Sono alcuni anni, dalla vigilia del XXII Congresso (Chianciano 2010) che nell’Unione si sente parlare sempre più spesso di “rinnovamento”, un po’ da tutti ormai, tanto che, stando alle sole parole, sembrerebbe ultimamente del tutto scomparsa la parte conservatrice (termine da intendersi non tanto in senso strettamente politico quanto per il suo significato di rigido attenersi a metodi e modalità di rapporto tradizionali con i vari livelli gerarchici e con la base), parte che pure ha sempre avuto un notevole peso nel condizionare la vita della nostra associazione. Peso che si mostrò in maniera schiacciante appunto in quel Congresso, quando – ricordiamolo – chi aveva raccolto, proprio agitando il tema dell’urgenza di un profondo rinnovamento dell’UICI, circa il 30% dei consensi, non riuscì ad avere alcuna rappresentanza in seno agli organi nazionali. Ciò grazie al combinato di norme statutarie e di prassi congressuali consolidatesi nel tempo, che resero possibili quei risultati che tutti ben conosciamo. Nei mesi che seguirono si cercò da parte della dirigenza in carica di archiviare l’accaduto come un episodio legato unicamente all’evento congressuale, dicendo che in fondo tutti erano per il rinnovamento dell’Unione e che pertanto non c’era motivo di mantenere in vita un movimento specificatamente votato a quella causa, e che anzi il farlo avrebbe significato in realtà la malcelata volontà di praticare una frattura nel corpo associativo quanto mai riprovevole e dannosa.
Tuttavia, nonostante le ripetute accuse e le forti pressioni per il suo scioglimento,in particolare durante la presidenza Daniele, il movimento finora non si è sciolto ed ha continuato a produrre documenti, a promuovere incontri di confronto e gruppi di lavoro su varie e importanti tematiche associative,elaborando analisi e proposte, lanciando stimoli e temi di discussione che hanno provocato un dibattito via via sempre più ampio e approfondito (vedi ad es. nelle ultime settimane quello sul ruolo delle sezioni o quello sulla formazione dei dirigenti associativi svoltisi nella lista “uicicongresso”). Insomma, il movimento Uicirinnovamento non solo non ha svolto alcuna azione frazionistica, ma ha fornito un rilevante contributo all’ampliamento e all’innalzamento del livello del dibattito interno che, tra l’altro, ha visto anche il ricoinvolgimento di persone che da tempo si erano allontanate dall’Unione, e penso che siano rimasti ormai in pochi a non voler riconoscere tutto ciò.
Un impatto certamente innovativo, poi, ha avuto l’ascesa alla Presidenza nazionale di Mario Barbuto, il quale, a parte i notevoli e per certi versi insperati risultati ottenuti con la Legge di stabilità 2014, oltre a ricercare nuove e più costruttive modalità di relazione con le altre associazioni di disabili e ad avviare un più stretto e intenso rapporto con la base associativa moltiplicando le occasioni e i momenti di confronto, ha impresso un’indubbia accelerazione al processo di revisione degli statuti dell’UICI e dell’I.Ri.Fo.R., di cui da tempo si sentiva la necessità, dimostrando di essere un presidente pienamente consapevole delle urgenze dei tempi e capace di affrontarle con la determinazione e con gli strumenti giusti.
In questo clima profondamente mutato rispetto a 5 anni fa, ci apprestiamo a celebrare il XXIII Congresso, che dovrebbe sancire, come molti auspicano e si aspettano, una decisiva svolta nella vita della nostra associazione, ed ecco perchè occorre che tutti – e in particolare i delegati – pongano mente a che cosa significhi realmente rinnovare l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti nel momento in cui sceglieranno, con il proprio voto, non solo il Presidente e il Consiglio nazionale, ma anche l’assetto statutario e gli indirizzi di fondo della politica associativa.
A mio avviso quando si parla di “rinnovamento” in relazione ad un sodalizio come il nostro immerso e interagente con una realtà più ampia e complessa, occorre tener presenti almeno tre, o forse quattro elementi: l’assetto organizzativo che si intende dare all’associazione nonché alle relazioni interne a, e tra i vari organi che la compongono attraverso norme coerenti che le disciplinino; la definizione chiara di un orientamento strategico e la scelta coerente del tipo di relazioni esterne con le istituzioni da un lato e con le altre organizzazioni del mondo della disabilità e della società civile dall’altro; l’individuazione delle persone più idonee a guidare il riassetto interno e a portare avanti gli obiettivi strategici e le relazioni esterne; un metodo di confronto e di determinazione delle decisioni che sia quanto più trasparente, democratico ed efficace possibile.
