Sarà capitato più di una volta, e non solo a me, di chiedersi per quale motivo una certa persona cieca o ipovedente, che conosciamo piuttosto bene, stimiamo per la sua cultura e/o la sua preparazione in qualche campo specifico – e della quale magari siamo pure amici – si tenga lontano dalla nostra associazione e non voglia neppure prendere in considerazionel’eventualità di farne parte e di metterle a disposizione le proprie competenze.
Quella che segue vuol essere una riflessione prima di tutto sul d’onde derivi un tale atteggiamento, e, in secondo luogo, sul se e sul come lo si possa eventualmente modificare in modo da attrarre verso l’UICI persone che costituirebbero indubbiamente per essa nuove ed utili risorse.
Innanzi tutto chiediamoci: sono sempre TUTTE buone le ragioni dell’attaccamento all’UICI, e sono sempre e soltanto deplorevoli le ragioni di chi invece sceglie di restarne fuori? Proviamo a metterle entrambe sul tavolo con quanta più possibile obiettività e sforzandoci di tenere da parte i pregiudizi.
In prima battuta possiamo dire che vi sono ragioni buone e meno buone da entrambe le parti.
La scelta di entrare in e di appartenere ad una associazione come la nostra, può essere dettata dall’avvertire acutamente certi problemi legati alla presenza della menomazione visiva e dal rendersi conto che una risposta basata su strategie personali, ancorchè efficace per bravura soggettiva e per circostanze fortunate (un buon contesto sociale, buone amicizie, ecc.), è troppo aleatoria, e che occorrono pertanto garanzie legislative che individualmente non siamo in grado di ottenere, e pertanto entriamo in una associazione abbastanza grande e forte da esser capace di portare avanti iniziative a questo livello. E fin qui nulla da dire: si tratta di ottime ragioni: desiderare di liberarsi quanto più è possibile dalle limitazioni connesse alla condizione di cecità, e confidare in una azione comune e organizzata è senz’altro segno di buon senso e di maturità civile. Tuttavia non sempre ciò si traduce in vero e proprio impegno nella vita associativa e in assunzione diretta di responsabilità al suo interno. E ciò sta comunque nell’ordine delle cose. Chiameremo questo atteggiamento “affezione moderata”, e possiamo aggiungere fin d’ora che essa è contraddistinta da notevole stabilità.
Ma vi possono essere anche altre ragioni, un po’ meno encomiabili, anche se umanamente comprensibilissime: quelle di chi non pensa affatto ad un percorso di emancipazione e di conquiste crescenti di autonomia, ma solo ad avere qualche agevolazione in più, di tipo prevalentemente economico, che semplicemente gli permetta di vivere un po’ più comodamente dentro la sua condizione e i suoi limiti, senza minimamente proporsi di superarli, ma anzi brandendoli come un’arma per rivendicare sempre più agevolazioni e vantaggi di tipo economico e nient’altro. Tra i soci di questo genere è frequente l’atteggiamento da un lato estremamente passivo, rispetto a qualsivoglia impegno associativo anche minimo venga loro richiesto e implicante ovviamente la delega totale ai dirigenti di ogni ordine e grado, dall’altro la facile critica dell’operato della dirigenza medesima, accusata spesso – più a torto che a ragione – di fare poco o niente, come i bambini che pretendono dalla mamma la soddisfazione piena e immediata dei loro desideri, senza ovviamente chiedersi quanto siano legittimi e quanto realizzabili. Chiameremo tale atteggiamento “affezione precaria”, poichè dettata spesso (ma non solo) da mera convenienza legata a momenti e bisogni contingenti (avvio della pratica pensionistica, ricerca di un posto di lavoro, necessità di trasferimento, accesso ad agevolazioni fiscali, ecc.), dopodichè tali persone non si vedono più, neppure alle assemblee annuali – e magari per anni non rinnovano neppure la tessera associativa -, fino al prossimo bisogno. Precaria anche perchè spesso queste persone vanno e vengono da una associazione all’altra, con periodi di latitanza pressochè totale da tutte le associazioni di categoria. Potremmo aggiungere che in esse non è ben chiaro il senso e il significato dell’associazione, per cui la trattano un po’ come la mutua: è lì, un servizio a disposizione, se sto male ci vado, se no me ne sto a casa mia, e ritengo di aver tutte le ragioni di lamentarmene quando non mi da quel che vorrei e che ritengo mio indiscutibile diritto.
