Nel corso dell’ascolto della rubrica “Chiedi al Presidente” del 25 marzo, fra le varie tematiche derivanti dalle domande degli interlocutori del presidente, è stato toccato il problema della diffusa marginalità in cui molti soci, soprattutto anziani sono relegati, nonostante i tentativi di coinvolgimento compiuti dalla commissione nazionale anziani, da alcune sezioni territoriali.
Certamente in una società in cui diventa slogan il vocabolo rottamazione applicata alle persone, dove alla parola quale mezzo di comunicazione diretto si sostituiscono sms, messaggi virtuali, immagini fugacissime, e ci si stanca sempre con più frequenza di riconoscere la memoria fisica rappresentata da padri, nonni, maestri del passato recente o remoto che sia, è difficile non assumere l’indifferenza come auto-protezione, o precipitare in tale dimensione per frustrazione, sensazione di inutilità.
Quando a tutto questo si aggiunge la cecità, che, indipendentemente dal grado di maggiore o minore autonomia con cui la si gestisce, rappresenta un ostacolo in più, almeno sul piano organizzativo nella vita di relazioni extradomestiche, è ancora più facile trovare rifugio e sicurezza solo nella casa, nella costruzione di un alibi da presentare a se stessi e ad altri con il quale si afferma che ormai nessun impegno meritano associazioni, aggregazioni culturali e forme di vita associata: nulla può migliorare e nessuno è degno d credibilità.
Certo tali affermazioni non sono prive di fondamento, perché gli esempi di scollamento tra di chi ha compiti e poteri, con delega di rappresentanza, e i soci che li delegano, sono all’ordine del giorno; si tratta di persone che, consapevolmente o non, diffondono demotivazione e, conseguenzialmente, non sono meritevoli di fiducia e promotori di crescita e valorizzazione dei semplici soci anche nella nostra unione e basta guardarsi intorno per scorgere i deficit di sensibilità verso quelli che vengono esclusi per difformità di opinioni, o verso coloro che, lontani o stanchi, vengono coinvolti solo nelle emergenze o nelle elezioni in caso di più liste di candidati.
E allora cosa si può fare?
1. in primo luogo si può, anzi si deve, correggere un costume diffuso che consiste nel coinvolgere i soci solo nelle emergenze e cioè elezioni associative con liste concorrenti, manifestazioni dove occorrono numeri consistenti di partecipanti;
2. coinvolgere, invece quanti più soci possibili nei gruppi di lavoro sezionali soprattutto nelle città in cui vi siano numeri alti di inscritti;
3. dare buoni esempi con l’agire in trasparenza in tutte le azioni di governo, controllo ed amministrazione delle varie strutture, perché si è ingenerata in maniera abbastanza estesa l’idea che chi dirige, a qualsiasi livello agisca non a servizio dei ciechi, ma per acquisire privilegi, garantire amici e parenti e che dunque, non si può fare altro che starne lontani;
4. creare occasioni di incontri ludici, culturali, organizzando sia attività di tempo libero, sia gruppi di autoaiuto, consulenze alla pari anche tra generazioni diverse per età;
5. stipulare convenzioni e protocolli con agenzie turistiche, creare occasioni di lavoro con altre associazioni di disabili e non che sviluppino programmi interessanti per favorire la conoscenza in tutte le forme possibili;
credo, insomma, che, senza cadere in semplicistiche sovrapposizioni, si potrebbero attivare gemellaggi tra i vari territori per scambi di esperienze in cui rendere protagonisti non sempre e solo chi riveste cariche associative.
Un ultima considerazione:
perché non riesce l’UICI, che pur vanta un bagaglio consistente di conquiste per tanti ciechi, a liberarsi dalle diffidenze sia verso l’esterno (e mi riferisco alle tante forme associative esistenti nei vari territori), sia interne (esercizio dell’esclusione o della marginalizzazione di chiunque appaia non controllabile, non gestibile, non allineabile a un qualsiasi pensiero unico)?
Forse l’appuntamento congressuale potrà favorire una riflessione, e non solo, su come e cosa fare per creare varchi di passaggio dalla progressiva indifferenza verso la ripresa di fiducia nella possibilità di contare non solo perché si è un numero di tessera, ma perché si è uomini, donne, ragazzi, ciascuno con un vissuto, con una narrazione di sé, e in grado di partecipare ad una comunità di reciproci perché, secondo me, il sentirsi reciproci che libera dalle timidezze, dalle insicurezze e questo è un messaggio che vale per tutti, figurarsi quanto può valere per chi ha un surplus di difficoltà!
Contributi dei lettori: Indifferenza: una dimensione emotiva, una condizione esistenziale?, di Silvana Piscopo
Autore: Silvana Piscopo