Ora, se immaginassimo di produrre un cambiamento significativo agendo su uno solo degli elementi sopra indicati, ci accorgeremmo subito che non otterremmo se non un mutamento effimero, poco capace di incidere realmente sulla realtà; se, ad esempio, cambiassimo unicamente le persone, in base alla maggior simpatia o fiducia che ci ispirano, lasciando intatti assetto organizzativo, modalità relazionali e gestionali, e obiettivi strategici, avremmo nella sostanza un’associazione non molto diversa da quella che era prima. Lo stesso avverrebbe d’altro canto, se ci concentrassimo unicamente sul rinnovamento dei programmi e delle parole d’ordine senza modificare struttura, metodi e composizione del gruppo dirigente: tutti gli elementi di insoddisfazione e di critica per i metodi impiegati e per il livello di partecipazione che essi consentivano, per gli obiettivi in precedenza mancati e per le criticità che quel gruppo non si dimostrò capace di affrontare, rimarrebbero in campo e metterebbero in evidenza immediatamente la scarsa credibilità del gruppo stesso, facendo cadere ben presto ogni illusione circa la possibilità di conseguire effettivamente la realizzazione di quei programmi, magari bellissimi e del tutto condivisibili. Analogamente, confidare nella potenza in sé innovativa del metodo, pensando che sia possibile ottenere importanti risultati affidandone la messa in atto a persone rimaste per lo più le stesse e intimamente legate a consuetudini radicate e/o costrette ad agire nel quadro di strutture e di gerarchie immodificate, metterebbe in luce impietosamente il velleitarismo e l’inefficacia di una tale scelta. Infine, puntare tutto esclusivamente su modifiche di singole norme statutarie, come si è fatto da vari lustri a questa parte, potrebbe rivelarsi del tutto insufficiente non solo ad impedire il perpetuarsi di cattive prassi comportamentali, il consolidarsi e perfino il cristallizzarsi di posizioni di potere, ma anche a contrastare l’atrofizzarsi della partecipazione e della capacità d’analisi e di proposta politico-culturale cui abbiamo assistito in un passato non molto lontano.
Tutto ciò ci dice che, se vogliamo davvero dare nuovo slancio ed efficacia all’azione politica dell’Unione nel prossimo futuro, non ci basterà scegliere un buon presidente, ma ci sarà bisogno anche di eleggere – nonostante le vecchie regole statutarie entro cui ancora saremo costretti ad operare – un Consiglio nazionale coerente col suo progetto, tenendo conto non solo e non tanto delle dichiarazioni più o meno altisonanti di questo o di quello, e per nulla delle eventuali indicazioni dei cosiddetti capi delegazione, ma unicamente basandosi sul proprio convincimento e sulla propria autonoma valutazione della rispondenza delle qualità politiche, culturali e personali di ciascun candidato al progetto che si sceglierà di sostenere. Anzi, in linea di principio suggerirei di diffidare dei nomi che venissero eventualmente proposti come frutto di accordi fra presidenti regionali, tanto più qualora si pretendesse da parte di questi ultimi una sorta di obbedienza della propria delegazione, come era prassi nei precedenti Congressi. Anche dai comportamenti pratici e dalla storia personale di ognuno, infatti, si possono trarre utili elementi per distinguere più chiaramente chi è in corsa per un reale e profondo rinnovamento dell’Uici, da chi invece è mosso – per altro legittimamente – da ambizioni prevalentemente personali (fatto salvo ovviamente il principio secondo cui tutti possono cambiare, in qualsiasi momento, idea e modo di agire).
Ma un buon presidente e una buona squadra non bastano ancora per imprimere una svolta nettamente risolutiva: occorre appunto anche un buon progetto politico e un quadro statutario chiaro e coerente, con regole che garantiscano partecipazione e democrazia interna e che tutelino adeguatamente le minoranze. Ovviamente, infatti – e noi lo sappiamo bene! – vi possono essere punti di vista differenti sulle scelte e sugli orientamenti strategici, come sull’assetto organizzativo, e tutti meritano il massimo rispetto. Ciò che invece proprio non merita rispetto in una associazione che vuole essere realmente democratica e promuovere la massima partecipazione di tutti, è quella prassi che abbiamo visto tante volte all’opera nei lustri passati, che cooptava ed escludeva, promuoveva e bocciava in base al grado di accettazione della prassi stessa e di sottomissione di ognuno ai suoi registi, in ossequio al principio: “si è sempre fatto così!”. Ecco, la prima condizione imprescindibile per tutti coloro che vogliono davvero, indipendentemente da come la pensano, dar nuova vita alla nostra cara Unione e contribuire ad attrezzarla per affrontare con successo le sfide che abbiamo dinnanzi e raggiungere sempre nuovi traguardi è, a mio parere, il cominciare a dire in modo fermo e convinto: “Non bisogna più che si faccia così!”.
Per questo è indispensabile che i delegati, tutti, eletti o di diritto, abbiano piena consapevolezza del momento che stiamo vivendo, e non si sentano per nulla legati a un presunto “vincolo di mandato”, che per altro statutariamente non esiste, per il quale si debbano credere tenuti a rispettare indicazioni di voto impartite loro da chi non ha alcuna autorità e legittimazione statutaria in tal senso.
Insomma, siamo a metà del guado: ai delegati del XXIII Congresso toccherà scegliere se la futura fisionomia della nostra associazione dovrà restare sostanzialmente quale è stata finora o se si dovrà procedere con risolutezza sulla via da poco intrapresa del suo rinnovamento. si tratta quindi di una scelta che ci riguarda tutti molto da vicino, in quanto ne deriverà un modo di stare e di operare nell’UICI, di cui siamo prima di tutto soci e non semplici spettatori o beneficiari. La responsabilità di come sarà l’Unione che verrà è dunque nostra e solo nostra, per cui ciascuno dovrà affidarsi esclusivamente alla propria intelligenza e alla propria autonomia di giudizio. Questo è il primo indispensabile segno, io credo, che davvero vogliamo un rinnovamento della nostra Unione, e che cominciamo a praticarlo a partire da noi stessi. Solo così la partita congressuale non sarà distorta e quel che ne verrà fuori esprimerà con chiarezza la volontà della maggioranza, certo, ma anche l’orientamento e la consistenza della o delle minoranze, e potremo tutti serenamente riconoscerle, senza timore e senza rancore.
Cosa significa rinnovare l’UICI? di Francesco Fratta
Autore: Francesco Fratta