La XVI legislatura, da poco conclusasi, sarà sicuramente ricordata dal mondo della disabilità come uno dei periodi più difficili della storia repubblicana del nostro Paese a partire dalla fine delle marce del dolore.
Questo non tanto perché lo sviluppo dello Stato sociale ha subito un arresto consistente ma in quanto in questa fase si è materializzato un indirizzo politico fondato sulla convinzione che l'assistenza e i servizi pubblici a favore dei disabili siano stati e sono settori di spreco di risorse collettive e concause del dissesto economico del Paese.
Questo convincimento ha comportato l'adozione di tutta una serie di provvedimenti normativi che hanno penalizzato o tentato di penalizzare ii mondo della disabilità.
Infatti, a partire dalla seconda metà del 2008 sono stati quasi del tutto compressi i fondi per le politiche sociali e quelli per la non autosufficienza; è stata elevata la onerosità delle prestazioni sanitarie; è stata avviata una politica indiscriminata di revisione delle prestazioni economiche assistenziali a favore dei disabili anche attraverso l'introduzione di un nuovo procedimento accertativo; è stata tentata una politica fiscale di compressione delle indennità e delle agevolazioni per gli stessi previsti; sono stati introdotti criteri assolutamente ingiusti e penalizzanti nella valutazione dei presupposti medico-legali delle prestazioni economiche previste per gli invalidi; sono stati approvati criteri proibitivi per l'accesso ai servizi socio-sanitari e socio-assistenziali.
Queste linee politiche hanno caratterizzato entrambe le fasi della legislatura, in cui sotto l'apparenza di un millantato rigore si è consumata una politica di demonizzazione dei disabili che ancora oggi permea tutti i settori della società civile e che solo attraverso una lunga azione di ripristino della verità potrà essere superata per riaffermare il principio per cui il disabile è Persona cui spetta il diritto costituzionale alla solidarietà e all'aiuto della collettività considerata nelle sue articolazioni sia pubbliche che private e non un soggetto potenzialmente pericoloso da sorvegliare e semmai da contrastare.
Perché possa determinarsi un cambiamento di rotta è necessario innanzitutto riallacciare l'attività politica e quella amministrativa – con riferimento essenzialmente ai livelli di assistenza, di servizi e di prestazioni economiche – ai contenuti della legge n. 328/2000 che, con quel suo articolo 24 di delega al Governo, aveva fatto sperare nella nascita di un moderno Stato sociale capace di esprimere quella cultura della solidarietà che appartiene alla nostra tradizione storica.
Facendo propri questi principi di riforma, ancora pienamente validi, la prospettiva in cui oggi si pone la FAND non è di carattere conservativo e cioè lottare per conservare l'esistente ma partire da questo dato acquisito, ottenuto in tanti anni di lotte, per concorrere a costruire uno Stato sociale che garantisca a tutti i disabili livelli essenziali di servizi, sanitari ed economici e su questo promuova una politica integrativa che incrementi e/o differenzi ulteriori trattamenti assistenziali strutturati sulla base delle condizioni territoriali, di sviluppo delle aree, di sussistenza di servizi e delle condizioni economiche del disabile e della famiglia.
Per fare questo è essenziale ridefinire il quadro normativo generale, rivedendo competenze e livelli di intervento valorizzando, accanto all'attività pubblica sempre essenziale, i! ruolo della famiglia, delle associazioni di categoria e del volontariato.
In questa prospettiva appare innanzitutto essenziale riformare gli aspetti del sistema che attengono alla sua funzionalità, nonché alla sua effettività e rapidità di intervento.
Si pensi ad un procedimento di accertamento dei presupposti medico-legali delle prestazioni economiche semplificato e rapido, in cui intervenga una sola Commissione di valutazione e un solo ente che liquidi ed eroghi le prestazione medesime; ad un sistema di valutazione delle patologie che tenga conto dell'evoluzione della medicina e della tecnica e in particolare delle finalità dell'accertamento dell'invalidità che è quello di verificare la sussistenza o meno di una capacità lavorativa o la non autosufficienza della persona, piuttosto che classificare rigidamente le patologie accertate in tanti segmenti utili solo per la loro stadiazione clinica ma non per la verifica dei riflessi in ambito lavorativo o di non autosufficienza; si pensi ancora alla individuazione dei presupposti perché possa parlarsi di non autosufficienza da accertare con riferimento sia all'autonomia soggettiva della persona considerata in sé che nella sua vita di relazione; ancora, al rafforzamento della tutela giudiziaria che deve essere effettiva, snella e fondata sul giusto procedimento che è quello del doppio grado di giurisdizione, perché non è possibile sacrificare la tutela del disabile alla necessità dello sfoltimento delle cause presso le Corti di appello; così come all'eliminazione delle revisioni straordinarie, duplicato inutile di ciò che potrebbe perseguirsi con normali procedimenti di verifica ordinaria già previsti dalla normativa vigente perché connessi all'andamento evolutivo delle patologie.
Questa funzionalità del sistema amministrativo per essere completa deve nascere utilizzando l'apporto delle Associazioni di categoria che devono essere chiamate a partecipare alla costruzione della politica assistenziale, favorendo la loro vocazione a rimanere estranee alla gestione delle prestazioni ma non alla partecipazione alla elaborazione delle linee programmatiche e al controllo sulla loro corretta applicazione e quindi rendendo effettiva la loro presenza negli organismi di indirizzo e vigilanza, in particolare dell'INPS che costituisce oggi il referente pressoché esclusivo in materia di disabilità.
Consentire la partecipazione delle Associazioni di categoria agli organismi di indirizzo delle politiche assistenziali significa riconoscerne il loro fondamentale ruolo e la necessità di potenziarne l'azione svolta nell'interesse collettivo attraverso un adeguato sostegno, anche economico.
