatrice “pentastellata” aquilana di una proposta di legge volta a formalizzare la figura del “Pedagogista professionale”, inserendola nelle scuole di ogni ordine e grado.
A detta delle Associazioni dei docenti per il sostegno, se tale PDL fosse approvata, una devastante “bufera” si abbatterebbe sui 137 mila insegnanti specializzati italiani.
Il Disegno di Legge a firma della senatrice M5S prevede all’art. 8 che dall’a.s. 2019/2020 il Ministero dell’Istruzione “darà vita a un piano straordinario di immissioni in ruolo al fine di garantire in TUTTI gli Ambiti Territoriali la presenza di ALMENO un “pedagogista grafologo con multicompetenza” per ciascuna istituzione scolastica”.
Secondo gli insegnanti di sostegno, il pacchetto di proposte avanzato dalla Senatrice Blundo costituisce una vera è propria “bomba ad orologeria”, pronta ad esplodere in un settore già di per sé molto “lacunoso”.
Occorre rispetto per il sentire di ognuno, ma ritengo di non condividere le perplessità ed i facili “allarmismi” dei docenti per il sostegno, pronunciandomi al contrario a favore della proposta della Sen. aquilana del Movimento 5 Stelle. Anzi, approfitto dell’occasione per permettermi di rammentare a lei ed a tutte le altre forze politiche presenti al Senato che, a Palazzo Madama, è stata ultimamente depositata pure una PDL finalizzata al recepimento del Disegno di Legge C2656 varato dalla Camera nel Giugno del 2016, istitutivo delle figure dell’Educatore socio pedagogico e del Pedagogista, al quale il Network per l’Inclusione Scolastica (NIS) dell’UICI ha proposto recentemente un emendamento mirante all’istituzionalizzazione dei due “profili” dell’Educatore alla comunicazione per gli alunni disabili sensoriali e del “Tiflopedagogista” od “Esperto in scienze tiflologiche”.
Pertanto, l’appello che rivolgiamo accoratamente in questa sede alla Senatrice “pentastellata” Enza Blundo e naturalmente pure agli altri partiti è che la condivisibile proposta di “incardinare” la figura del “pedagogista professionale” nel sistema formativo ed educativo italiano, venga giustamente estesa anche ai sopraccitati “educatore alla comunicazione” ed all’”esperto in scienze tiflologiche”.
Mi preme sottolineare che, con tale nostra richiesta, non vogliamo assolutamente creare ulteriore confusione nel già “caotico e frastagliato modello inclusivo italiano, contrapponendo e sovrapponendo nuove figure professionali agli insegnanti specializzati attualmente in servizio. Il nostro principale scopo è, al contrario, fare un po’ di ordine nel settore del sostegno e di renderlo più omogeneo ed uniforme, facendo uscire fuori dal limbo della precarietà di ruolo, di funzione ed economica, operatori quali appunto il “pedagogista professionale e, soprattutto, gli “assistenti alla comunicazione” (ex art 13 comma 3 della legge 104 del 1992) ed i “Tiflologi”, che già da tempo lavorano a favore del processo di inclusione scolastica degli alunni/studenti con disabilità, ma senza un effettivo “riconoscimento giuridico”. Per queste due “figure” professionali, tra l’altro, si sta finalmente pensando pure ad una “specifica” formazione universitaria, attraverso appositi Master di I° e II° livello.
Immagino già le “levate di scudi” ed i commenti “inferociti” degli insegnanti per il sostegno di ruolo, dopo la lettura di questo mio articolo. Essi grideranno certamente allo scandalo, paventando per loro scenari “apocalittici” e prospettando il rischio della perdita dei loro posti di lavoro e la possibilità dello scoppio di un’autolesionistica “guerra tra poveri” in quanto, se “inquadrati” nel sistema scolastico italiano, il Pedagogista professionale, l’Educatore alla comunicazione e l’Esperto in scienze tiflologiche dovranno contendersi con loro gli esigui posti dell’organico di sostegno delle scuole.
A tali loro preventivabili preoccupazioni e scontate reazioni allarmate, mi basterà replicare che la medesima Senatrice Enza Blundo ha rassicurato che l’eventuale immissione  in ruolo del pedagogista professionale non è assolutamente finalizzata alla copertura dei posti di sostegno già esistenti.
Al riguardo voglio aggiungere, informando di ciò anche la Senatrice aquilana, che pure l’”istituzionalizzazione” da parte del MIUR delle due figure dell’educatore alla comunicazione e del tiflopedagogista, proposto dal NIS dell’UICI, non cozzerebbe affatto con le attività attualmente svolte dai docenti specializzati nelle singole Istituzioni scolastiche.
Essi, infatti, insieme ovviamente al pedagogista professionale ed allo psicologo comporrebbero una “equipe tiflopsicopedagogica” molto qualificata di “supervisori”, con il compito di coordinare e supportare (e certamente non di sostituire o contrastare) la progettazione degli interventi metodologici dei docenti per il sostegno che, pertanto, risulterebbero in tal modo valorizzati e rafforzati nella loro “specificità” didattico-educativa.
Al Pedagogista professionale, all’Educatore alla comunicazione ed al Tiflologo, insomma, non competerebbero né l’insegnamento disciplinare, né la verifica degli apprendimenti dell’alunno con disabilità, ma il dovere di supportare i docenti curricolari e e per il sostegno, il Consiglio di Classe e l’intero contesto, suggerendo metodologie e indicazioni didattiche ed educative appropriate, oltreché fornendo gli strumenti volti a rendere efficaci ed “inclusivi” gli insegnamenti, sia pur nei limiti consentiti dalla disabilità dell’alunno.
Le ragioni delle attuali carenze del sistema del sostegno italiano non derivano certo dalla proposta della Senatrice Enza Blundo o da quella del NIS dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di riconoscere finalmente ed ufficialmente i profili dell’”educatore alla comunicazione” e del ”Tiflologo”, ma vanno ricercate senza dubbio altrove.
Da quarant’anni siamo ormai a fianco delle famiglie nel seguire l’evoluzione dell’inclusione scolastica e da loro ci arrivano queste forti richieste: maggiore specializzazione dei docenti di sostegno in servizio, formazione specifica iniziale dei futuri insegnanti per il sostegno, no alla delega al docente di sostegno, grazie ad un aggiornamento continuo ed obbligatorio di tutto il personale scolastico sulle tematiche della Pedagogia speciale e della Didattica inclusiva, e maggiore continuità del sostegno stesso. È dal cercare di comprendere le cause di questi punti di debolezza del processo e di dar loro una concreta risposta che sono arrivate in questi giorni di dibattito parlamentare le nostre proposte “sostenibili” di modifica al “neonato” schema di Decreto sull’inclusione del Governo, concordate tra l’altro con la FAND e la FISH.
Le odierne criticità del sostegno italiano hanno piuttosto un carattere endemico (quest’anno la mancanza di cattedre si è avvicinata al 50%), con almeno 100mila alunni con disabilità costretti a cambiare il docente specializzato a causa degli “irrisori” posti in organico di diritto e dell’atavica assenza di un serio e “lungimirante” piano di stabilizzazione e di assunzione da parte del Ministero dell’Istruzione, che non ne vuole proprio sapere di investire e programmare in modo strutturale nel settore dell’inclusione scolastica.
Mi sembrerebbe veramente strano che i docenti di sostegno non fossero consapevoli di tali reali problematiche del nostro sistema inclusivo. Se fosse così, mi verrebbe da dire che c’è indubbiamente una vera e propria frattura tra chi opera professionalmente nel mondo della scuola e chi invece ne usufruisce come utente. Una frattura che va assolutamente ricomposta.
La professione del docente è infatti prioritariamente una “mission” educativa, che non deve essere animata solo dalla legittima difesa del proprio posto di lavoro, ma anche e soprattutto dalla tutela del superiore benessere e del “sacrosanto” diritto allo studio di tutti e di ciascuno.

Firmato il protocollo d’intesa tra l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti onlus (Uici) e il Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi (CNOP)

Roma, 8 ottobre 2015

E’ stato firmato questa mattina presso la sede della Presidenza Nazionale dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti il protocollo d’intesa tra l’UICI e CNOP – Consiglio nazionale Ordine degli psicologi volto all’attivazione di un servizio di sostegno psicologico a favore dei genitori e delle famiglie dei bambini e dei ragazzi ciechi e ipovedenti attraverso psicologi e psicoterapeuti professionisti.
Il momento in cui un genitore riceve la notizia che il proprio figlio ha un disturbo visivo costituisce un’esperienza traumatica, accompagnata da un susseguirsi di emozioni forti: il dolore per la perdita della possibilità di essere genitori di un figlio sano; il senso di colpa legato al timore che il deficit sia dovuto ad un problema genetico non precedentemente diagnosticato; l’ansia e la paura per l’incolumità fisica del bambino/ragazzo e per quello che gli riserverà il futuro nella sfera affettiva e lavorativa. La situazione poi si complica ulteriormente se al deficit visivo si aggiungono altre minorazioni.
In che modo quindi assistere ed educare un figlio con problemi visivi? Qual è l’atteggiamento corretto? Come si può evitare il progressivo aumento del trauma psicologico?
“Il protocollo d’intesa tra UICI e CNOP nasce proprio per rispondere a queste domande – afferma Mario Barbuto, presidente nazionale dell’Unione. Offriremo un servizio capillare in tutte le regioni d’Italia, per dare supporto alla parte più debole, rappresentata dai bambini e dalle loro famiglie. Troppo spesso ci dimentichiamo delle famiglie, che quotidianamente si trovano a dover affrontare i problemi derivanti dalla cecità dei loro figli”.
“È un’iniziativa importante che crea nuovi spazi professionali per la nostra categoria e, contemporaneamente, apre un contesto di impegno sociale di qualità” – dichiara Fulvio Giardina, presidente del Consiglio nazionale Ordine degli psicologi. “Sul sito del CNOP e su quelli degli Ordini territoriali saranno prossimamente pubblicate le news sul tema e i format per le adesioni da parte dei Colleghi interessati”.

Un ringraziamento da parte dei presidenti Giardina e Barbuto va a Katia Caravello, psicologa e psicoterapeuta, referente nazionale del Gruppo di lavoro attivato presso l’UICI, e al vice-presidente dell’Unione Luigi Gelmini, per aver dato il via a questo importante progetto di sostegno.

Una bussola per orientarsi- Il Serafico di Assisi: la risposta concreta alla disabilità plurima, di Katia Caravello

Autore: Katia Caravello

Rubrica per genitori.

In questo numero ci occuperemo ancora una volta di pluridisabilità, parlando di una struttura di eccellenza presente in Italia: l’Istituto Serafico per Sordomuti e Ciechi di Assisi.
L’Istituto Serafico di Assisi nasce nel 1871 per opera del francescano Padre Ludovico da Casoria (proclamato Santo da Papa Francesco il 23 novembre 2014) che si fece carico di accogliere bambini sordi e ciechi, da lui definiti “creature infelici e abbandonate” e da oltre 140 anni il Serafico continua la sua opera.
Questa è una realtà d’eccellenza del nostro Paese per i metodi all’avanguardia in campo medico e scientifico che ha come obiettivo la riabilitazione globale, rivolgendo attenzione a tutte le dimensioni della persona: fisica, psichica, affettiva e socio-relazionale.
L’elemento distintivo del Serafico è l’importanza della qualità della cura che si basa sul principio ispiratore “La vita prima di tutto” e che quindi predilige un intervento verso la persona: la correttezza scientifica si coniuga quindi all’amore e alla dedizione al prossimo.
In linea profonda con il messaggio di San Francesco, a cui il Serafico è legato sin dalla sua fondazione, tutto il personale è umanamente e sinceramente coinvolto nel rapporto con i ragazzi: uno dei messaggi di San Francesco è infatti che le persone sono, prima di tutto, da amare e comprendere, solo in questo modo si possono aiutare pienamente.

