Commissione NAL – Aspetti giuridici sulle discriminazioni dei disabili sul posto di lavoro

Ho chiesto al dott. Marco Pronello e la dott.sa Tamara Lovasco, soci UICI, di redigere un documento riguardante la discriminazione dei disabili sul posto di lavoro, sicuramente a margine delle nostre attività di ricerca, ma ritengo che difendere un posto di lavoro, sia come trovarne uno nuovo; chi a redatto questo documento, per ora, lavora esternamente alla nostra commissione con dedizione e professionalità, dimostrando ogni giorno che passa altruismo e serietà verso i nostri soci. Mi permetto di suggerirvi, copiate e incollate questo documento e salvatelo in un posto sicuro augurandovi di non averne mai bisogno per difendere i vostri diritti. Il documento è molto lungo, potrebbe essere diviso in tre parti, a discrezione di chi lo pubblica, chi lo volesse tutto subito o perdesse una parte può scrivere a: commissione.nal@uiciechi.it

dott. Valter Calò

 

 

Relazione di:

dott. Marco Pronello Torino

dott.sa Tamara Lovasco Milano

 

Preambolo

 

Il concetto di discriminazione per le persone disabili e la relativa protezione necessaria sono relativamente recenti. In passato, infatti, tali soggetti venivano considerati solo come oggetto di programmi di welfare e non come soggetti di diritti. L’idea che si sta sempre più affermando è quella relativa al modello sociale, che consiste nel fatto che  ciò che si deve correggere non è la disabilità dell’individuo, ma l’ambiente, gli atteggiamenti degli altri individui, le strutture istituzionali. Secondo tale modello, viene riconosciuta l’intrinseca uguaglianza di ogni persona, indipendentemente dalle disabilità. Viene altresì posta l’attenzione sul dovere, da parte della società, di sostenere la libertà e l’uguaglianza di tutti gli individui, inclusi coloro che possono avere necessità di un sostegno sociale. Oggi, quindi, la disabilità consiste nell’interazione negativa tra l’ambiente in cui vive e lavora il soggetto e la sua menomazione: la disabilità è perciò il risultato di un processo, che si verifica quando le persone affette da menomazioni incontrano ostacoli alla piena partecipazione alla vita sociale, al riconoscimento ed al godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali nella loro vita civile, politica, economica, sociale, culturale o in ogni altro campo dell’attività umana. Il modello sociale evidenzia le barriere sociali, ambientali, istituzionali che si risolvono nell’esclusione delle persone disabili. In questo ordine di idee, diventa di fondamentale importanza il paragrafo e) del Preambolo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone Disabili ove si dichiara che “la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri”. Quanto alla definizione degli individui da considerare portatori di disabilità, la Convenzione introduce una formulazione assai ampia: l’art. 1(2) afferma che “Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri”.

 

Normative sovrannazionali relative al divieto di discriminazione

– 1998: Trattato di Amsterdam:

inserisce nel Trattato UE l’art. 13, secondo cui il Consiglio viene delegato a prendere i “provvedimenti opportuni” per combattere le discriminazioni.

– 2000, Carta di Nizza, Articolo 21 -Non discriminazione:

“È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.”

– 2000, Direttiva 2000/78:

contro le discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, di cui qui ci occuperemo più diffusamente.

 

L’ordinamento italiano

Nell’ordinamento italiano attualmente non esiste una nozione unitaria di disabilità: coesistono i concetti di invalidità (L. 222/1984: lesione alla capacità lavorativa specifica, con possibilità di svolgere altre attività lavorative), inabilità o invalidità civile (L. 18/1980 e L. 118/1971: perdita della capacità lavorativa generica), handicap (L. 104/1992: menomazione delle capacità psico-fisiche che incidono sulla vita quotidiana, anche se irrilevanti per la capacità lavorativa). La L. 68/1999 riguarda le “persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e i portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento”.

 

Ambito di applicazione

La normativa di riferimento a livello comunitario in tema di discriminazione dei disabili sul luogo di lavoro è la direttiva 2000/78, recepita in Italia dal dlgs 216/2003, ribadito a sua volta, in senso più generale, dalla legge 67/2006. I destinatari delle norme in oggetto sono, ex art. 3 comma 1 della Direttiva e art. 3 commi 1 e 2 del Decreto attuativo, tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, nell’ambito di tutti i livelli occupazionali e formazione professionale, nonché della promozione e relativamente alle attività di tipo sindacale. Quindi, per chiarire, servizi come i CAF (Centri Assistenza Fiscale), le gare di selezione del personale, gli strumenti di lavoro e tutti i livelli di formazione devono – nel nostro caso specifico – essere accessibili.

