Rubrica per genitori.
In questo numero, con l’aiuto del dott. Angelo Fiocco – Presidente dell’Istituto per Ciechi L. Configliachi di Padova -, inizieremo a conoscere il bagaglio di risorse insite nel nostro patrimonio genetico, a cui attingiamo inconsapevolmente nell’agire quotidiano e che è bene valorizzare quando si educano bambini con disabilità visiva.
Pensare di riassumere in qualche pagina gli interventi educativi più salienti da rivolgere al bambino con deficit visivo grave o totale sarebbe presuntuoso, e autorizzerebbe il lettore a dubitare a priori circa la buona fede e l’attendibilità di chi scrive. Attraverso le considerazioni che seguono, desidero solo proporre alcuni spunti di riflessione a proposito delle interazioni che meritano a mio avviso particolare attenzione in un rapporto costruttivo tra genitori e figli, nonché alcuni stimoli a verificare anzitutto su noi stessi la portata delle molteplici risorse insite nel nostro bagaglio genetico, delle quali ci serviamo con sistematicità in tutte le fasi dell’esistenza. Un’educazione efficace non può prescindere dalla conoscenza di esse, a maggior ragione quando è destinata a soggetti le cui facoltà sensoriali risultano parzialmente compromesse.
Sulla magnolia in giardino un merlo canta ininterrottamente dall’alba al tramonto. E’ la stagione degli amori, mi dico, mentre lo ascolto modulare il suo cinguettio secondo uno schema che mi pare ripetersi in maniera sequenziale. Ne ignoro il significato, però non mi sfugge che quello è un linguaggio strutturato e finalizzato.
Da chi avrà imparato a volare, a costruirsi il nido, a sfamarsi, a cantare?
Non ho dubbi che l’istinto e i caratteri ereditari propri della specie alla quale appartiene siano stati determinanti nella sua crescita, ma so pure che ha appreso non poco osservando ed imitando i comportamenti dei suoi genitori, similmente a quanto avviene per gran parte degli individui, compresi i cuccioli d’uomo che alla nascita sanno manifestare – quando tutto va bene – soltanto i bisogni primari, e che per crescere e apprendere a vivere dipendono più di ogni altra specie dalle figure genitoriali, cioè dagli adulti.
Mi sorprendo a chiedermi che ne sarebbe già stato di quella bestiola se fosse nata cieca o se, come me, lo fosse diventata in tenerissima età, e la risposta si palesa subito nel gatto in cerca di uno spuntino, nel formicaio ai piedi del tronco, nella civetta che aggredisce dall’alto, giacché l’imponenza dell’albero non garantisce alcuna certezza a chi ne abita la cima, e mi appare evidente che, privata della vista, la bestiola non avrebbe scelta tra diventare facile preda nel nido o cadere presto o tardi a terra sfinita.
Per fortuna, almeno qui da noi, i cuccioli d’uomo nati con gli occhi spenti o che ne perdono troppo presto l’uso godono di una rete di protezioni che non li lascerà certo morire d’inedia, tuttavia il semplice accudimento durante i primi mesi e i primi anni di vita non basta ad assicurare loro pari opportunità sul piano dello sviluppo fisico e intellettivo.
Ma forse che i loro coetanei normovedenti imparano autonomamente a camminare, a relazionarsi con gli altri e l’ambiente, a trarre dalle esperienze compiute deduzioni utili ad affrontarne altre nuove, ad elaborare il concetto di sé e della propria identità quali elementi distinti e distintivi, unici e irripetibili?
Ovviamente no, e sebbene la vista possieda prerogative bastevoli a stimolarli ad interagire con quanto di visibile li circonda, li sollecitiamo col sorriso a sorriderci e ad osare, poi a dirigersi gattonando verso una meta precisa, in seguito a trasformare le lallazioni in parole, più avanti a manipolare e plasmare, ad abbozzare i primi disegni, a far finta che… e, progredendo, a tradurre le parole in segni grafici, a vestire di esse i sentimenti e i pensieri, a misurare, contare e numerare, ad osservare i mille e mille fenomeni che si accompagnano al trascorrere della vita e del tempo.
Quanto di tutto ciò è proponibile al bambino che non vede o vede troppo poco per affidarsi alla sua percezione visiva?
Quasi tutto, purché siamo disposti a scoprire in noi stessi e a valorizzare il bagaglio di risorse e di potenzialità cui attingiamo – il più delle volte inconsapevolmente – nell’agire quotidiano, nonostante l’immediatezza caratterizzante la vista. In che modo?
Potremmo cominciare familiarizzando con il tatto, magari mentre giochiamo col nostro cucciolo che ha bisogno di avvertirci presenti. Quante cose abbiamo appreso a fare per gioco da piccoli, scrutando e imitando chi si occupava di noi!…
Soffermiamoci ad esplorare uno qualsiasi degli oggetti dedicati a lui o a lei, sia tenendolo tra le mani, sia dopo averlo appoggiato su una superficie piana. Sfioriamolo lentamente con i polpastrelli – soprattutto di pollice, indice e medio – di ambedue le mani, quindi stringiamolo tra pollice e indice e ancora nel pugno. Infine soppesiamolo con calma sul palmo aperto e rivolto verso l’alto della mano che usiamo più di frequente.