E tuttavia, è proprio l’avvertire, sia pur confusamente, la limitatezza delle proprie risorse soggettive e di quelle del proprio specifico contesto sociale, che bene o male, anche se a fasi alterne, tiene queste persone legate alla nostra e/o ad altra associazione.
E’ al quanto evidente che questo tipo di affezione o disaffezione, (i termini hanno qui un valore quasi equivalente) precaria, è ben diversa dalla disaffezione netta di chi, proteso ad una emancipazione piena e puntando al massimo di autonomia ed integrazione sociale, pensa non solo di poter contare esclusivamente sulle proprie risorse e di non aver quindi bisogno di alcuna associazione, ma anzi teme che l’entrare a farne parte e magari assumere un ruolo attivo in essa lo rinchiuda in una logica di ghetto, riassorbendolo al suo interno e togliendogli tempo per dedicarsi al proprio entourage amicale e ai propri interessi personali.
Colui che abbiamo appena definito “nettamente disaffezionato” è come se dicesse: “io sono Tizio, amico, marito, amante di Tale, tal’altra e tal’altra ancora, me la cavo discretamente e son riconosciuto per le mie passioni e le mie capacità…; nell’associazione divento prima di tutto un cieco, costretto a rappresentare anche chi non sento affatto come affine a me e vicino ai miei interessi e all’esterno dell’associazione apparirei inevitabilmente simile a chi non sento affatto di rassomigliare, identificato per lo più e mio malgrado con quella immagine di essere limitato, debole e bisognoso da cui invece è tutta la vita che cerco con ogni mezzo di emanciparmi”. Una persona simile accetterebbe – forse – di appartenere a una associazione di categoria solo a condizione che vi facessero parte – specie nel suo gruppo dirigente – esclusivamente persone che, come lui, fossero protese principalmente verso la vita all’esterno dell’associazione stessa. Ne risulta inevitabilmente un’intima contraddizione, poichè, pur rendendosi eventualmente conto dell’importanza di un’azione politica e culturale collettiva e strutturata, una tale persona sente la vita associativa, il prendersicura della sua organizzazione e della sua continuità, come contrastante con le sue ambizioni più profonde: egli non cerca l’affermazione del proprio progetto emancipativo all’interno dell’associazione, diventandone magari dirigente, ma cerca di affermarsi nella vita comune, nella sua professione, nella sua personale rete relazionale, come individuo libero e largamente autosufficente.
E’ chiaro infatti che assumere cariche e incarichi dentro una qualsivoglia organizzazione comporta necessariamente una conoscenza approfondita non solo delle tematiche specifiche e delle sue regole di funzionamento, ma anche delle caratteristiche dei soci e dei suoi dirigenti ai vari livelli, ottenibile solo attraverso una frequentazione piuttosto intensiva delle strutture e della vita associativa: insomma, non si può starci dentro a metà. Tuttavia ragioni siffatte per restarne fuori non sono nè incomprensibili nè condannabili a priori: è indfatti tutt’altro che facile venire a capo della contraddizione tra il dedicarsi interamente all’impegno personale della propria emancipazione e il dedicare gran parte del proprio tempo alle varie questioni della vita associativa, che per loro natura comportano anche non pochi momenti nè emancipativi nè gratificanti, nei quali l’impegno profuso appare spropositato rispetto ai risultati conseguiti.
Ed ora chiediamoci: che cosa muove chi sceglie di dedicarsi completamente all’impegno associativo, con tutto ciò che comporta in termini di dispendio di tempo e di frequentazioni obbligate? Qui il discorso si fa ancora più complesso, poichè, oltre alle motivazioni – diciamo – ideali, entrano in gioco inevitabilmente anche ambizioni e modi di fare di tipo personale, e non è detto che le prime siano sempre e per tutti quelle realmente prioritarie, nonostante non si trovi praticamente nessuno disposto ad ammettere una simile eventualità. Ammesso dunque (ma non senza riserve concesso) che tutti i dirigenti d’ogni ordine e grado siano animati in primo luogo dal desiderio di rendere sempre più forte ed efficente l’associazione con l’obiettivo principale di favorire la maggior emancipazione ed autonomia possibile di tutti i ciechi e gli ipovedenti, soffermiamoci a considerare il tipo di “Affezione” di quei dirigenti di vario livello che, per ovvi motivi, non possono rientrare nè nella categoria degli “affezionati precari”, nè in quella dei “disaffezionati netti”. Si tratta dunque di quelli che all’inizio di queste riflessioni abbiamo definito “affezionati moderati”? Neppure, mi pare, poichè essi non sembrano vivere particolari contraddizioni interiori, e dedicano tutto o quasi il loro tempo alla vita associativa. Non solo, ma ambiscono spesso a riconfermare e possibilmente ad ampliare sempre più il proprio ruolo al suo interno. Ed anche questo è assolutamente umano e comprensibile: nessuno si mette in gioco se non è spinto da un pizzico almeno di ambizione personale di affermarsi tra quanti aspirano ad acquisire una certa carica ritenuta più o meno importante.