Il Serafico svolge attività di riabilitazione e valutazione diagnostico-funzionale integrando percorsi e competenze multi-professionali e attuando strategie terapeutiche e di follow-up.
L’equipe multidisciplinare, che fa capo al Direttore Sanitario, è costituita da: fisiatra, neuropsichiatra infantile, neurologa, psicologo clinico, psicologa sistemico-relazionale, pedagogista, assistente sociale, oculista, odontoiatra/gnatologa e, all’occorrenza, viene integrata con ulteriori professionalità. Molti i trattamenti riabilitativi erogati, tra i quali: idrokinesiterapia, rieducazione neuromotoria, posturale e ortopedica, logopedia, CAA, terapia mio funzionale, terapia delle funzioni visive e uditive, terapia occupazionale, etc.
Il qualificato team di esperti elabora un percorso riabilitativo individuale (PRI) per ottenere il massimo livello di miglioramento.
Il Serafico, inoltre, svolge una specifica attività di valutazione clinico diagnostica funzionale orientando strategie terapeutiche di follow-up e di prevenzione. La complessità dei casi trattati e l’alto livello di specializzazione, hanno permesso di raggiungere traguardi importanti nella cura e nella riabilitazione dell’età evolutiva. Da oltre 140 anni il Serafico non ha mai smesso di rinnovarsi e adattarsi alle nuove esigenze dei suoi utenti: per questa ragione oggi è possibile usufruire, di molte strumentazioni diagnostiche e terapeutiche innovative come l’EEG Holter, il Neater Eater e il Neater Arm Support, sistemi modulari progettati per favorire l’autonomia nell’alimentazione nei gravi deficit neuromotori.
I bambini e i ragazzi svolgono percorsi che coinvolgono tutte le aree di sviluppo al fine di una riabilitazione globale.
La struttura offre, oltre a quello residenziale, un servizio diurno per l’età evolutiva, che accoglie e si prende cura di bambini con disabilità complessa provenienti dal territorio umbro, principalmente dai distretti dell’Assisano e del Perugino, ma anche dagli altri distretti sia della ASL n°1 che n°2 dell’Umbria. Il Servizio viene svolto in stretta collaborazione con le equipe (UMV minori) delle ASL di appartenenza e le famiglie.
L’obiettivo è quello di portare avanti un intervento riabilitativo globale, finalizzato al massimo sviluppo possibile delle abilità del bambino nelle varie aree funzionali, integrando le diverse professionalità e discipline.
Infatti in riabilitazione in generale, ma soprattutto nell’età evolutiva, ogni dimensione dello sviluppo è strettamente collegata con le altre ed è particolarmente importante la condivisione fra tutte le figure coinvolte nella presa in carico del piccolo “utente”.
Prima di tutto, però, il bambino è un bambino, e come tale viene privilegiata, nell’approccio educativo e riabilitativo, la componente affettiva, relazionale ed anche ludica della presa in carico. Il gioco è fondamentale nello sviluppo psicofisico del bambino, anche con disabilità.
Risulta quindi di particolare importanza l’avere a disposizione spazi pensati sulla base di bisogni assistenziali e riabilitativi, costruiti con accorgimenti tecnici specifici e dotati di attrezzature studiate per affrontare al meglio le difficoltà di bambini con disabilità, ma anche belli da guardare e da vivere, all’interno dei quali sperimentare il contatto con l’ambiente e con l’altro in maniera giocosa, serena e proficua.

Un elemento importante dell’intervento riabilitativo è costituito dalla cura speciale rivolta alle famiglie dei bambini e dei ragazzi con disabilità.
Il nucleo familiare è considerato una risorsa essenziale per i miglioramenti del bambino: i genitori vengono ascoltati ed aiutati fornendo loro una guida e gli strumenti necessari per comunicare sempre meglio con i loro figli e affrontare le sfide quotidiane della disabilità. Viene garantito un sostegno psicologico costante che permetta ai genitori di affrontare le varie fasi della vita e gli eventi critici che possono sopraggiungere. All’interno dell’Istituto, “Profumo di casa” è il punto di incontro dove mamme e papà possono ritrovarsi, confrontarsi o semplicemente rilassarsi insieme.
La presa in carico della famiglia, però, non si limita all’accoglienza e alla cura dei genitori: non vengono infatti dimenticati i fratelli e le sorelle dei ragazzi disabili, che meritano altrettanta attenzione e sostegno. A loro viene offerta una consulenza psicologica che si traduce, per i più piccoli, in attività ludiche e di drammatizzazione fino ad arrivare a riflessioni frutto delle stesse esperienze e, per i più grandi, in incontri individuali e di gruppo volti al confronto, alla condivisione e all’aiuto reciproco.

Per informazioni rivolgersi a:
Istituto Serafico per Sordomuti e Ciechi
Viale Marconi 6, 06081 Assisi (PG)
Telefono: +39-075-812411 r.a. Fax: +39-075-816820.
Web: http://www.serafico.org
E-mail: info@serafico.org
Dott.ssa Katia Caravello
Psicologa-Psicoterapeuta. Opera in Lombardia nell’area della disabilità visiva, lavorando con ragazzi ciechi e ipovedenti e con i genitori. Componente del Gruppo di Lavoro per il Sostegno Psicologico ai Genitori dei ragazzi ciechi e ipovedenti.
e-mail: caravello.katia@gmail.com

Una bussola per orientarsi- Nello zainetto dell’alunno disabile visivo mettiamoci anche l’autostima, non solo ausili!, di Stefania Fortini

Autore: Stefania Fortini

Rubrica per genitori.

In questo numero continueremo a parlare del mondo della scuola: di seguito riportiamo l’intervento della dott.ssa Stefania Fortini-Psicologa del Polo Nazionale per la Riabilitazione Visiva di IAPB Italia-al seminario nazionale “L’inclusione scolastica dei disabili visivi: dalle problematicità del presente, uno sguardo fiducioso al futuro”, tenutosi lo scorso ottobre a Manfredonia (FG), nel quale illustra il ruolo significativo dell’autostima nella vita, anche scolastica, dei bambini/ragazzi con problemi di vista.

Se siamo qui a parlare di autostima nell’alunno con disabilità visiva è per sottolineare il ruolo chiave che gli insegnanti hanno nel contribuire al processo di costruzione dell’autostima.

L’autostima infatti, si costruisce molto presto e la famiglia, insieme alla scuola, rappresentano gli ambiti di vita del bambino nei quali l’individuo si forma.. Compito della “scuola” è quello di contribuire a valorizzare il bambino ipovedente per quello che è, anche con quei limiti che la disabilità visiva necessariamente comporta.

Riuscire in questo compito significa preparare il bambino ad affrontare le sfide del mondo esterno e le difficoltà che, comunque, si presenteranno in ogni fase della vita ( coetanei, sentimenti, fallimenti e frustrazioni) e non limitarsi o concentrarsi solo sul rendimento scolastico. …addestramento non sempre vuol dire apprendimento….

Ma cos’è l’autostima

Cosa è l’AUTOSTIMA

• Va differenziata dal concetto di SE’, che è l’insieme degli elementi a cui una persona si riferisce per descrivere se stesso (essere amico, …)

• L’autostima è una valutazione circa le informazioni contenute nel concetto di sé e deriva dai sentimenti che ha il bambino nei confronti di se stesso inteso in senso globale

•È un fattore per capire come sarà da grande, oltre che un predittore per l’adattamento alla minorazione

La discrepanza tra il sé percepito (visione oggettiva di quelle abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti) e il sé ideale (immagine della persona che ci piacerebbe essere) genera problemi di autostima

Un divario ampio determina una bassa autostima, un divario piccolo comporta un’alta autostima

Come si costruisce l’AUTOSTIMA

• L’autostima si costruisce sin dai primi giorni di vita ed ha a che fare soprattutto con il rapporto che i genitori riescono ad instaurare con il bambino ancora neonato, dandogli sicurezza e fiducia in se stesso e negli altri

• Il modo in cui viene affrontata la nascita di un bambino disabile (per i genitori è un momento traumatico) ha un ruolo determinante sullo sviluppo del bambino, soprattutto nella fase di attaccamento

• Nei primi anni di vita il bambino sviluppa un’immagine di sé in base alla percezione di una relazione positiva o negativa con le figure primarie di riferimento

• La prima relazione che il neonato conosce è quella con la figura di accudimento primaria (Caregiver), con la quale instaura un rapporto esclusivo, il «LEGAME DI ATTACCAMENTO»

• La costruzione del legame di attaccamento passa comunque attraverso un dialogo emozionale che seguirà strade diverse dalle consuete. La madre dovrà imparare ad utilizzare canali comunicativi diversi dallo sguardo (ad es suono )

• Se il legame di attaccamento manca o, precocemente, viene alterato in maniera significativa nel bambino si generano degli stati carenziali affettivi che influenzano negativamente e spesso in modo irreversibile il suo sviluppo psicofisico e sociale

• Esperienze precoci di rifiuto, di carenza d’affetto, di trascuratezza o anche richieste eccessive da parte di adulti significativi possono originare una bassa autostima

• Tipologie di attaccamento

• Dalle modalità relazionali della madre e delle altre figure di adulti importanti nella famiglia scaturiscono dei modelli diversi di attaccamento

• Attaccamento INSICURO EVITANTE

• Attaccamento INSICURO AMBIVALENTE

• Attaccamento SICURO

Attaccamento sicuro e autostima

• L’attaccamento sicuro si instaura quando la madre sa percepire i segnali del bambino e sa rispondere in maniera pronta ed adeguata: sono madri disponibili, affettuose e ricettive negli scambi

• Indicatori di bassa autostima

• Il bambino ha una scarsa considerazione di sé

• Non rischia e tende a fuggire da eventuali fallimenti (sviluppa ansia per paura di essere criticato)

• Tende ad idealizzare gli altri

• Mostra eccessiva timidezza

• Teme di non essere compreso ed essere giudicato

• Ha difficoltà ad esprimere e/o controllare le proprie emozioni

• Ha difficoltà a rapportarsi con gli altri in maniera positiva e gratificante

• Ha la sensazione di non poter controllare gli eventi della propria vita che può generare passività e depressione

A volte il bambino cerca di camuffare la bassa autostima

• Irrequietezza

• Scatti di rabbia improvvisa

• Comportamenti aggressivi ed antisociali

• Falsa sicurezza

• Arroganza

AMBITI dell’autostima: Sociale, familiare, scolastico, corporeo= autostima globale

Ambito SCOLASTICO

• È il valore che il bambino attribuisce a se stesso come studente

• È la misura in cui il bambino percepisce che è bravo quanto basta, non la valutazione delle capacità dei successi scolastici

• Se raggiunge i suoi standard di successo scolastico la sua autostima scolastica è positiva

• Il rendimento scolastico è uno dei fattori principali in grado di condizionare l’autostima nell’infanzia e nell’adolescenza

• Successo scolastico ed autostima si trovano in un rapporto interattivo

• Nell’età evolutiva la scuola è l’ambiente centrale di appartenenza e di confronto

• Oltre all’aspetto didattico bisogna curare la qualità delle relazioni allestendo un setting educativo adeguato in modo che l’alunno minorato della vista si senta realmente accettato, incoraggiato, valorizzato ed integrato nel gruppo classe – clima di cooperazione e non di competizione

COME?

Metodologie efficaci per l’integrazione dei bambini minorati della vista

• Cooperative learning

• Tutoring

• Circle time

• Peer teaching

Gli studenti ottengono migliori risultati (rispetto all’insegnamento tradizionale) su:

Piano cognitivo

Piano relazionale

Piano psicologico: migliorano l’immagine di sé e il senso di autoefficacia e sviluppano una maggiore capacità di affrontare stress e difficoltà

Come aiutare a sviluppare/potenziare l’autostima

• Adeguare il materiale didattico e l’insegnamento alla portata del bambino

• Porre obiettivi chiari, concreti, specifici e prossimi temporalmente

• Dare dei feed-back verbali positivi durante l’esecuzione del compito così da favorire lo sviluppo dell’autorinforzo e dell’autovalutazione

• Valorizzare l’impegno e la qualità del processo di apprendimento (insegnanti e genitori hanno nei confronti dei bambini ipovedenti maggiori aspettative in termini di rendimento e li sottopongono a stress maggiore rispetto a quanto fanno con i non vedenti)

• Creare in classe un clima di cooperazione e non di competizione

• Valorizzare le diversità parlando con naturalezza dell’ipovisione

• Aiutare il bambino ad attrezzarsi per affrontare il mondo esterno che non è pensato per le caratteristiche del bambino minorato della vista

In ambito scolastico…

Il ruolo dell’insegnante diviene fondamentale per mantenere, modificare o sviluppare un’adeguata percezione di Sé favorendo così lo sviluppo di una buona autostima
Se…

• Rivede la propria autostima come persona e come insegnante

• Osserva come il bambino si relaziona con se stesso, gli educatori, i compagni

• Si sintonizza sui bisogni e le aspettative del bambino

• Offre al bambino la possibilità di sperimentare l’Adulto in modo «più protettivo» quando l’attaccamento è di tipo insicuro («riparatore»)

Ambito FAMILIARE

• Riflette i vissuti che il bambino prova come membro della sua famiglia

• Un bambino che sente di essere un membro apprezzato della sua famiglia, a cui viene chiesta la sua opinione, che dà il suo contributo e che si sente sicuro dell’amore e del rispetto dei genitori e dei fratelli, avrà un’autostima positiva in quest’ambito

• Può accadere di incontrare bambini non autonomi nelle attività della vita quotidiana (vestirsi, tagliare la pizza, ecc)

• Se il bambino non è in grado di fare quello che fanno i suoi coetanei, oltre ad essere escluso si sentirà sempre più incompetente con una ricaduta sull’autostima