Già che ci siamo, perché non saggiare più a fondo le nostre abilità percettive? Dai, afferriamone un altro con la mano libera e indugiamo ad analizzare il peso di entrambi come se dovessimo appropriarcene. Qualora non riscontrassimo differenze apprezzabili, non desistiamo e invertiamone il posto, tornando a soppesarli con cura.
Può accadere che il risultato non si manifesti al primo tentativo, talmente si è portati a sopravvalutare il canale visivo a scapito degli altri, ma se avremo la costanza di ripetere l’esperimento, non tarderemo ad accorgerci che l’esplorazione tattile riserva anche a chi vede vantaggi inattesi, che abituandoci a dosare adeguatamente l’intensità dello sfioramento, della digitopressione e della prensione, arriveremo ad acquisire le informazioni quantomeno essenziali in merito a ciò che tocchiamo intenzionalmente (dimensioni, forma, grado di compattezza, stato termico, tipo di materiale, ecc.), che si tratta insomma di un’attività che vale la pena approfondire per poi motivare, convinti, il piccolo ad avvalersene coscientemente al fine di allargare la propria sfera conoscitiva.
Un percorso analogo a quello appena accennato andrebbe intrapreso alla scoperta dell’udito, iniziando col discriminare gli attributi di un determinato suono-rumore: intensità, acutezza, gravità, limpidezza, sovrapposizione di più elementi costitutivi, provenienza, ecc..
Più tardi potrà rivelarsi interessante capire come il variare della distanza tra noi e la fonte sonora ne modifica la percezione, in particolare riguardo all’esattezza della sua localizzazione. Sarà pertanto utile ripetere la prova – meglio se a occhi chiusi – mentre ruotiamo il corpo di 45°, 90°, ecc., fino a completare un angolo giro, così da cogliere il mutare della provenienza e dunque della possibilità di localizzare la fonte a seconda della posizione che via via assumiamo rispetto ad essa.
Una volta sicuri di padroneggiare tale esperienza, cominceremo a proporla gradualmente al bimbo servendoci della nostra voce o di un suono-rumore che sappiamo essergli familiare e gradito, tenendo presente che non starà a lui ruotare il proprio corpo, ma che saremo noi a decidere da dove lanciargli lo stimolo.
Osserviamo da ultimo che la capacità di discriminare e localizzare due o più fonti sonore diminuisce con l’aumentare della distanza da esse. Per interiorizzare questo concetto, poniamoci di fronte a due carillon (ma vanno bene pure due sveglie, due cellulari o le casse acustiche di un riproduttore audio) sistemati lateralmente rispetto al punto centrale di ascolto e distanti almeno 2-3 metri l’uno dall’altro, quindi azioniamoli e sinceriamoci di sentirne distintamente uno per orecchio. Ora cominciamo ad allontanarci, seguendo per quanto possibile la perpendicolare intersecante il piano su cui stazionano le due fonti sonore; noteremo che più ce ne discostiamo, più esse sembrano avvicinarsi tra loro fino a mescolarsi, dando luogo ad una illusione acustica che, in assenza della vista, diviene una variabile costante da valutare allorché ci si muove in autonomia.
E che cosa sappiamo dell’olfatto?
Probabilmente poco, anche se tramite esso ci confrontiamo ogni giorno con le necessità e le situazioni più disparate: dall’igiene personale all’acquolina che ci sale in bocca sulla soglia di una pasticceria, dalla carta patinata della rivista che sfogliamo nella sala d’attesa di un professionista alle scarpe nuove nelle quali non entriamo – accidenti! – giusto per un pelo, dalla cimice intrappolata tra la tenda e il vetro in soggiorno al tegame dimenticato sul fuoco in cucina, dal dopobarba o la colonia del/della collega al pullover zuppo dopo un acquazzone improvviso, dalle grate degli scantinati nel centro storico agli scappamenti dei motorini vecchi o scarburati. Gli esempi sono innumerevoli, tantissimi a portata di mano, ma noi, quale ruolo riserviamo agli odori e all’organo deputato a captarli?
Non è semplice insegnare a fiutare o, se preferiamo, ad annusare, tuttavia dobbiamo ammettere che la gamma di informazioni veicolate dall’olfatto è assai più vasta di quanto siamo soliti ritenere, e dunque convenire sull’opportunità di guidare il piccolo ad affinarne l’uso sperimentandone insieme le svariate implicazioni che, assimilate nel tempo, gioveranno ad ampliare sensibilmente la sua autonomia.
A differenza delle esperienze uditive e tattili, quelle olfattive presuppongono fin dall’inizio un approccio e una partecipazione coerenti, in quanto le reazioni soggettive non sempre sono univoche. E’ perciò consigliabile cominciare a proporle al bambino a partire da quando ci sono chiare le sue modalità di interagire con noi, sotto forma di attività ludica, ricordando che tra le prerogative dell’olfatto è assente quella relativa alla localizzazione a distanza.
(Continua)
Angelo Fiocco – tiflologo, specializzato nell’insegnamento agli alunni disabili visivi