Coloro che non hanno una adeguata familiarità con la minorazione visiva, provano enorme difficoltà a credere che la formazione dei concetti e delle immagini derivanti dagli oggetti tridimensionali, così come l’orientamento motorio, spaziale, immaginativo e la maturazione del gusto estetico siano analogamente educabili anche nelle persone che non vedono. Tali aspetti educativi, rivestono gli obiettivi più interessanti e suggestivi che si impongono all’attenzione della psicologia, della pedagogia e, in ogni caso, dell’educazione globale. È certo, però, che anche il non vedente possiede la capacità come tutti di educarsi all’idea del «bello» e, conseguentemente, al «gusto estetico».
Il «gusto estetico» della persona non vedente rappresenta infatti la porta d’accesso al meraviglioso mondo dei colori ed alle loro combinazioni che spontaneamente si mescolano in natura.
La fase conclusiva del pervenire a quel che universalmente è definito «bello» si affina costantemente durante tutto l’arco della vita, attraverso il corretto esercizio esplorativo, le attività manipolative e il costante utilizzo di materiali plasmabili, soprattutto se, alla base, vi è un imprescindibile ingrediente che stimola e sostiene il desiderio e la necessità di esplorare quanto di percepibile esista in natura e quindi nell’arte.
Testimonianze probanti e significative di quanto affermato sono facilmente riscontrabili nella letteratura specializzata.
Come quella della scrittrice statunitense Helen Adams Keller (1880-1968) divenuta cieca e sorda ancor prima di compiere vent’anni.
La Keller pur essendo sordocieca, riusciva a riconoscere, attraverso il semplice tocco delle mani, le persone nella loro individualità. Ma, soprattutto, si dimostrava impeccabile nel cogliere i tratti salienti nei volti delle statue e quanto essi comunicavano in quel determinato istante. Attraverso lo sfiorare delle dita, infatti, ella riusciva a provare immense emozioni: la gioia o la tristezza, la bellezza e la grazia, l’amore o l’odio, la serenità o l’inquietudine, il sorriso o il pianto, la commozione o l’indifferenza.
Quelle stesse sensazioni, in definitiva, che l’artista aveva saputo trasfondere nelle sue opere. Questo per me ha un significato preciso legato al tatto e quindi alle mani che non devono essere mai sazie di toccare per differenziare, conoscere ed emozionare mente e anima e sull’onda di questa continua voglia di scoprire, entriamo con la nostra vista nell’immaginario dell’artista sublimando in tal modo il suo pensiero, la sua immaginazione accolta in simbiosi con la nostra, ovviamente se educata all’ascolto di queste sensazioni. Soddisfatta la curiosità conoscitiva, comincia il lusso della preferenza: morbido, levigato, tiepido, poroso, resistente, sono i godimenti più elementari; poi vengono le loro combinazioni e i loro contrasti, finché ci si eleva all’apprezzamento delle proporzioni, degli elementi geometrici, della simmetria, degli accessori ornamentali, dell’adeguazione col tipo che ascoltiamo nella mente. Le sensazioni statiche ed analitiche del tatto cedono via via il luogo a quelle muscolari e a rappresentazioni sintetiche: il cieco non palpa più, ma sfiora, acquistando una percezione rapida degli elementi che gl’interessano, utilizzando tutte le dita e le parti dell’una e dell’altra mano.
Nei luoghi di accoglienza della cultura, l’intervento mirato contribuisce al raggiungimento di tali obiettivi.
Coloro che non vedono, per conseguire una conoscenza del mondo da esplorare, devono cogliere, gestire ed elaborare tutte le informazioni sensoriali tattili e acustiche provenienti da quel mondo. Cos’è quindi l’accessibilità per un luogo che ospita l’arte in ogni sua forma? È quella che può dare l’esatta comprensione di chi nel costruire il percorso al non vedente ha innanzitutto percepito, visualizzandolo, un pensiero: come vedo quello che vede chi non vede?
Pubblicato il 30/09/2022.