Ambito SOCIALE o interpersonale

• Include i sentimenti del bambino riguardo a se stesso come amico di altri

• Un bambino che riesce a soddisfare i suoi bisogni di socialità si sentirà a proprio agio con quest’aspetto di se stesso

• I bambini con disabilità visiva hanno difficoltà soprattutto con i pari a causa delle loro difficoltà ad apprendere comportamenti sociali perché non riescono a sfruttare gli indizi e i segnali visivi rispetto alle loro azioni

• Con i coetanei non entrano in relazione in maniera spontanea e spesso risultano inadeguati (isolamento, protagonismo)

• Nel gioco possono rimanere spettatori sia perché spesso vengono esclusi dal gioco sia perché hanno la tendenza a rivolgersi verso gli adulti (difficoltà visive e assenza di competizione con l’adulto)

• L’inserimento scolastico in assenza di un programma di supporto sociale adeguato può portare ad

• Isolamento

• Minori amicizie

• Minori opportunità di socializzazione

• Minori occasioni di sviluppare abilità sociali

• Spesso difficoltà anche sul piano emozionale

Percezione corporea

• È relativa alla combinazione tra aspetto fisico e capacità

• È la soddisfazione che il bambino prova rispetto a come il suo corpo appare ed alle prestazioni che riesce ad eseguire
Autostima globale

• È un giudizio complessivo sul proprio valore

• Non corrisponde necessariamente alla somma delle autostime specifiche, ma dipende dal peso che il bambino dà alle singole autostime

Conclusione

Lo sviluppo delle abilità sociali deve rappresentare una priorità per i bambini con disabilità visiva, anche per coloro che presentano normali trend di sviluppo

• Compito delle figure di riferimento è quello di aiutare il bambino ad uscire dall’eventuale influenza limitante e demotivante delle convinzioni negative sulle proprie abilità, per poter raggiungere

• un senso di controllo

• competenza personale

• la percezione di sé come individuo capace di fare

• Il bambino sarà così capace di sopportare e superare le sfide ed i fallimenti che la vita riserva, senza che questi eventi incidano sull’autostima globale

dott.ssa Stefania Fortini
Psicologa del Polo Nazionale per la Riabilitazione Visiva della sezione italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità (IAPB Italia).

Una bussola per orientarsi- Il ruolo degli Operatori per il sostegno nel Modello MODELLO I.C.F., di Daniela Floriduz

Autore: Daniela Floriduz

Rubrica per genitori.

In questo numero affrontiamo per la prima volta il tema dell’istruzione e, in particolare, grazie al contributo della prof.ssa Daniela Floriduz, parleremo del ruolo degli operatori per il sostegno.

Il modello I.C.F. (International Classification of Functioning, Classificazione Internazionale del funzionamento), mira a superare la concezione stessa di disabilità, intesa come handicap invalidante che riguarda un settore specifico della popolazione. Va riconosciuta senz’altro la menomazione, che risulta un dato biomedico, scientificamente inconfutabile e misurabile (il visus, ad esempio, viene accertato per erogare le provvidenze sociali). Al di là della menomazione, tuttavia, il soggetto “funziona” o meno a seconda della rete contestuale in cui è collocato, con la quale interagisce. L’uso delle parole non è privo di conseguenze sulla realtà e attesta anche una visione del mondo ben precisa, una percezione legata alla mentalità e agli stereotipi. Non è ininfluente il fatto che, alla fine degli anni ’60, sulla scorta dei processi di de istituzionalizzazione conseguenti al 1968, sia avvenuto un passaggio non solo semantico, ma anche culturale, filosofico, sociale dall’”inserimento” all’”integrazione” dei disabili nella scuola. L’I.C.F., per così dire, universalizza i processi di integrazione: non è la maggioranza che è chiamata ad “integrare” l’alunno disabile in una classe di persone già “integrate” e “integre”. E’ il contesto che deve continuamente ridefinirsi, adattarsi ad una realtà che scorre e muta continuamente, sfuggendo alle categorie interpretative con cui, di volta in volta, si cerca di ridefinirla e inquadrarla.
Pertanto, nel corso della vita, a seconda della tipologia di funzioni che un soggetto è chiamato a svolgere, ciascuno è abile o disabile. È dunque importante attivare una rete di supporto, un contesto operativo all’interno del quale il soggetto può “funzionare”, estrinsecando tutte le sue potenzialità. Il soggetto è dunque protagonista della propria inclusione, non come primo attore su un palcoscenico, come beneficiario di interventi di stampo assistenziale e medicalistico, ma come co-attore, responsabile del proprio iter di crescita. Viene infatti superato il modello meccanicistico e comportamentista in base al quale, una volta studiata la sintomatologia e analizzate le cause del problema, si provvedeva ad una diagnosi e ad una “prescrizione” che poi veniva estesa e applicata in casi analoghi, senza tener conto dei prerequisiti di base e delle esigenze di partenza. Lo stato di benessere non viene tout court identificato con la salute del corpo, con il funzionamento degli organi di senso o dei vari apparati dell’organismo, ma con fattori psicologici e sociali. Il contesto può rendere disabile una persona o rendere invalidante la sua disabilità. Ad esempio, se la scuola non educa il ragazzo cieco all’utilizzo autonomo dei mezzi informatici, l’alunno, oltre a mancare della funzione visiva, non potrà neanche accedere da solo alla molteplicità di informazioni presenti in rete o ad un testo elettronico o alla produzione di materiale scritto ecc. L’incapacità di utilizzare il computer non dipenderà, dunque, dalla disabilità visiva. Pertanto, risulta fondamentale che gli operatori (insegnanti di sostegno, educatori e genitori), all’inizio dell’anno, lavorino congiuntamente su un programma di attività che il soggetto può imparare a svolgere, indicando concretamente obiettivi, strategie, metodi, strumenti, persone coinvolte, esplicitando molto bene i criteri di valutazione e verificando in fase finale il grado di acquisizione di dette abilità. La molteplicità di operatori che spesso supportano un alunno disabile visivo non sempre garantisce l’esercizio autonomo delle sue potenzialità. Il lavoro degli operatori dovrebbe essere finalizzato progressivamente al superamento della necessità della loro presenza, alla scomparsa progressiva della loro insostituibilità. Il numero di ore di sostegno scolastico non garantisce, di per sé, la qualità dell’integrazione. Spesso, dove vi sono disservizi o vengono concesse poche ore di sostegno, il soggetto attiva maggiormente le proprie risorse, il contesto si responsabilizza e compartecipa. L’impianto assistenzialista della legislazione sociale italiana, compresa la legge 104/92, nonché i provvedimenti miranti, ad esempio, all’abbattimento delle barriere architettoniche, risulta focalizzato sulla rivendicazione di diritti per categorie specifiche, settoriali. Il presupposto dell’i.c.f. è una considerazione dinamica della persona e del contesto: il soggetto è in evoluzione e, pur essendo colpito da una disabilità permanente, può mutare il grado di accettazione, di convivenza, di superamento di detta disabilità nel corso della vita. Il lavoro sull’autostima e sulla fiducia nelle proprie possibilità, da questo punto di vista, risulta di fondamentale importanza. Non tutto dipende dal soggetto e non tutto dipende dal contesto: c’è un’interazione sinergica tra questi due elementi. Se, ad esempio, nel caso dell’autostima, il contesto non rimanda al soggetto messaggi di rinforzo, ma continue smentite o dichiarazioni preventive di fallimento, il soggetto non sentirà di poter far leva sulle sue risorse e peserà, nei suoi confronti, il pregiudizio negativo, secondo lo schema della “profezia che si auto avvera”. Ogni processo di educazione ha di mira la formazione di un soggetto adulto autonomo, capace di autodeterminarsi. A questo livello, gioca un ruolo molto potente anche la sfera dell’affettività. Se l’operatore si sostituisce continuamente alla persona disabile, anche e soprattutto utilizzando, sicuramente in buona fede, meccanismi di iperprotezione, risparmiando alla persona disabile i cosiddetti “urti della vita”, questa campana di vetro non farà che rinforzarsi negli anni, sarà carica di incrostazioni e sedimentazioni anche autoindotte, per cui risulterà progressivamente difficile uscire dalla cappa rassicurante, ma psicologicamente distruttiva, che gli adulti hanno consolidato intorno al disabile.
Il paradigma I.C.F. aiuta ad evitare l’etichetta degli stereotipi, positivi o negativi, dal momento che non esistono cliché e le situazioni variano a seconda dei singoli, per cui la diagnosi di handicap non dovrebbe mai precedere la persona che ne è colpita, come uno stigma o un’etichetta indelebile. Ci sono sicuramente atteggiamenti ricorrenti, che qualificano la disabilità visiva in quanto tale e ad essa si accompagnano, come dimostra la letteratura tiflologica fin qui prodotta: ad esempio, i cosiddetti cechismi rappresentano un dato che gli studi sullo sviluppo psicomotorio danno ormai per acquisito e possono rappresentare degli utili descrittori di una situazione. Tuttavia, le modalità della loro insorgenza, nonché le strategie per il loro superamento, variano a seconda delle situazioni. Non esistono cliché codificati e la persona eccede, sempre e comunque, i protocolli sanitari e le tabelle psicoattitudinali codificate. Gli strumenti di monitoraggio e valutazione rappresentano degli standard utili per descrivere il “qui ed ora”, ma poi è necessario calarli nella realtà, per verificare la possibilità di intervenire concretamente sul contesto, al fine di migliorarlo.
Il cambiamento del contesto non risulta utile soltanto alla persona con deficit visivo, ma anche al miglioramento della qualità di vita di una società nel suo complesso. Ad esempio, se, a scuola, il clima di un gruppo-classe risulta accogliente ed inclusivo, potrà beneficiarne non solo il ragazzo cieco, ma anche i suoi compagni, che magari non sono colpiti da disabilità certificate, ma che necessitano comunque di un’atmosfera integrante per estrinsecare al meglio le proprie attitudini, per superare un momentaneo disagio esistenziale, per ritrovare fiducia in se stessi ecc. Gli insegnanti di sostegno, nei corsi di formazione che sono chiamati a seguire, imparano per prima cosa, quasi come un mantra o un dogma, che, prima di tutto, il loro lavoro è rivolto all’intera classe: sono parte integrante del consiglio di classe, a tutti gli effetti, concorrono dunque alla valutazione complessiva degli alunni, come ogni altro docente. Questo significa, però, che la presenza del disabile deve costituire un valore aggiunto all’interno del gruppo, che gli interventi mirati sono efficaci solo per colmare il divario che la tecnologia o la metodologia didattica inevitabilmente comporta, in certe fasi dell’apprendimento. Il ruolo dell’insegnante di sostegno è quello di aiutare l’alunno disabile a padroneggiare le tecnologie che possono renderlo autonomo, ad esplorare l’ambiente, ad attivare strategie di socializzazione: si tratta di momenti di formazione inevitabilmente specifici, una volta a carico degli istituti e delle scuole speciali. Si tratta di un’attrezzatura, di un bagaglio di prerequisiti che devono rendere l’allievo in grado di affrontare qualsiasi momento di formazione in autonomia. Ciò non esclude che la specifica formazione possa rappresentare poi un arricchimento per l’intera classe: ad esempio, l’apprendimento del Braille potrebbe essere un’ottima opportunità didattica anche per gli alunni normodotati, che avrebbero così modo di confrontarsi con codici di accesso al sapere diversi, magari anche unitamente all’insegnamento della Lis o di altre forme di comunicazione e scrittura.
Superare la marginalità è una condizione dinamica, soprattutto a livello psicologico: richiede la capacità di gestire la frustrazione, di comprendere che ciascun individuo, a seconda delle situazioni, può trovarsi esistenzialmente ai margini o al centro del contesto, di essere capaci di lavorare anche a partire da una situazione di dislocazione marginale, per migliorare il quadro complessivo.
Nessuno rimane stabilmente ai margini di una cultura.
D’altra parte, l’accesso alle risorse va adeguatamente distinto dalle competenze d’uso delle medesime: il deficit visivo insegna a non rimanere ancorati dogmaticamente ed esclusivamente ad un ausilio, ma a diventare flessibilmente capaci di adattarsi alle esigenze della realtà e della vita, maneggiando, all’occorrenza, tutti gli strumenti resi disponibili dalla tecnologia e dalla tradizione. La scrittura in Braille con tavoletta e punteruolo, ad esempio, non può essere abbandonata perché c’è stato l’avvento dell’informatica: l’alunno cieco deve essere in grado di scrivere una cartolina in Braille quando va in vacanza e non ha a disposizione il pc e la stampante. Non solo: l’utilizzo della tavoletta attiva competenze di natura psicomotoria (lateralizzazione, direzionalità, abilità tattili), utili anche nella sfera della mobilità autonoma. Non esiste un ausilio miracolistico, una panacea per tutte le situazioni, lo strumento migliore in assoluto, ma ci sono mezzi funzionali al raggiungimento di un determinato scopo e gli operatori devono interrogarsi circa l’ausilio che, di volta in volta, permette all’alunno di conseguire al meglio l’obiettivo educativo e didattico su cui si intende lavorare. Pertanto, la valutazione di una competenza operativa deve evidenziare le abilità nell’utilizzo delle risorse atte a raggiungerla ed attuarla. Vale anche il discorso inverso: l’accesso alle risorse non sempre denota un’adeguata padronanza delle competenze ad esse legate. Se, ad esempio, l’alunno disabile visivo sa utilizzare adeguatamente il navigatore satellitare presente sul telefonino, ma non è in grado di orientarsi per strada né di girare autonomamente, l’utilizzo della risorsa è disgiunto dalla competenza, con il pericolo del verbalismo, molto spesso associato alla cecità.
L’acquisizione di una competenza dev’essere valutata anche tenendo conto del supporto e dell’aiuto prestato eventualmente nell’esecuzione del compito, l’aiuto può essere anche solo psicologico, ma va comunque segnalato nella descrizione delle abilità e competenze del soggetto.
In tal senso, l’I.C.F. insegna anche un utilizzo corretto del linguaggio, come descrittore di una situazione in un dato momento, non come generatore di stereotipi o alimentatore di ipocrisie. L’antica diatriba sull’utilizzo dell’espressione “non vedente” al posto di “cieco”, nasconde, a volte, la difficoltà a reagire di fronte alla disabilità visiva e a descriverla per quello che è. Dietro le parole ci sono spesso cattive prassi ed errori concettuali, per cui la qualità dell’intervento e la sua inclusività vengono frenate proprio dalla mancanza di chiarezza terminologica, che rappresenta, poi, mancanza di onestà intellettuale e di limpidezza di pensiero. Ciò incide, ad esempio, nelle schede di valutazione che si producono in ambito scolastico e che rispondono, spesso, a necessità di tutela formale degli operatori, grondano di riferimenti burocratici, ma non modificano la prassi e l’intervento. Classificare aiuta certamente a valutare, ma non si deve essere prigionieri di una griglia, essa va adattata alla situazione e riformulata secondo le necessità, seguendo l’evoluzione del soggetto. Specificare meglio i comportamenti operativi, mediante l’utilizzo di un linguaggio adeguato, vuol dire diventare maggiormente efficaci, rispettosi, attinenti, democratici, nonché favorire la chiarezza e la comunicazione tra gli operatori. La valutazione deve esplicitare i criteri utilizzati, le modalità e i tempi di osservazione. L’I.C.F. non utilizza giudizi, ma qualificatori, dei semplici descrittori che possono mutare se cambiano le condizioni. L’I.C.F. parla di “co-design”: ogni operatore chiamato a valutare un soggetto è portatore di un punto di vista specifico, la valutazione deve necessariamente diventare anche autovalutazione. Ciò non significa relativismo solipsistico: mettendo insieme i diversi punti di vista, è possibile ottenere un quadro completo. Nessuno ha un canale di osservazione privilegiato, il confronto può costare fatica, ma è l’unico modo per ottenere un quadro il più possibile circostanziato e completo, al fine di produrre un intervento educativo e didattico mirato, adatto alla persona e al suo ambiente di vita.