Ma la funzionalità del sistema non basta se poi sul piano sostanziale i diritti dei disabili restano solo enunciati e non sostenuti in concreto.
La nostra legislazione enuncia in modo deciso il diritto al lavoro dei disabili, costruendo un sistema privilegiato di collocamento obbligatorio sia nel pubblico che nel privato.
Ma fissare percentuale di assunzioni obbligatorie o sforzarsi per individuare la specificità della residua capacità lavorativa dei disabili e poi non avviare un serio sostegno all'attività di formazione lavorativa dei disabili da effettuarsi direttamente presso le strutture produttive o non garantire un loro possibile inserimento, qualora le prestazioni lavorative possano essere utilmente inserite nel mercato del lavoro, significa solo enunciare principi ma non sostenere persone che se percepiscono di essere utili sono in grado di dare più di tanti altri che considerano il lavoro solo come strumento di produzione di reddito e non anche di riscatto ed affermazione della propria persona.
Favorire la cooperazione, sostenere l'apprendistato significa creare ricchezza e ridare dignità alle persone e non mortificarle con il mero sussidio erogato che spesso ha il carattere della definitività e non del sostegno in attesa di entrare nel mondo del lavoro.
La stessa concessione delle provvidenze economiche andrebbe potenziata e diversificata.
Non tutti i disabili sono uguali in quanto a condizioni personali, a situazioni familiari, a condizioni economiche, a situazioni territoriali e di servizi disponibili. Lo Stato deve garantire le condizioni minime perché chi ha una ridotta o impedita capacità lavorativa o una situazione di non autosufficienza possa essere messo in condizione di avere a disposizione il minimo necessario per le esigenze primarie della vita ma oltre questo diritto intangibile non può non ritenersi necessario e giusto diversificare le posizioni: certo non pare equo non differenziare l'invalidità parziale da quella totale o le varie forme dì non autosufficienza.
La diversificazione costituisce il presupposto per una diversa articolazione degli interventi economici integrativi o dei servizi alternativi e non può che essere ancorata alla sola posizione reddituale del richiedente, perché questa è la base comune di partenza su cui intervenire con le varie forme di assistenza, economiche e non su cui modulare ulteriori interventi.
In questa azione di diversificazione delle posizioni ai fini assistenziali deve avere un ruolo centrale la famiglia, luogo naturale e di elezione soprattutto per i disabili gravi non autosufficienti.
Questo nucleo naturale è chiamato dalla legge (art. 433 e ss. Codice civile) a farsi carico dei bisogni dei componenti indigenti e in particolare dei disabili economicamente non autonomi.
Ma a questo obbligo morale oltre che giuridico deve accompagnarsi un sostegno pubblico reale.
La normativa sui permessi e congedi e quella sull'amministratore di sostegno costituiscono interventi legislativi importanti.
Ma non basta consentire al familiare di assentarsi dai lavoro per scopi assistenziali o legittimarlo al compimento di atti giuridici altrui, per ritenere di avere risolto il problema.
Spesso i familiari sono costretti ad abbandonare il lavoro per cui a chi si occupa del disabile deve essere riconosciuto uno status giuridico cui deve corrispondere un riconoscimento economico, perché oltre ad adempiere ad un proprio dovere morale sostituisce lo Stato laddove questi non assolve la funzione costituzionale di farsi carico dei disabili generando un risparmio economico notevole in termini di spese assistenziali e anche ospedaliere, determinato dal ricovero in famiglia e sotto l'assistenza di un congiunto.
Ma il disabile non è solo destinatario di assistenza ma, oltre che potenziale lavoratore, e anche soggetto che chiede di entrare nella vita sociale attraverso una istruzione adeguata e una partecipazione alla vita di relazione e in particolare all'interno delle istituzioni.
Una politica di sostegno scolastico, di ripensamento dello stesso sostegno e soprattutto che eviti il mortificante ricorso alla magistratura per poter essere adeguatamente seguiti nelle strutture scolastiche costituiscono dati imprescindibili per una nuova azione di Governo.
Allo stesso modo un ripensamento degli istituti di diritto privato {proprietà, locazioni, beni produttivi ….) eliminerebbe quelle forme di abuso del diritto che mentre non portano vantaggio a chi li pone in essere, sicuramente recano danno ai soggetti disabili che li subiscono: occorre, in altri termini, dare attuazione al principio costituzionale per cui l'uso dei beni e della proprietà non deve svolgersi in contrasto con l'utilità sociale.
A questi elementi generali devono essere aggiunti tutti quegli aspetti che riguardano le singole tipologie di disabili; ciechi, sordi, malati psichici hanno necessità di ricevere interventi mirati inclusivi, legati alla specificità della loro minorazione perché se è vero che sussiste diversità tra disabili e non, esiste diversità anche all'interno del mondo della disabilità che è esso stesso pluralista. A monte di tutto ciò deve esservi un radicale mutamento culturale: la società civile in questi anni, è stata orientata in modo negativo verso il mondo della disabilità. Ci si è dimenticati dell'uomo, delle sue necessità e dei doveri di solidarietà che gravano sulla collettività, per mettere l'accento sulla "categoria" che assorbirebbe risorse e non concorrerebbe alla crescita dello Stato, dimenticando che la non inclusione nasce non dalla diversità ma dalla incapacità o cattiva volontà degli altri di promuoverla.
Con l'augurio che la "nuova politica" che si spera possa scaturire dall'imminente consultazione elettorale inneschi una nuova stagione di doveri che costituiscono la vera misura di ogni agire umano.
Il Presidente Nazionale FAND
Giovanni Pagano