Lunedì, 23 novembre 2015, un giovane Fisioterapista, ipovedente e laureato, si è presentato, per affrontare un colloquio di lavoro, presso una clinica convenzionata ed accreditata, situata nella capitale. Il dottor Rossi (nome convenzionale) usciva dall’ufficio del Direttore della clinica con l’impegno di produrre la documentazione necessaria al perfezionamento del rapporto di lavoro, per iniziare a prestare servizio successivamente. La documentazione, da integrarsi a quella già fornita, consisteva nella partita IVA. L’offerta di lavoro consisteva in un servizio che si sarebbe dovuto articolare su tre giorni per un orario giornaliero di tre ore, il cui compenso lordo sarebbe stato di 12 euro all’ora.
Il dottor Rossi, due giorni dopo, avendo la necessità di ricevere alcune informazioni, utili all’apertura della partita IVA, ha telefonato alla Clinica ma la Responsabile, con cui ha conferito, gli dice che, essendo ritornata a lavoro la precedente Fisioterapista, per il momento non hanno necessità della sua collaborazione. Il fatto, descritto volutamente nel dettaglio, impone una profonda riflessione al mondo della cecità in generale ma soprattutto agli organi decisori dell’U.I.C.I. Prima si parlava di inserimento “scolastico”, poi di integrazione “scolastica”, oggi si parla di “inclusione” estendendo il concetto a tutti gli ambiti in cui la persona si viene a trovare. La clinica di cui si tratta è inclusiva, possono lavorarvi sia Fisioterapisti normodotati sia Fisioterapisti con problemi visivi ma, nella realtà dei fatti, l’imprenditore, il quale deve badare al profitto dell’azienda, può scegliere di fare lavorare chi, secondo il suo metro di giudizio, risponde ai requisiti ritenuti necessari. In altre parole accade che se il Fisioterapista normodotato ha l’opportunità di essere provato nell’esercizio della sua opera, al Fisioterapista non vedente viene offerta solo l’opportunità di presentarsi al colloquio senza che questi possa mostrare le proprie capacità. Il percorso evolutivo dall’inserimento all’inclusione sembrerebbe non aver scalfito sufficientemente il pregiudizio, insito nella cultura dominante, che produce danno ai cittadini diversamente abili. Forse occorre fare risalire allo stato di coscienza di chiunque abbia la possibilità di decidere, la necessità di operare, con tutti i mezzi leciti possibili, per aggiornare le vecchie leggi che obbligavano il datore di lavoro, pubblico e privato, all’assunzione dei lavoratori non vedenti ed ipovedenti. La ricerca di nuovi spazi occupazionali costituisce un altro filone di interesse e deve essere attenzionato ma senza le leggi che impongano l’assunzione dei diversi professionisti con difficoltà visive, la strada da precorrere non lascerebbe intravedere la meta.
Quando l’”inclusione” si rivela esclusione, di Alfio Pulvirenti
Autore: Alfio Pulvirenti