Daniela Floriduz
Docente di storia e filosofia presso il liceo classico Leopardi-Majorana di Pordenone, componente la Commissione Nazionale Istruzione e la Commissione per la tutela dei diritti degli insegnanti dell’Uici.

Una bussola per orientarsi- Intervento precoce residenziale presso la Fondazione Robert Hollman di Cannero Riviera: un approccio centrato sulla famiglia, di Elisa Moroni e Josee Lanners

Autore: Elisa Moroni e Josee Lanners

Rubrica per genitori.

Apriamo il 2015 conoscendo le attività del Centro di Cannero Riviera della Fondazione Robert Hollman, grazie all’aiuto delle dott.sse Elisa Moroni e Josee Lanners (rispettivamente terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva e vicedirettrice del Centro).
Il Centro di Cannero Riviera della Fondazione Robert Hollman si occupa dell’approccio precoce al bambino con deficit visivo ed eventuali altre disabilità. Propone ai bimbi e alle loro famiglie un intervento residenziale di consulenza e sostegno dalla nascita ai 5 anni dei piccoli, rivolgendosi a nuclei familiari provenienti da tutto il territorio italiano tramite interventi gratuiti.
L’impostazione teorica di riferimento, così come avviene presso il Centro di Padova, pone gli aspetti ri-abilitativi e di consulenza all’interno di una cornice più ampia di attenzione agli aspetti emotivi e alla relazione. Ciò va inteso sia come lavoro sugli aspetti affettivo-relazionali che fungono da sfondo a tutte le attività proposte sia come attenzione allo sviluppo psicoaffettivo del bambino stesso. L’intervento è quindi rivolto alla famiglia nel suo complesso e si snoda attraverso l’accoglienza di ciascuna realtà, il sostegno della relazione genitore-bambino, la comprensione dei bisogni del bambino e la conseguente attuazione di un intervento preventivo-abilitativo o terapeutico-riabilitativo. Tutti questi elementi diventano essenziali per la realizzazione di un progetto globale ed individualizzato offerto alla famiglia.
Trattandosi di un intervento precoce risulta essenziale considerare i bambini a cui si rivolge nel loro contesto relazionale. I genitori risultano quindi parte integrante e a loro volta destinatari dell’intervento poiché “Non esiste una cosa che si chiama ‘un lattante’, intendendo con ciò che se ci mettiamo a descrivere un lattante ci accorgiamo che stiamo descrivendo un lattante con qualcuno. Il bambino piccolo non può essere da solo ma è fondamentalmente parte di una relazione” (Winnicott, 1947).
In particolare il Centro offre un intervento di tipo residenziale con lo scopo di fornire uno spazio ed un tempo privilegiati nei quali la famiglia può dedicarsi a se stessa, condividere la propria esperienza con altre famiglie sia in momenti formali che informali ed affrontare inoltre le difficoltà di gestione quotidiana del bambino con l’affiancamento degli operatori se necessario.
La presa in carico avviene attraverso un primo soggiorno residenziale della durata di 3 settimane per i bambini sotto i 2 anni di età oppure di una settimana per quelli più grandi. Il primo soggiorno viene poi seguito da ulteriori soggiorni di una settimana con cadenze concordate con la famiglia. Parallelamente possono essere proposte giornate di osservazione/valutazione ai fini di un inquadramento funzionale dello sviluppo oppure un monitoraggio di quest’ultimo.
Gli interventi specifici rivolti al bambino hanno come obiettivo generale quello di individuare e comprendere precocemente i bisogni e le risorse del piccolo per attivare proposte condivise tra genitori ed operatori, volte a promuovere il benessere e lo sviluppo di ciascun bambino nel proprio ambiente. Proprio per l’unicità di ciascun bambino riteniamo importante la presenza di un tempo dedicato a conoscere ed osservare bisogni e potenzialità di ogni piccolo. Questa conoscenza preliminare avviene grazie all’ascolto dei genitori e attraverso le osservazione dirette degli operatori ed è fondamentale affinché si possa individuare un piano ri-abilitativo specifico ed individualizzato, pensato proprio per quel bambino e per la sua famiglia.

Vengono quindi proposte diverse attività con obiettivi specifici adattati alle necessità di ciascun bambino:
– Valutazione ortottica, riabilitazione visiva, neuro-visiva e visuo-motoria: per accompagnare il bambino ad essere consapevole del proprio potenziale visivo ed imparare ad utilizzarlo al meglio, integrandolo nella quotidianità;
– Neuropsicomotricità e psicomotricità: per accompagnare il bambino a scoprire il piacere di relazionarsi con l’altro, conoscere e sperimentare il proprio corpo e il movimento. Sostenere e facilitare l’acquisizione delle competenza motorie e i prerequisiti di orientamento e mobilità;
– Attività di gioco/multisensorialità: per sostenere il bambino nella motivazione al gioco, nella comunicazione, condivisione e scambio con l’altro, nell’acquisizione di autonomie personali e nell’integrazione plurisensoriale;
– Gruppi di gioco genitori/bambini, massaggio infantile e musicoterapia: per sostenere la dimensione relazionale tra bambini, genitori e famiglie.
Un tempo viene dedicato anche a capire quale possa essere l’assetto emotivo e psicologico della famiglia; attraverso la raccolta anamnestica e colloqui con i genitori si cerca di comprendere meglio come la nascita di un bambino con disabilità influisca sulla funzione genitoriale, soprattutto alla luce del processo di elaborazione del lutto che i genitori devono o dovranno affrontare: al bambino immaginato si contrappone la realtà di un bimbo di cui prendersi maggiormente cura.
Gli interventi rivolti ai genitori hanno come obiettivo quello di accoglierne le difficoltà emotive e sostenere il processo di “empowerment”, ovvero di accrescimento delle competenze genitoriali percepite, aiutando i genitori a sentirsi competenti nel promuovere lo sviluppo e il benessere del proprio bambino.
In particolare alle famiglie vengono offerti:
– Sostegno psicologico attraverso colloqui individualizzati;
– Gruppi di sostegno facilitati ad orientamento psicodinamico;
– Un accompagnamento costante durante le attività con i bambini per facilitarli nel riconoscere le esigenze dei piccoli, la loro comunicazione e i bisogni e per promuovere la comprensione del progetto abi/riabilitativo proposto.
In generale, l’intervento proposto è di tipo integrato per offrire al bambino un ambiente psicologicamente adeguato che lo faciliti ad esprimere al meglio le proprie potenzialità e per restituire alla famiglia l’immagine del bambino nella sua globalità ed accompagnarla a comprenderlo, sostenendo la relazione genitore-bambino.
Il lavoro di osservazione, intervento ed accompagnamento di genitori e bambino viene svolto da un’equipe multidisciplinare. La presenza di diverse figure professionali e l’integrazione costante del loro lavoro conferisce un valore aggiunto ai singoli interventi. Consente infatti di sfruttare le conoscenze tecniche di ciascun operatore e di condividerle con gli altri con lo scopo di attuare un intervento ri-abilitativo che tenga conto di ciascuna area di sviluppo del bambino attraverso un’integrazione coerente delle proposte effettuate e delle indicazioni fornite.
Infine, obiettivo dell’intervento è anche quello di confrontarsi e dialogare con le altre strutture di riferimento della famiglia e di accompagnarla ad individuare centri territoriali a cui rivolgersi per costruire un’efficace rete di supporto. I contatti con gli altri centri vengono mantenuti nel tempo, in modo da favorire una collaborazione all’interno della quale condividere ed integrare le osservazioni emerse. L’obiettivo è quello di individuare gli interventi più appropriati per supportare l’intera famiglia ed accompagnarla nel percorso di crescita del bambino.
La motivazione che spinge i genitori a rivolgersi alla Fondazione Robert Hollman è il bisogno di attivare un intervento rivolto in modo specifico al proprio bambino, in seguito ad iniziativa personale o indicazione di altri genitori e/o Centri, Strutture Ospedaliere o Territoriali.
Durante i primi contatti l’urgenza è solitamente quella di comprendere le difficoltà del proprio bambino e di conseguenza attivare interventi riabilitativi per recuperare ed eliminare le difficoltà. Sulla base di tali richieste vengono attivati fin da subito interventi volti ad osservare le risorse e le difficoltà del piccolo per poter individuare le modalità più appropriate di intervento. Parallelamente, in considerazione dello stato di fragilità emotiva in cui si trova una coppia genitoriale alle prese con una situazione così difficile, vengono fin da subito attivati gli interventi volti ad offrire aiuto anche a loro. Questo si realizza nell’accogliere le loro preoccupazioni sullo sviluppo del figlio, aiutandoli a ritrovare una dimensione evolutiva rispetto al futuro del proprio bambino tramite l’osservazione non solo delle difficoltà ma soprattutto delle sue risorse e potenzialità. Questo avviene attraverso l’accompagnamento ed il sostegno quotidiano dei genitori nello “stare con” il proprio piccolo, ri-scoprendo il piacere del tempo condiviso. Concretamente si realizza con la presenza dei genitori nelle stanze di attività sia attraverso la possibilità di osservare insieme e a tappeto la modalità di ciascun bambino di comunicare e di entrare in relazione con gli altri sia attraverso rimandi costanti tra operatore e genitore. L’attenzione posta al bambino non ha quindi finalità esclusivamente riabilitative ma ha lo scopo di aiutare il piccolo e la sua famiglia a trasferire momenti preziosi di crescita e benessere anche nella propria quotidianità. Per tali ragioni ai genitori vengono fornite indicazioni su come portare l’esperienza fatta al Centro anche nella vita di tutti i giorni: per esempio vengono accompagnati a capire come costruire a casa un angolino gioco con le caratteristiche visuo-tattili più adatte per il loro bambino, si sperimentano facilitazioni posturali utili in diversi momenti della quotidianità, si forniscono per il periodo del soggiorno giochi o ausilii utilizzati in attività e, se i genitori ne hanno piacere, possono essere affiancati in momenti particolarmente intimi e delicati che talvolta risultano un po’ difficili come ad esempio il momento della pappa o della nanna. La residenzialità rende possibili queste attenzioni alla quotidianità ed una buona flessibilità organizzativa della giornata di ciascun bambino, pensata in base al suo ritmo sonno-veglia affinché possa godere appieno dei momenti di attività dedicati a lui.
Dall’esperienza accumulata nel corso degli anni e in riferimento alla nostra cornice teorica, riteniamo che l’intervento più appropriato e vincente sia quello che riesce a coinvolgere tutta la famiglia, favorendo nel bambino il benessere emotivo. Sperimentare un ambiente accogliente, affettivo ed attento ai propri bisogni pratici ed emotivi permette infatti al bambino di sentirsi compreso. Lo incoraggia ad avere fiducia nel mondo circostante, a scoprire il piacere ed il desiderio di aprirsi all’altro, esplorare, sperimentare e capire. Per tale motivo ciò che viene proposto durante i soggiorni presso il nostro centro non vuole essere un intervento riabilitativo di tipo intensivo, bensì uno spazio e un tempo privilegiati. Qui i genitori possono sentirsi meno soli condividendo le proprie esperienze e le proprie emozioni con altre famiglie e con personale formato, ed i bambini vengono accompagnati da operatori qualificati a trovare le modalità più adeguate attraverso le quali crescere.

