Non bisogni, ma diritti, di Katia Caravello

Autore: Katia Caravello

Intervento alla tavola rotonda “Disabilità e i diritti esigibili”, svoltasi nell’ambito del Convegno “Sui generis 2015” Le giornate cagliaritane sulle Pari Opportunità. (Cagliari, 17/18/19 settembre 2015).

Il tema del riconoscimento e della tutela dei diritti è particolarmente sentito da tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di disabilità… ed è quindi estremamente importante parlarne. Per farlo partirò da un’affermazione apparentemente molto banale: le persone con disabilità non hanno diritti particolari, hanno gli stessi diritti di qualunque altro individuo, ciò che cambia sono le modalità attraverso le quali essi possono essere esercitati.
Chi ha una disabilità è una persona come tutte le altre, ha delle abilità e dei limiti, dei pregi e dei difetti, è portata a fare alcune cose e non altre e così via… la disabilità è uno solo degli elementi che la caratterizza. Un elemento che sicuramente non può e non deve essere ignorato, ma che non deve neanche essere posto sempre in primo piano.
Questo è ciò che fa la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che, per l’appunto, utilizza la locuzione “persone con disabilità” e non espressioni come “disabile”, “handicappato” o, tanto meno, “diversamente abile”: in questo modo la persona viene messa al centro e alla disabilità viene attribuito il giusto peso.
Definire una persona semplicemente un disabile è come utilizzare una sineddoche, la figura retorica che consiste nell’uso retorico di una parola al posto di un’altra, nella fattispecie, si usa un termine che descrive una parte (per definire il tutto.
E’ facilmente intuibile come ciò sia riduttivo: significa porre l’attenzione esclusivamente su una caratteristica, ignorando completamente tutte le altre… e ciò non è accettabile se si parla di individui con dei sentimenti.
Questa visione parziale è alla base dei tanti pregiudizi esistenti nei confronti dei portatori di handicap. Pregiudizi che, anche quando sono positivi, non consentono la reale conoscenza dell’altro, dando origine a false credenze e a generalizzazioni. Si pensi ad esempio alla campagna contro i falsi invalidi, spesso falsi ciechi: sicuramente questo fenomeno esiste e deve essere fortemente combattuto, il problema è come è stato fatto. Per lungo tempo, sui giornali sono usciti articoli sensazionalistici nei quali venivano additate come falsi ciechi – quindi come truffatori – delle persone che compivano azioni normalissime per chi ha una ridotta o nulla capacità visiva (aprivano il portone di casa con le chiavi, utilizzavano uno smart phone, stendevano i panni, camminavano spediti per strada)… e quando il caso si smontava e l’INPS perdeva i ricorsi, nessuno ne parlava più: a queste persone ingiustamente accusate non è stato neanche concesso di ricevere delle pubbliche scuse!
Il fatto di essere riconosciuti come persone, significa anche essere riconosciuti e trattati come cittadini tra i cittadini e, in quanto tali, avere dei diritti e non dei bisogni! Le persone con disabilità, come tutti i cittadini, oltre ad avere dei doveri, hanno il diritto all’istruzione, al lavoro, alla mobilità autonoma e via dicendo… non c’è – e non ci deve essere – nulla di straordinario in tutto ciò.
Una società che si definisce “inclusiva” non deve chiedersi “quali sono gli interventi da attuare per aiutare le fasce più deboli della popolazione?”, ma deve domandarsi “quali sono gli interventi da attuare perché anche le fasce più deboli della popolazione possano godere dei propri diritti?”… non si tratta di dare aiuto, ma di garantire dei diritti!
A questo proposito, la già citata Convenzione ONU parla di “accomodamenti ragionevoli”, intendendo con questa locuzione tutte “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.

Quando una persona con disabilità è vittima del pregiudizio altrui, ogni suo sforzo per farsi “vedere” è vano, è come se fosse rinchiusa in una prigione.
Il sentirsi prigionieri genera frustrazione ed impotenza e queste, a loro volta, danno origine alla rabbia. La rabbia è un’emozione che, sino ad un certo punto, funziona da stimolo a fare di più e meglio, ma, superato quel punto, diventa essa stessa una barriera che allontana dalle altre persone (persino da quelle più intime: a lungo andare, infatti, la rabbia rende gli individui aggressivi e tale atteggiamento contribuisce a deteriorare la qualità delle relazioni interpersonali… sino ad arrivare a costituire un limite ancora più invalidante della disabilità stessa.
Nelle persone più vulnerabili, la frustrazione può esitare in uno stato depressivo, caratterizzato da disistima e da sfiducia nel futuro. Senza voler in alcun modo generalizzare, penso in particolare a coloro che diventano disabili in età avanzata (nel caso della disabilità visiva, essa spesso è la conseguenza di patologie insorte in età senile) – che hanno meno strumenti per affrontare il trauma – e gli adolescenti. Per quest’ultimi, il rischio è, in un certo senso, ancora più alto: essi, infatti, essendo nella fase di costruzione dell’identità, se non vengono adeguatamente supportati ed educati, crescono conformandosi ai pregiudizi comuni, senza neanche domandarsi se esista un’alternativa e, quindi, senza ambire ad una vita diversa.
L’essere costantemente costretti a lottare perché i propri diritti vengano rispettati, oltre a rappresentare un’inutile dispendio di tempo, energie e soldi – non è infatti infrequente la necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria per vedersi riconosciuti i propri diritti -, costituisce una profonda ferita nella propria dignità di persona, che, nei soggetti più fragili, può lasciare dei segni indelebili (una delle funzioni delle associazioni di e per le persone con disabilità è proprio quella di assistere gli individui in queste situazioni che, se vengono affrontate da soli, rischiano di rappresentare un peso insostenibile).

Katia Caravello