Ma il problema, ovviamente, non è questo. Il problema sorge quando – come in politica – si considera la carica conquistata come occasione per affermare un qualche proprio potere personale, più che un’incombenza che pone di fronte a precise responsabilità, non solo e non tanto verso i vari gradi della gerarchia, quanto in primo luogo verso i soci. A questo proposito va detto che particolarmente importante e delicato è il ruolo dei consigli e dei presidenti sezionali, poichè sono loro ad avere il contatto più diretto e quotidiano col corpo associativo, tanto da costituirne la vera spina dorsale. E’ a questo livello, prima di tutto, che occorrerebbe trovare in modo largamente diffuso un tipo di affezione associativa che definirei “netta ed equilibrata”. Non “moderata”, che non basta per mettere in campo la dedixione e il tempo necessario, nè, tanto meno, “precaria”, poichè ondivaga e biecamente rivendicativa. Netta, dunque non disposta a mettere in discussione l’appartenenza e l’impegno associativo all’insorgere di difficoltà o di venti di dissenso verso il proprio operato, ma “equilibrata”, nel senso che deve stare sì in ascolto dei bisogni e delle richieste della base – anche di quelle provenienti dagli “affezionati precari” -, ma non dimenticando mai di farsi promotrice di iniziative autenticamente volte all’emancipazione dei disabili visivi, anche quando esse provengono per così dire dall’esterno, ovvero dai “disaffezionati netti”. Guai se si perde questo equilibrio, se si diventa sordi alle critiche, se ci si rinchiude nel proprio ruolo difendendolo con ogni mezzo efacendo indebitamente appello all’unità associativa pur di metterlo al riparo da possibili ridimensionamenti: così si scivola inevitabilmente verso un’affezione sì fortissima, ma determinata più dall’attaccamento personale alla propria posizione di potere all’interno della gerarchia associativa che da un’autentica adesione alla causa dell’emancipazione dei ciechi e degli ipovedenti, si cominciano a trattare tutte le questioni in modo strumentale (a seconda che siano più o meno funzionali alla conservazione del proprio status, e si finisce col trattare questo o quel socio, questo o quel consigliere a seconda che lo si senta come amico (ovvero fedele alleato e sostenitore( o semplicemente come nemico.
Un’affezione siffatta avrebbe come effetto interno, quindi, la progressiva emarginazione di tutti i “non amici”, guardati con sospetto e ostacolati in ogni modo nelle loro eventuali iniziative ed ambizioni, e come effetto esterno quello di convincere vieppiù i perplessi e gli esitanti – e tanto più se dotati di buone competenze e capacità – a scegliere di allontanarsi sempre di più da ogni ipotesi di coinvolgimento nella vita associativa.
Dirigenti simili, laddove esistono (e qualcuno ne esiste davvero), pur se “affezionatissimi”, non si può dire che costituiscano fattori positivi di coesione interna e di capacità attrattiva di nuove ed utili risorse umane esterne. In più non offrono una gran bella immagine del cieco, assai meno di quella offerta da chi magari non parrtecipa alla vita associativa ma per come conduce la sua vita professionale e relazionale , è rispettato e financo ammirato nella realtà in cui vive.
Quando parliamo di rinnovamento, allora, per prima cosa sforziamoci tutti, dirigenti e non, di promuovere a tutti i livelli un’affezione quanto più possibile netta ed equilibrata, ricordandoci delle contraddizioni che essa obbliga a gestire e dell’impegno che comporta il mantenerla e il diffonderla. Solo a partire da essa, infatti, possiamo sperare di rafforzare la coesione interna e di attrarre verso l’Unione nuove risorse capaci di arricchirla di sempre nuove esperienze e competenze.
Francesco Fratta