Dott.ssa Elisa Moroni
Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva presso la Fondazione Robert Hollman di Cannero Riviera
Josée Lanners
Vicedirettrice Fondazione Robert Hollman di Cannero Riviera

Una bussola per orientarsi- La Cooperativa Sociale Luce e Lavoro O.N.L.U.S., di Elena Brunelli

Autore: Elena Brunelli

Rubrica per genitori.

In questo numero inizieremo a conoscere le strutture che sul territorio nazionale si occupano di persone con pluridisabilità. Oggi la dott.ssa Elena Brunelli ci presenterà la cooperativa sociale Luce e Lavoro di Verona (nella quale è uno degli educatori ed il coordinatore); Luigi Gelmini, attuale Vice-Presidente Nazionale dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, è uno dei soci fondatori della cooperativa e, dal 2000, il Presidente.
Il Gruppo di lavoro per il Sostegno Psicologico ai Genitori dei ragazzi ciechi e ipovedenti augura a tutti un sereno S.to Natale ed un felice anno nuovo e vi dà appuntamento al 2015!

La Cooperativa Sociale Luce e Lavoro viene fondata nel 1982 dai coniugi Aldo e Gabriella Teza insieme ad un gruppo di soci fondatori, sotto l’egida del Movimento Apostolico Ciechi. Prima e forse ancora unica realtà nel suo genere in Italia, è nata con la finalità prioritaria della promozione umana e sociale della persona non vedente con pluriminorazione, da un punto di vista occupazionale, cognitivo, affettivo, sociale e relazionale ed integrazione nel proprio contesto territoriale.
L’idea, per quel tempo innovativa, era creare uno spazio dedicato affinché le persone non vedenti con minorazioni aggiuntive, una volta assolto l’obbligo scolastico, potessero ritrovarsi e stare insieme, condividendo insieme i vari momenti della giornata. I Padri Vincenziani di Quinzano misero a disposizione alcuni locali, in modo da dare avvio all’iniziativa. Iniziò l’avventura un piccolo gruppo di cinque giovani non vedenti pluriminorati, aiutati da una volontaria.
Nei primi anni novanta, su precisa istanza delle U.L.S.S. e di altre Istituzioni sociali, la Cooperativa si trasforma in Centro Educativo Occupazionale Diurno (C.E.O.D.) convenzionato con lo stesso Ente Pubblico, e su richiesta di numerose famiglie, diventa un referente educativo sul territorio sempre più mirato alla promozione umana e sociale delle persone cieche con altre disabilità. Il gruppo si amplia notevolmente in brevissimo tempo, passando da cinque alle quindici unità.
L’ Equipe di lavoro è attualmente composta da personale adeguatamente formato: un’educatrice, 5 operatori socio-sanitari, una segretaria.
Il deficit visivo e la pluridisabilità espongono la persona con disabilità ai pregiudizi sociali e culturali: viene identificata spesso con il suo limite, mettendone in secondo piano la personalità e le potenzialità.
Le situazioni ambientali, culturali, sociali ed educative poi incidono fortemente sulla crescita dei soggetti influenzandone lo sviluppo motorio, cognitivo, emotivo, sociale e relazionale; è pertanto prioritario favorire un ambiente idoneo alla promozione della persona cieca pluriminorata garantendo:
” la promozione umana e sociale della persona nella sua integrità e la partecipazione attiva del soggetto svantaggiato, nonché il sostegno ed il sollievo alla famiglia”… (riferimento all’articolo 3 dello Statuto).
La progettazione educativa è uno strumento fondamentale del servizio che permette l’interazione tra il servizio stesso, l’utente, l’operatore e la famiglia, tenendo conto sempre dello sviluppo globale della persona interessata in base alle proprie caratteristiche personali, i propri interessi, le proprie capacità di base e quelle possibili da sviluppare. L’obiettivo principale è creare un ambiente favorevole che aiuti l’ospite a raggiungere gli obiettivi che più corrispondono ai propri bisogni, sia attivando percorsi di gruppo, sia favorendo percorsi individualizzati.
Attualmente vengono promosse attività di mantenimento, potenziamento e sviluppo di abilità cognitive, motorie, relazionali, di autonomia personale e di partecipazione sociale, e i vari laboratori sono mirati al recupero delle abilità manuali e al potenziamento delle esperienze sensoriali, cercando di stimolare e sviluppare al massimo grado le capacità residue, come ad esempio il recupero della letto-scrittura in nero e in Braille, e di fornire competenze e/o abilità spendibili nella vita quotidiana, puntando soprattutto sull’autonomia personale in ogni contesto attraverso il lavoro di assemblaggio, il confezionamento di semplice oggettistica, manufatti e bomboniere, oltre che percorsi individualizzati e mirati al potenziamento delle abilità di base nelle azioni di vita comunitaria quotidiana.
Il tutto viene svolto in un contesto di clima famigliare, dove ognuno al suo interno si sente accolto e parte integrante nel quale poter esprimere la propria personalità, condividendo insieme agli altri compagni la gioia di vivere insieme momenti di quotidiana vita familiare.
In collaborazione con alcune istituzioni e collaboratori esterni, vengono predisposti percorsi riabilitativi e di mantenimento motorio sia in palestra che in piscina, terapia assistita con l’animale (pet-therapy), interventi di orientamento e mobilità, musicoterapia.
Da poco le attività della cooperativa si sono spostate in una sede sociale nuova, un vecchio rudere ristrutturato grazie ai contributi di enti pubblici e privati comunali, provinciali e regionali. Il centro debitamente arredato secondo le necessità della persona non vedente con altre disabilità offre una capienza e una metratura tale da poter accogliere fino ad un numero massimo di 30 inserimenti in breve tempo.
Usufruendo di spazi più ampi potremmo ipotizzare il potenziamento di alcune attività già esistenti, aprendo il centro anche alla comunità per continuare l’opera di sensibilizzazione nei confronti della tematica complessa della cecità legata alla pluridisabilità. Ciò potrebbe far emergere ulteriori bisogni sul territorio che ci auguriamo poter essere in grado di soddisfare, magari proponendo ulteriori progettualità anche nell’ottica di riqualificazione del nostro servizio.
Per non dividere gli ospiti che da più di trent’anni hanno avuto modo di consolidare un rapporto di amicizia, e che tutt’oggi si frequentano quotidianamente, la cooperativa Luce e Lavoro sta progettando anche una realtà di tipo residenziale, per accogliere in un prossimo futuro gli stessi ospiti che diventano anziani, dando continuità al loro progetto di vita insieme.
Promuoverne l’autonomia e l’integrazione sociale, sostenere e sviluppare le capacità possibili per una migliore qualità di vita e crescita personale della persona con disabilità significa condividere che:
“…ogni essere umano è unico e irripetibile e possiede più che menomazioni e deficit, dei talenti che debbono essere esaltati e potenziati per valorizzare e caratterizzare una determinata personalità…”
(Enrico Montobbio)
Dott.ssa Elena Brunelli Educatore/coordinatore
Cooperativa Sociale Luce e Lavoro o.n.l.u.s.
Via del Pestrino, 4/A
37134 Verona
Tel. e Fax 045 918641
Sito: www.cooperativaluceelavoro.it –
E-mail: info@cooperativaluceelavoro.it ”
IBAN: IT85 O 05034 11719 000000070055

Una bussola per orientarsi- La creatività: un aiuto contro la disabilità, di Katia Caravello

Autore: Katia Caravello

Rubrica per genitori.
In questo numero, parleremo di “creatività” e di come essa può essere un valido aiuto contro la disabilità e, conseguentemente, come possa contribuire ad elevare l’autostima ed il livello di benessere psico-fisico dei bambini e dei ragazzi ciechi e ipovedenti.
Lo scopo di queste pagine è quello di stimolare una riflessione sulla creatività e su come essa possa aiutare le persone con disabilità-specie quelle più giovani-a superare i limiti che ancor oggi ostacolano la piena espressione delle proprie potenzialità nella costruzione dei personali progetti di vita e lo farò partendo dalla definizione del termine “creatività”.
La “creatività” è la “virtù creativa, capacità di creare con l’intelletto, con la fantasia. In psicologia, il termine è stato assunto a indicare un processo di dinamica intellettuale che ha come fattori caratterizzanti: particolare sensibilità ai problemi, capacità di produrre idee, originalità nell’ideare, capacità di sintesi e di analisi, capacità di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze”. Da questa definizione, tratta dal vocabolario on line Treccani, si desume la prima informazione importante: la creatività è una “capacità”, quindi un’attitudine che può essere appresa, non dipendente esclusivamente dalla genetica (i geni, infatti, non sono capaci di gestire i cambiamenti fisici e mentali che si manifestano nell’arco di una vita).
Nel pensiero comune, la creatività è una qualità ad appannaggio di pochi (artisti, inventori, designer) e vengono definiti “creativi” idee ed atteggiamenti semplicemente diversi, strani, bizzarri o trasgressivi, sovrastimandone la componente di novità e sottostimando, se non addirittura ignorando, caratteristiche rilevanti come l’efficacia e l’adeguatezza, in assenza delle quali non è possibile definire pensieri e comportamenti come davvero creativi. recentemente, si è arrivati persino ad utilizzare l’aggettivo “creativo” in un’accezione negativa, per etichettare soluzioni tanto spettacolari quanto discutibili (ad es. finanza creativa).
Non trattandosi semplicemente di una dote innata, bensì di una capacità, la creatività è un qualcosa che va coltivato, sviluppato e fatto crescere sfruttando tutte le opportunità e le casualità offerte da un ambiente adeguato: in termini di sviluppo della creatività, dotazione genetica ed ambiente interagiscono costantemente, compensando o accentuando le reciproche influenze, sia in senso positivo che negativo.
La creatività, quindi, è la capacità di sfruttare la plasticità del cervello per rispondere alla complessità degli eventi, mettendo in funzione le molteplici ed articolate funzioni intellettive di cui ciascuno è geneticamente dotato. Come un blocco di marmo prende la forma pensata dalla creatività dello scultore, così il cervello umano può essere potenziato da noi stessi, migliorando coscientemente le funzioni intellettive, ed acquisendo in tal modo un benessere derivante dalla fiducia nelle proprie naturali capacità creative.
Essere creativi non significa solo inventare qualcosa di nuovo o essere originali per forza, ma essenzialmente significa trovare soddisfazione nell’utilizzare al meglio le potenzialità di sviluppo del proprio cervello.
La creatività è uno stile di pensiero che si esprime in processi mentali caratteristici. Procede essenzialmente per associazioni tra idee, concetti, fatti, e dà origine a idee e concetti nuovi, invenzioni, scoperte: quindi a risultati tanto originali quanto efficaci.
L’intuizione che la creatività sia uno stile di pensiero, che deriva da un altrettanto specifico atteggiamento mentale e comportamentale, nasce agli inizi del Novecento (i primi studi importanti sul fenomeno risalgono agli anni ’20).

Quando ci si trova di fronte ad un problema, ad una difficoltà o, più in generale, ad una situazione che esige una soluzione e, per qualsiasi motivo, ci si trova nell’impossibilità di agire in conformità con il comportamento adottato dalla maggioranza delle persone, ci si blocca e si esclude l’esistenza di risposte alternative (o si ha paura di metterle in atto perché diverse da quelle normalmente adottate. Il pensiero ed il comportamento umano, infatti, nella maggior parte dei casi, è guidato da quello che J.P. Guilford (1950) definì “pensiero convergente”.
Il pensiero convergente consiste essenzialmente nel riconoscere e riprodurre una sola possibilità di soluzione giusta. Il “pensiero divergente”, al contrario, si muove in più direzioni e porta a molte soluzioni individuali tra cui quella universalmente definita come “la risposta corretta” non rappresenta che una delle strade possibili. Adottare un pensiero divergente corrisponde quindi alla possibilità di generare idee nuove, indipendenti, originali e per nulla scontate. Alcuni studiosi hanno approfondito il legame sottile che unisce il pensiero divergente alla creatività umana.
L’uso del pensiero divergente-definito anche “pensiero laterale” o “processo analogico”-può aiutare l’individuo, e in particolar modo il bambino, ad ampliare e a promuovere la propria creatività. Le “persone creative” sono quelle che manifestano ingegno, che riconoscono nessi generalmente trascurati ed ignorati, che propongono soluzioni insolite ai soliti problemi.
Secondo il medico psicologo Edward De Bono, è consigliabile adottare un atteggiamento volto a utilizzare in modo sinergico e complementare il pensiero laterale al fine di riconoscere e modificare i criteri e le idee dominanti: esse, infatti, polarizzano la percezione di un problema, impedendo di cercare nuovi punti di vista per valutarlo; in questo modo non è possibile rendere più flessibile il controllo rigido del pensiero logico-lineare e, di conseguenza, si frena lo sviluppo della creatività.
Pensare in maniera “creativa” vuol dire farsi domande e affrontare problemi o quesiti a partire da solide conoscenze , ma adottando nuove prospettive, con l’obiettivo di trovare soluzioni innovative ed efficaci qualsiasi sia l’ambito di applicazione. Questo stile di pensiero si esprime in un processo che ha andamenti non sempre lineari, e consiste nel raccogliere, selezionare e riconfigurare le informazioni necessarie tra tutte quelle disponibili, individuando connessioni utili a generare conclusioni nuove.

La creatività è quindi un’abilità trasversale, non limitata a un singolo settore privilegiato dell’attività umana, ma che, al contrario, può essere applicata a campi diversi (arti, scienze, tecnologia, impresa): in quest’ottica, si può definire la creatività come La qualità alla base dell’attitudine umana di adattarsi alle circostanze e di adattare le circostanze a sé…ed è qui che il tema della creatività si intreccia con quello della disabilità.

Al fine di riflettere sul legame tra creatività e disabilità, dopo aver già definito la prima, ritengo utile dare una definizione della seconda.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) definisce la disabilità come “qualsiasi limitazione o perdita della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano”. Da tale definizione si desume che la disabilità non è un indicatore oggettivo, ma che, al contrario, varia da soggetto a soggetto: ad una stessa menomazione-quindi ad uno stesso danno organico-possono corrispondere livelli differenti di disabilità.
Una persona portatrice di una menomazione fisica o sensoriale ha sicuramente dei limiti oggettivi, il suo livello di disabilità dipenderà dalla sua capacità di superare ed aggirare tali limiti.
Per illustrare meglio questo concetto utilizzerò un esempio: una persona cieca assoluta che desidera leggere un libro. Per una persona vedente questa è un’operazione semplice-è sufficiente che lo vada a comprare o lo prenda in prestito, lo apra ed inizi a sfogliarlo-, ma per le persone non vedenti la faccenda si complica, la versione cartacea è inaccessibile (limite oggettivo) e, per soddisfare il proprio desiderio, dovranno necessariamente trovare un modo per superare tale inaccessibilità. Mettiamo a confronto tre ipotetiche persone, tutte ugualmente cieche, e constatiamo come, in presenza del medesimo deficit sensoriale, il loro livello di disabilità sia differente: l’individuo A è in possesso di un lettore MP3, sa utilizzare il computer con sintesi vocale, ma non ha uno scanner, non sa navigare in internet e non conosce il braille; l’individuo B conosce il braille, sa utilizzare il computer, ha uno scanner…e ha anche uno smart phone; l’individuo C non ha né le competenze né gli strumenti che hanno A e B. Valutando il livello di disabilità di questi tre soggetti sulla base di quanto sono limitati nell’attività della lettura, si può osservare che: il soggetto A sarà meno disabile di C, ma più di B, in quanto ha più possibilità di leggere un libro di quanto non abbia C (potrà ascoltarlo mediante il lettore MP3 oppure leggerlo grazie al computer sia in formato audio che testo), ma ha meno possibilità di quelle che ha B, il quale, in aggiunta, può anche procurarsi un volume in braille, scaricare autonomamente gli audiolibri da internet, digitalizzare autonomamente il libro cartaceo e può anche acquistare l’ultimo best seller con lo smart phone); il soggetto C, infine, come unica possibilità, ha quella di chiedere ad un’altra persona di leggere per lui, ma ciò limita fortemente la sua libertà di leggere, in quanto deve, innanzitutto, trovare chi è disposto a farlo, stare ai suoi tempi ed orari, senza dimenticare che un essere umano si affatica e ad un certo punto deve fare una pausa (che magari, potendo leggere autonomamente, C non farebbe).
Può sembrare strano parlare di creatività riferendosi alla lettura di un libro, ma quando tale attività, a causa di un deficit visivo, diventa un problema, la creatività è quella abilità che consente ad una persona cieca o ipovedente di non fermarsi di fronte all’impossibilità di leggere un libro semplicemente sfogliandolo e che le permette, invece, di soddisfare il proprio desiderio di leggere, al pari delle persone vedenti intorno a lei (anche se con qualche difficoltà in più).
La lettura di un libro è una difficoltà relativamente semplice da superare, per la quale non è necessaria una grande creatività, ma ci sono tante tante altre attività della vita quotidiana che per un individuo con un deficit fisico e/o sensoriale rappresentano dei problemi, che vanno ad inficiare la qualità della sua vita, abbassando il livello di autostima e di benessere psico-fisico.
E’ per tali situazioni che il pensiero creativo può costituire un valido aiuto ed è per questo che è importante promuovere la creatività nelle persone con disabilità, soprattutto nei bambini e nei ragazzi.
Favorire lo sviluppo della creatività di queste persone significa dare loro uno strumento per superare i propri limiti o, quanto meno, per aggirarli e ciò, come già detto, si ripercuote positivamente sul livello di autostima e sul benessere.
La creatività è uno stato mentale che, se esercitato nella ricerca di soluzioni per problemi di piccola entità, potrà diventare l’atteggiamento abituale con cui affrontare tutte le difficoltà della vita.
Essere in grado di non fermarsi davanti alle difficoltà, individuando soluzioni efficaci per superare gli ostacoli nei quali ci si imbatte quotidianamente (ed una persona cieca o ipovedente si scontra spesso con mille di queste difficoltà), oltre a consentire di portare a termine ciò che si deve o che si desidera fare, fa sì che ci si senta meno lontani dalle persone che si hanno intorno e ciò permette di vivere meglio la propria diversità.
Più si è creativi, più numerose saranno le occasioni in cui si riesce a risolvere efficacemente un problema, dando origine ad un circolo virtuoso che contribuirà a far aumentare la fiducia in se stessi e migliorerà il proprio stato di benessere generale.

A questo punto, dopo aver visto come la creatività possa aiutare a ridurre la disabilità e, conseguentemente, quanto sia importante promuoverne lo sviluppo in coloro che hanno una disabilità fisica e/o sensoriale, vediamo ora cosa si può fare in concreto.
Innanzitutto, è essenziale comunicare sicurezza e fiducia a coloro che manifestano un particolare grado di pensiero divergente, perché solo così si creeranno i presupposti sociali per lo sviluppo del pensiero creativo.
Il bambino che saprà di potersi rivolgere ad un adulto disponibile ad accoglierlo quando è minacciato dalla pressione sociale del gruppo, sarà un bambino che accetterà la propria creatività come costruttiva e positiva, e non come qualcosa di sbagliato che lo isola dagli altri.
Un educatore che sceglierà di esercitarsi nell’utilizzo di quello che è stato definito pensiero divergente, sarà un educatore in grado di fornire risposte comunque corrette, ma più adeguate ai livelli evolutivi dei bambini, poco scontate e più originali, più insolite e… meno noiose. Utilizzare il pensiero divergente significa accogliere in maniera non giudicante le idee e le soluzioni del bambino, per quanto esse possano essere bizzarre e stravaganti, senza riportarlo per forza su di un piano di realtà. Questo modo di agire permette al bambino di sentirsi libero di esprimersi, senza avere paura della disapprovazione dell’adulto e ciò lo aiuterà ad aumentare la fiducia in sé stesso.
In questi ultimi passaggi, ho parlato sempre di “bambino”, ma lo stesso vale anche per i ragazzi un po’ più grandi (preadolescenti ed adolescenti), che sentono maggiormente la pressione del gruppo (che acquisisce un’importanza crescente nella loro vita), iniziano a prendere consapevolezza della propria condizione e che, essendo in fase di costruzione della propria identità, hanno un estremo bisogno di sperimentarsi e di acquistare fiducia in se stessi.

Dott.ssa Katia Caravello
Psicologa-Psicoterapeuta. Opera in Lombardia nell’area della disabilità visiva, lavorando con ragazzi ciechi e ipovedenti e con i genitori. Componente del Gruppo di Lavoro per il Sostegno Psicologico ai Genitori dei ragazzi ciechi e ipovedenti.
e-mail: caravello.katia@gmail.com

Una bussola per orientarsi- Sviluppo nel non vedente, di Roberta Zumiani

Autore: Roberta Zumiani

Rubrica per genitori.

In questo numero, la dott.ssa Roberta Zumiani -psicologa della Cooperativa Sociale IRIFOR del Trentino- tratterà il tema dello sviluppo del bambino con nulla o ridotta capacità visiva.
Nel seguente articolo andiamo ad affrontare il tema della funzionalità visiva e lo sviluppo armonico in un bambino non vedente.
Con il termine non vedente indicherò di seguito sia il bambino cieco che ipovedente.
Nello specifico tratteremo la tematica dello sviluppo, evidenziando brevemente quanto la componente visiva incida sulla raccolta ed elaborazione delle informazioni visive e quale ricaduta la mancanza di tali feedback visivi possano avere sul bambino non vedente.
In particolare, in mancanza (o in presenza di una forte riduzione) della componente visiva, quali sono gli atteggiamenti che la famiglia deve assumere per fornire al bambino non vedente tutte quelle informazioni e quegli stimoli, che stanno alla base dello sviluppo dello stesso.
Il blocco dello sviluppo in un’area, infatti, se prolungato nel tempo e se si è in presenza di un ambiente sociale e famigliare che poco si adatta ai bisogni specifici del bambino non vedente, può compromettere l’intero sviluppo armonico dello stesso.
L’80% delle informazioni del modo esterno sono di tipo visivo. La vista è l’organo della sincresi, cioè permette di rielaborare anche le informazioni che derivano da altri apparati sensoriali e le fa proprie, per una risposta immediata. Per esempio se vedo un tavolo già posso dire se è fatto di legno, se è pesante, se è freddo… quindi attraverso l’atto del vedere posso raccogliere informazioni velocemente e che dipendono dagli altri sensi (tatto, olfatto, propriocezione, udito). Attraverso la vista e i continui feedback con il mondo esterno il bambino normalmente fa esperienza attraverso i 5 sensi e poi raccorda tutte queste esperienze ed impara a leggerle e categorizzarle in un codice visivo che fa sincresi di tutte le altre esperienze sensoriali.
L’attivazione cognitiva avviene per il 60% attraverso stimoli visivi, in tal senso si dice che lo sviluppo della funzione visiva è alla base della strutturazione psichica della persona.
Già dagli studi di J. Piaget (1972) emerge come lo sviluppo proceda a stadi.
La neuroscienza ha dimostrato, negli ultimi decenni, come apprendimento e maturazione biologica procedano con un andamento a spirale nello sviluppo dell’uomo.
La MATURAZIONE BIOLOGICA è un fenomeno caratterizzato in senso biologico e riguarda le strutture di cui un soggetto è dotato fin dalla nascita.
L’APPRENDIMENTO è definito come un qualcosa che il bambino ricava dal funzionamento delle proprie strutture biologiche.
A questi due processi, per lo sviluppo della persona va aggiunto un terzo elemento fondamentale, l’AMBIENTE.
L’ambiente interagisce influenzando lo sviluppo biologico e l’apprendimento, grazie alla tipologia degli stimoli permette di accelerare o di bloccare lo sviluppo del bambino.
Si pensi ai bambini che non possono ricevere stimoli e sollecitazioni positive in quanto vivono in orfanotrofio, il loro sviluppo può anche subire un blocco, che può comportare poi seri problemi anche a livello cognitivo.
Entrando nello specifico nel tema della funzionalità visiva e sviluppo è importante sapere che la funzione visiva non rappresenta una componente innata ma, il sistema visivo si sviluppa ancora dopo la nascita.
È il sistema più immaturo al momento della nascita, il bambino non coordina ancora gli occhi e riesce a mettere a fuoco ad una distanza di soli 20-30 cm (distanza seno-volto). E comunque gli stimoli visivi che gli pervengono non hanno per lui ancora alcun senso, in quanto non riesce a dar loro alcun significato, manca l’esperienza!
Questo ci dice come la VISTA rappresenti solo una componente sensoriale del circuito visivo.
Mentre la più complessa funzione visiva comprende anche fenomeni PERCETTIVI, GNOSICO-PRASSICI e COGNITIVI. Nel processo del vedere quindi è il nostro cervello che percepisce l’oggetto, attraverso un complesso meccanismo di memoria, confronto, relazione e fantasia. Il vedere deve essere appreso fin dalla prima infanzia.
Quindi la vista è espressione funzionale dell’occhio, organo di senso, mentre la funzione visiva esprime l’attività di numerose strutture neuronali e, studi recenti, hanno dimostrato l’importanza della funzione visiva nella strutturazione delle funzioni neuropsichiche.

Con i lavori di J. Piaget (“La nascita dell’intelligenza nel fanciullo”, 1972) si inizia a documentare l’esistenza di vari stadi all’interno dello sviluppo infantile. Inizia ad emergere l’idea di maturazione biologica distinta da apprendimento, ma comunque unite tra di loro. La maturazione, infatti, è un fenomeno caratterizzato in senso biologico, poiché riguarda la struttura di cui un soggetto è dotato fin dalla nascita. L’apprendimento invece è definibile come qualcosa che il bambino ricava dal funzionamento delle proprie strutture biologiche e che, a sua volta, orienta il funzionamento delle strutture stesse. Quindi tutti i settori dell’evoluzione si sviluppano con un andamento a spirale, in cui i fenomeni maturativi sono seguiti da fenomeni di apprendimento e viceversa.
In questa chiave di lettura manca ancora però la DIMENSIONE AMBIENTALE, elemento che va ad influenzare l’evoluzione del bambino. Cioè la maturazione e lo sviluppo di una persona dipendono anche dagli stimoli che riceve nell’ambiente in cui vive. Stimoli eccessivi possono bloccare lo sviluppo di un bambino quanto la mancanza di stimoli.
Entrando un po’ più nello specifico dello sviluppo psicologico e cognitivo del bambino non vedente è fondamentale tenere a mente che la grave disabilità visiva congenita o precoce interferisce su numerose aree di sviluppo perché la funzione visiva è uno strumento di interazione con la realtà privilegiato rispetto ad altri canali sensoriali sia per le sue caratteristiche funzionali sia per la precocità dei suoi processi di sviluppo (M. Cannao).

Quindi il canale visivo ha un ruolo fondamentale per un adeguato sviluppo cognitivo.
Le abilità cognitive si sviluppano nei primi anni di vita attraverso un confronto attivo del bambino con il mondo materiale, sociale e spaziale.
Lo sviluppo cognitivo è un processo composto dal cogliere un’informazione, elaborarla ed agire attivamente.
È attraverso l’esperienza corporea e la propria fisicità che il bambino entra in contatto con il mondo esterno e impara a conoscere le cose, gli oggetti che lo circondano e attraverso la vista il bambino fa memoria e coordina tutte le esperienze.
Grazie alla manipolazione degli oggetti può costruirsi anche l’idea di permanenza dell’oggetto (il biberon è sempre lo stesso che lo prenda in mano vuoto o pieno, che lo ruoti in senso orario o antiorario), e questa continua interazione tra bambino e mondo esterno sta alla base dello sviluppo cognitivo. Grazie alla vista, infatti, il bambino è motivato a ricercare il giochino e a tentare di afferrarlo, e questo aspetto influenza apprendimenti non solo sul piano del movimento ma anche sul piano del coordinamento occhio-mano e sul piano cognitivo. Il bambino durante la manipolazione del gioco cerca di capire a cosa serve, come si usa, e, in questo modo, si attivano processi di memoria, ricercando il confronto con altri giochini simili.
La “percezione” è il processo mediante il quale traiamo informazioni sul mondo nel quale viviamo.
Non si tratta di una semplice registrazione passiva dei messaggi che l’ambiente invia agli organi di senso, ma dell’elaborazione cognitiva dei dati sensoriali, mediata dall’esperienza diretta e dall’ambiente.
Non è facile distinguere, in questo processo, dove finisce il versante sensoriale e dove iniziano le competenze cognitive.
Per giungere alla conoscenza quindi un bambino deve anche costruirsi la capacità mentale di comprendere la permanenza dell’oggetto. Cioè un oggetto continua ad esistere anche se momentaneamente non lo vede o non lo ha in mano.
Nel bambino normovedente tale capacità compare verso i 6-7 mesi e questo gli permette di fare tutta una serie di inferenze oltre a rassicurarlo, ad esempio, rispetto all’imminente ricomparsa della madre dopo brevi momenti di distacco. La permanenza dell’oggetto è alla base dello sviluppo affettivo di una persona.
Un bambino che ci vede può tranquillamente, seduto sul suo seggiolone, seguire i movimenti della madre, che entra ed esce dalla stanza. Un bambino non vedente, mancando il feedback visivo, ha più difficoltà e impiegherà più tempo per poter comprendere che la madre continua ad esistere anche se non lo tiene direttamente in braccio! Sicuramente un modo efficace per aiutare un bambino non vedente a costruirsi il concetto di permanenza dell’oggetto è permettergli di seguire gli spostamenti, ad esempio, della madre, che continua a parlare da una stanza all’altra. Questo semplice accorgimento permette al bambino di sentire ininterrottamente la voce della madre che si allontana e si avvicina durante le sue faccende domestiche. L’azione ha due valenze positive, da una parte permette al bambino di costruirsi nuove strutture cerebrali che supportano l’idea di permanenza dell’oggetto, dall’altra permettono al bambino e alla madre di fare un’esperienza positiva di separazione e di identificazione, che sta alla base della costruzione dell’identità.
Altro aspetto fondamentale per promuovere lo sviluppo armonico della persona è la componente fisica. La conoscenza dello schema corporeo e il movimento sono anche alla base dello sviluppo cognitivo.
È importante quindi facilitare la competenza motoria anche nel bambino non vedente, nonostante la fatica e l’inevitabile frustrazione che inizialmente genitori e bambino dovranno vivere assieme. Il movimento è uno dei primi stimoli che permette di sviluppare le basi dell’intelligenza, base per i futuri apprendimenti cognitivi. Mentre un bambino normovedente, grazie agli stimoli visivi, è più stimolato a muoversi e a padroneggiare con lo sguardo lo spazio intorno a sé, un bambino con una grave minorazione visiva tende a rimanere fermo nella posizione in cui viene messo e non ha motivo per iniziare il movimento. Fondamentale in questo frangente risulta l’intervento dell’adulto, che lo stimola, attraverso la voce, attirando l’attenzione del bambino e facendo rumore con il gioco. La palla sonora con cui gioca ad un certo punto smette di fare rumore e il bambino non sa che la palla continua ad esistere, e non ha ancora sviluppato le basi necessarie per orientarsi dove la palla potrebbe essere rotolata, quindi non si muove, aspetta. Imparare a leggere i segnali che il bambino invia è importante per poterlo stimolare nella maniera più adeguata, rispettosa dei suoi tempi, ma cogliendo anche la naturale spinta evolutiva innata che appartiene ad ogni bambino, cioè quella curiosità verso il mondo, che fa parte dell’essere bambino.
Spesso i genitori faticano a leggere i segnali di attività del proprio piccolo non vedente (per esempio con uno stimolo uditivo la reazione del bambino è quella di girare l’orecchio verso il suono, quindi allontana lo sguardo; i genitori pensano che non sia interessato all’oggetto e lo mettono via, invece di porgerglielo).
Altro aspetto che caratterizza i bambini non vedenti è il ritardo che si può riscontrare ache grandi ritardi sull’elaborazione mentale dello spazio, in modo particolare possono avere difficoltà sul concetto di spostamento dell’oggetto nello spazio. Infatti, a differenza dei bambini normovedenti che possono controllare l’oggetto nella posizione di partenza, l’oggetto in movimento ed infine nella posizione di arrivo, il bambino non vedente ha il solo controllo dell’oggetto nella posizione di partenza e talvolta in quella di arrivo.
Un ritardo nello sviluppo motorio di 2-5 mesi è nella norma per un bambino non vedente. L’importante è che i genitori non manchino di stimolare adeguatamente il bambino, perché ci sia la voglia, la curiosità e il piacere del gioco.
Lo sviluppo percettivo e cinestesico è un altro elemento fondamentale per rendere un domani autonomo il bambino non vedente.
In questo caso è fondamentale essere consapevoli che il livello di organizzazione delle percezioni tattilo-cinestetiche è inferiore rispetto a quello delle percezioni visive. L’esiguità del campo di apprendimento tattile, il suo carattere successivo e frammentario, la necessità di una sintesi finale per ricostruire gli oggetti nella loro totalità, rendono difficili l’apprendimento delle relazioni spaziali e la strutturazione dei dati percepiti. Si dice che la persona non vedente scopre il mondo palmo a palmo, un pezzo alla volta, con tempi più lunghi e con una più elevata attenzione e concentrazione. Questo comporta che l’apprendimento attraverso modalità tattile non può rimanere un atteggiamento passivo, ma ha bisogno di essere continuamente e costantemente riattivata attraverso i movimenti di spaziatura dei recettori, in quanto la percezione tattile si smorza facilmente.
Perché il bambino cieco possa essere curioso e quindi motivato a toccare ed esplorare il mondo circostante (spazio-stanza, oggetti), è molto importante che l’adulto lo aiuti e lo guidi a conferire sostanzialità fisica alle sollecitazioni uditive!

Nell’acquisizione del linguaggio si rileva un ritardo significativo in presenza di una minorazione visiva più legata alla ricerca del significato delle parole, anche se non vi è ritardo nella produzione del linguaggio.
La visione rappresenta il mezzo più diretto e precoce per la costruzione di una funzione simbolica e quindi per favorire lo sviluppo del linguaggio.
Il bambino deve essere in grado di costruire una rappresentazione mentale di un oggetto prima di potersi riferire a questa immagine mentale con una parola. Le parole sono simboli, immagini mentali. Risulta quindi fondamentale poter far esplorare l’oggetto anche tattilmente al bambino non vedente, in modo che possa costruirsi un’immagine mentale globale dell’oggetto e fare una sincresi delle sue caratteristiche principali. Per esempio la palla, non è solo un suono, un rumore di rimbalzi, ma è anche sferica, ha un suo volume, un peso e una texture che la caratterizzano. Inoltre il poterla maneggiare, il poterci giocare permette al bambino non vedente di categorizzare l’oggetto in base alle caratteristiche per la funzionalità del nome “palla”.
Normalmente nel bambino non vedente si presentano difficoltà nell’uso corretto di pronomi personali e possessivi, legato proprio alla mancanza del feedback visivo. Questo gap si colma normalmente verso i 5 anni.
Particolare attenzione invece va posta all’uso del linguaggio ecolalico, cioè la ripetizione vuota di parole o frasi.
I bambini non vedenti rimangono a lungo con giochi che si riferiscono al proprio corpo o con una manipolazione ed esplorazione indifferenziata degli oggetti.
Il bambino non vedente apprende le informazioni dall’ambiente attraverso l’uso dei sensi vicarianti. Non può ricorrere alla strategia imitativa, tipica modalità di apprendimento del bambino normovedente. Quindi il tatto e la percezione aptica rappresentano le modalità privilegiate per pervenire alla costruzione di nuovi concetti, ma occorre anche il contributo degli altri sensi ed in particolare dell’udito.
L’esplorazione dell’ambiente attraverso il tatto è un’esplorazione lenta, limitata, legata alla motricità fine, alla capacità di coordinazione, alla bimanualità, tappe che maturano in tempi diversi.
Per aiutare un bambino non vedente nello sviluppo è necessario stimolare la prestazione motoria con strategie specifiche.
Incentivare il bambino alla verbalizzazione delle esperienze, stabilire in modo chiaro e preciso i punti di partenza e di arrivo di ogni percorso da eseguire, iniziare l’attività in ambiente protetto e soprattutto motivare il bambino al compito, presentando il compito in modo giocoso e divertente. Ma deve essere divertente sia per il bambino sia per l’adulto, perché l’apprendimento passa soprattutto attraverso la relazione!
Per permettere al bambino non vedente uno sviluppo armonico l’ambiente famigliare deve migliorare le competenze sensoriali, psicomotorie e neuropsicologiche del bambino promuovendo lo sviluppo dei canali sensoriali residui e, come detto prima, la curiosità nei confronti della realtà che lo circonda.

Dott.ssa Roberta Zumiani
Psicologa della Cooperativa Sociale IRIFOR del Trentino e
Componente del gruppo di lavoro per il Sostegno Psicologico per i Genitori dei ragazzi ciechi ed ipovedenti

Una bussola per orientarsi- Il percorso di attenzione precoce: primi passi con mamma e papà, di Elena Mercuriali e Paola Caldironi

Autore: Elena Mercuriali e Paola Caldironi

Rubrica per genitori

Come anticipato in occasione della pubblicazione dell’intervista alla dott.ssa Paola Caldironi (direttrice della Fondazione Robert Hollman), con il suo aiuto e quello della dott.ssa Elena Mercuriali (psicologa del Centro di Padova e referente per il percorso di attenzione precoce), proseguiamo la nostra conoscenza del Centro di Padova e, in particolare, di ciò che viene fatto per e con i genitori.

Per l’impostazione teorica adottata dalla Fondazione Robert Hollman, sia presso il Centro di Padova che presso il Centro di Cannero Riviera, gli aspetti riabilitativi si inseriscono all’interno di un pensiero-progetto che pone grande attenzione agli affetti.
– Il lavoro sugli aspetti affettivo-relazionali funge da sfondo a qualsiasi attività e proposta per il bambino e la sua famiglia. L’accogliere e l’utilizzare gli affetti, anche molto intensi e dolorosi, che accompagnano le famiglie che arrivano da noi, ci aiuta a comprendere il contesto relazionale che quel bambino e quella famiglia vivono ed è lo sfondo all’interno del quale viene dato significato a ciò che succede tra bambino-genitori, bambino-operatori, genitori-operatori.
– A questo si lega l’attenzione posta sullo sviluppo psicoaffettivo del bambino: sappiamo infatti che sui bambini che accedono in Fondazione grava lo spettro della chiusura psichica come risposta ad un mondo difficile da percepire, codificare e quindi da comprendere, ma anche come conseguenza di una relazione spesso difficile con i primi oggetti d’amore (i genitori).

Pur in una variabilità individuale, il nostro lavoro ci ha portato ad elaborare alcune riflessioni sulle dinamiche che spesso incontriamo nell’operare con le famiglie che giungono a noi. La diagnosi dell’avere un figlio con disabilità, infatti, mette in moto sul piano conscio e soprattutto inconscio dinamiche differenti di accettazione. I genitori vivono una ferita narcisistica accompagnata da un profondo senso di fallimento che comporta l’emergere di sensi di colpa, dovuti in parte all’aver generato quel bambino malato, e, in parte, all’ambivalenza dei sentimenti sperimentati verso di lui.
La malattia rende, inoltre, necessario un lungo percorso medico con interventi e ospedalizzazioni ed inevitabilmente scatta la necessità di delegare alle figure mediche prima, e riabilitative poi, la cura del proprio bambino, con un vissuto d’impotenza da parte dei genitori.

A tutto questo si aggiunge, soprattutto in caso di cecità, la difficoltà per i genitori di comprendere i flebili segnali del bambino, spesso amimico e poco espressivo, e di entrare in relazione empatica con lui, mancando il contatto oculare. Lo scambio degli sguardi rappresenta, infatti, nei primi mesi di vita, il principale canale di comunicazione affettiva tra mamma e bambino, nonché il mezzo fondamentale attraverso cui si attuano i processi di rispecchiamento e di sintonizzazione.
Il tempo, quindi, che intercorre tra la nascita e la comparsa del linguaggio, rischia di essere a volte un tempo vuoto di significato, in cui il bambino viene incontrato in modo intermittente e dove è intenso il dolore relativo alla mancanza dello scambio di sguardi attraverso cui trasmettere e cogliere le emozioni dell’altro.

Quindi, fattori aspecifici, legati al trauma della diagnosi, e specifici, legati alla grave ipovisione-cecità, travolgono e stravolgono la triade genitori-bambino, rubando a queste famiglie il tempo dell’incontro, del conoscersi e del riconoscersi, quel clima magico che si crea tra la mamma e il suo bambino appena nato. La sintonizzazione è compromessa, lasciando spazio al rischio che prevalga un’emergenza riparatoria per “aggiustare” il bambino “rotto” sia da parte degli operatori, che tendono a proporre fin da subito contesti riabilitativi a volte stressanti, sia da parte degli stessi genitori che rinunciano alla possibilità di scoprirsi, conoscersi e riconoscersi nel loro ruolo, proponendosi anch’essi con modalità “tecniche” (come riabilitatori, infermieri o quant’altro).

Questi traumi emotivi multipli spesso offuscano la mente dei genitori rendendoli vulnerabili e spaventati di fronte a sé e al loro bambino “rotto” e portandoli a focalizzare la loro attenzione sulla sua corporeità e fisicità piuttosto che sulle sue emozioni e stati d’animo. E’ quindi importante aiutarli a sentirsi competenti ed indispensabili per il proprio figlio, non solo in termini prettamente pratici (cure mediche, riabilitative, ecc.), ma soprattutto per la sua crescita psichica e relazionale, recuperando così il ruolo genitoriale.

Da qualche anno giungono in Fondazione bambini sempre più piccoli, grazie alla collaborazione con gli ospedali, per cui abbiamo la possibilità di osservare ed intervenire sulla relazione precoce madre-bambino, padre-madre-bambino, cercando di mettere a punto degli interventi che vadano a favorire l’incontro-contatto. A tal proposito è stato avviato presso la sede di Padova un progetto di intervento di attenzione precoce.

Il percorso di attenzione precoce offre ai bambini tra 0 e 24 mesi, con un importante deficit visivo, e ai loro genitori, un breve percorso di 5 incontri, ripetibili, con l’obiettivo di dare risposta ai loro bisogni specifici legati a questa fascia di età.
Il lavoro è condotto da una psicologa e da una terapista della riabilitazione.
La famiglia giunge al percorso attraverso l’equipe multidisciplinare del Centro che accoglie il bambino e i genitori in prima battuta per un inquadramento diagnostico funzionale globale e medico (oculistico e neuropsichiatrico).

– Il punto di partenza è l’osservazione degli aspetti sensoriali e neuro-psicomotori del bambino nella sua interazione sensoriale con il mondo esterno a sé. Si osservano così le sue competenze e preferenze sensoriali nella spontaneità, nel contesto strutturato e nel gioco guidato; si ricercano le situazioni posturali più idonee a favorire l’attenzione sensoriale e il tipo di ambiente e di materiali capaci di suscitare l’attivazione delle potenzialità visive e uditive. Si osserva quale può essere la dimensione plurisensoriale più idonea a far emergere l’iniziativa motoria del bambino, valutando le sue potenzialità e difficoltà nella tolleranza percettiva di cambiamenti posturali e nella tolleranza percettivo/emotiva nell’interazione con l’adulto.

– Parallelamente si cerca di sostenere l’avvio della relazione favorendo l’incontro-contatto mamma-bambino e papà-bambino e aiutando i genitori a prendere confidenza con i bisogni del loro piccolo promuovendo così un attaccamento “sufficientemente buono”.
I genitori non sono spettatori passivi all’interno di questo lavoro ma ne sono parte integrante. E’ importante, quindi, soprattutto nella fase iniziale, ricercare la sintonizzazione con loro per creare una buona alleanza di lavoro in cui siano chiari le finalità, le modalità e l’organizzazione della proposta, utilizzando linguaggi e materiali vicini alla loro quotidianità per consentire una facile comprensione e comunicazione, facendoli sentire a proprio agio e liberi di esprimersi.
Tutto ciò avviene in modo pratico, seduti insieme a pavimento, genitori, bambino, psicologo e terapista. Le parole possono così rafforzare il lavoro dell’operatore che guida con le proprie mani quelle della mamma nell’interazione col bambino, mostrando posture e stimoli che possono facilitare il suo benessere.
Tutto questo non sostituendosi ai genitori nella relazione con il bambino, ma cercando di restituire loro le proprie competenze genitoriali e aiutandoli ad utilizzare di nuovo la mente e a rimettere in moto le risorse.
Nel corso degli incontri ad esempio, ci si sofferma insieme a considerare e riflettere su come le ospedalizzazioni e gli interventi subiti dal bambino possano aver influenzato il processo fisiologico di attaccamento, come anche le competenze affettive dei genitori e del bambino stesso. Si osserva insieme come alcune esperienze possano più di altre far ritrovare una vicinanza e un contatto emotivo genitore-figlio, dal momento che quando il canale visivo è deficitario c’è comunque bisogno di attivare canali comunicativi vicarianti lo sguardo. Sempre insieme a loro si valutano tutte quelle situazioni che convogliano informazioni plurisensoriali di inequivocabile riconoscimento delle persone in “gioco” come l’odore, la vibrazione corporea all’emissione della voce, il contatto pelle a pelle, etc…
Si crea dunque uno spazio di ascolto e di sostegno per poterli aiutare a vedere il loro bambino, conoscerlo e riconoscerlo come proprio figlio, con i suoi limiti e le sue competenze, affrontando ciò che può ostacolare la sintonia con lui.

– Un altro aspetto importante, durante il percorso, è l’accompagnamento dei genitori nell’iter medico-diagnostico; ciò viene fatto sia concretamente entrando nelle visite mediche presso la Fondazione, sia fornendo uno spazio e un tempo per comprendere le informazioni diagnostiche formulate da medici esterni alla Fondazione stessa. Sappiamo infatti che può essere breve e definito il tempo della formulazione e della comunicazione della diagnosi, ma è invece molto lungo e variabile il tempo necessario ad elaborarla.

Nell’ultimo incontro viene restituita una sintesi del percorso fatto insieme: il livello di sviluppo del bambino e le sue modalità di funzionamento, i suoi punti di forza e le sue difficoltà, i suoi bisogni attuali. E’ un momento di sintesi e di riflessione, se possibile, senza il bambino, dove spesso emergono intense le emozioni e le preoccupazioni per il futuro.
In questa sede viene proposto ai genitori di proseguire il percorso nella modalità del piccolo gruppo con il Baby Massage e, successivamente, con il Germoglio dei Sensi (che si basa sulla ricerca delle situazioni plurisensoriali preferite dal bambino), ciascuno strutturato in 5 incontri. L’obiettivo è ancora, innanzitutto, il sostegno alla relazione, ma in una dimensione gruppale, con le sue particolari specificità. Il gruppo crea, infatti, la possibilità per le mamme e i papà di non sentirsi soli, di vedere che ci sono altri bambini nati con disabilità e di sentirsi compresi nella particolarità dei loro vissuti. Lo spazio del gruppo diventa quindi spesso momento di racconto reciproco, di espressione di emozioni positive e negative, e di costruzione di una rete. Infatti, a fine percorso, alcune famiglie si scambiano i loro recapiti e si incontrano al di là della frequenza in Fondazione.
Si tratta, quindi, di proposte finalizzate a creare un contesto non strettamente riabilitativo, dove il genitore possa trovare un suo modo di incontrare il bambino, vicariando l’assenza della vista. Lo si aiuta così a percepire i segnali del figlio sul piano senso motorio e ad attribuirvi un significato comunicativo, emotivo, relazionale, favorendo una possibilità di rispecchiamento.

Non è sempre facile proporre questo tipo di lavoro anche perché spesso le famiglie arrivano da noi con una pressante richiesta riabilitativa finalizzata a “riaggiustare” ciò che non va nel bambino; a volte, inoltre, sono poco disponibili e spaventati nel dover “mostrare” le loro difficoltà relazionali. E’ quindi un percorso che si costruisce gradualmente insieme, nel rispetto delle fragilità e delle risorse di ogni coppia genitoriale.

All’interno di questa attenzione all’ambiente affettivo-relazionale, laddove è necessario, devono poi collocarsi gli interventi tecnici-riabilitativi.

L’intervento infatti può sfociare in diverse soluzioni quali la trasformazione dell’intervento breve in una vera e propria presa in carico in Fondazione o la programmazione di incontri di monitoraggio periodici sull’aspetto visivo funzionale/oculistico e sugli aspetti dello sviluppo globale del bambino.

In conclusione, il nostro obiettivo è aiutare i genitori a scoprire che il loro bambino con problemi di vista è prima di tutto un bambino. Il genitore ha bisogno di essere aiutato a comprendere i messaggi del suo piccolo anche se flebili e insicuri, per poterne riconoscere le competenze. Questo lo rassicurerà e lo renderà più fiducioso nelle potenzialità evolutive del suo piccolo che, contemporaneamente, potrà rispecchiarsi in quell’immagine fiduciosa divenendo sempre più desideroso di esplorare, provare, capire.

Dott.ssa Elena Mercuriali
Psicologa della Fondazione Robert Hollman di Padova e referente per il percorso di attenzione precoce.
Dott.ssa Paola Caldironi
Direttrice Fondazione Robert Hollman

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