Nell’ambito delle norme in oggetto, per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali (art. 2 primo comma della Direttiva, art 2 primo comma Legge 67/2006 e art. 1 del Decreto attuativo). Si ha discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi di questi motivi, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, un patto o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, i portatori di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altri soggetti (art. 2 secondo comma della Direttiva, art 2 secondo e terzo comma Legge 67/2006 e art. 2 del Decreto attuativo), a meno che, prosegue il capoverso comunitario, nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi destinatario della Direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, c.d. accomodamento ragionevole, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi. Esempi di discriminazione indiretta possono ravvisarsi nel caso in cui alcune mansioni possono essere svolte solamente online e il sito o la pagina internet sia totalmente inaccessibile ai lettori di schermo per non vedenti, o comunque venga pregiudicata grandemente la possibilità di svolgere autonomamente la mansione. Altro esempio potrebbe essere la disposizione dell’arredo dell’ufficio in modo che di fatto risulti inaccessibile ad una persona su sedia a rotelle.

L’art. 5 della Direttiva recita: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.

È opportuno, ai sensi del considerando (20),”…prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento. Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, precisa il considerando (21),”…è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. La Corte di Giustizia europea, con sentenza C-312/11 del 04/07/2013, ha dichiarato che la Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’art. 5 della Direttiva.

La Corte argomentava che, se è vero che la nozione di «handicap» non è definita nella Direttiva, alla luce della Convenzione dell’ONU, tale nozione deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, come già dichiarato dalla stessa Corte nella sentenza dell’11 aprile 2013, HK Danmark (C 335/11 e C 337/11. Di conseguenza, l’espressione «disabile» utilizzata nell’art. 5 della Direttiva deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla definizione enunciata sopra.

Nell’articolo 2, quarto comma, della Convenzione dell’ONU, viene meglio esplicitato il concetto di accomodamenti ragionevoli «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Ne consegue che tale disposizione contempla un’ampia definizione della nozione di «accomodamenti ragionevoli» (sentenza HK Danmark, cit., punto 53).

Proseguendo ulteriormente nell’analisi, dal  testo dell’art. 5, letto in combinato disposto con i considerando (20) e (21), emerge che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati. Tali provvedimenti, come ha giudicato la Corte al punto 64 della citata sentenza HK Danmark, possono anche consistere in una riduzione dell’orario di lavoro. Ne consegue che, per trasporre correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78, non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione.

La Corte osservava, tra l’altro, che, per quanto concerne la legge n. 104/1992, non risulta che essa garantisca che tutti i datori di lavoro siano tenuti ad adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore dei disabili, come esige l’articolo 5 della direttiva. Infatti, con tale legge, vengono previsti in particolare aiuti a carico delle regioni, al fine di consentire ai datori di lavoro di adattare il posto di lavoro. Inoltre viene previsto, con l’art. 14 della legge n. 68/99, come modificato dall’art 11 del c.d. Job’s Act, che il Fondo regionale per l’occupazione dei disabili, in cui confluiscono gli importi delle sanzioni amministrative, eroghi contributi per il rimborso forfettario parziale delle spese necessarie all’adozione di interventi in favore dei lavoratori con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%,incluso l’apprestamento di tecnologie di telelavoro o la rimozione delle barriere architettoniche che limitino in qualsiasi modo l’inclusione lavorativa. Il Fondo contribuisce con le proprie risorse all’istituzione della nuova figura del responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro. Come si può notare, quindi, il salto coraggioso verso un’obbligatorietà effettiva in tal senso non è stato compiuto. Si parla ancora di incentivi, in senso lato, ma, ribadiamo, l’ordinamento italiano è ancora inadempiente. Riteniamo in ogni caso che il finanziamento doveva essere posto in carico al Fondo Nazionale e non al Fondo regionale, perché ne assorbirà gran parte delle risorse oggi destinate ad altri scopi. Secondo la Corte, nemmeno con la legge n. 381/1991 (norme relative alle cooperative sociali, i cui dipendenti devono essere almeno per il 30% persone svantaggiate), nonché con la legge 68/99 che aveva lo scopo esclusivo di favorire l’accesso all’impiego di taluni disabili, vengono previste disposizioni che impongano a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, ai sensi dell’art. 5 della direttiva. La Corte rilevava, inoltre, che il decreto legislativo n. 81/2008 disciplina solo un aspetto dei provvedimenti appropriati richiesti dall’articolo 5 della direttiva 2000/78, cioè l’adeguamento delle mansioni alla disabilità dell’interessato. Su tutto quanto detto in questo paragrafo è necessaria una considerazione, attinente all’ambito di applicazione delle norme interne e comunitarie. Ricordiamo che l’ordinamento comunitario è direttamente applicabile nello stato membro laddove ci sia in quest’ultimo un vuoto normativo, o laddove una legge ordinaria, non costituzionale, contrasti con la norma comunitaria. Questo vale, ovviamente, anche quando il disposto di una norma comunitaria è dirimente per chiarire o determinare meglio un disposto ambiguo nell’ordinamento interno. Alla luce di ciò, in sede giurisdizionale è sicuramente possibile vincolare chiunque di competenza ad adottare quanto disposto dall’art. 5, anche in assenza di norme interne precise e quindi di regolamenti attuativi. Un’interpretazione giurisprudenziale in tal senso ha più forza, in virtù del fatto che l’articolo recita precisamente che “…il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati…”, quindi si rivolge direttamente ai soggetti, oltre che, ovviamente, al Legislatore italiano. Le modalità saranno indicate in sentenza, sulla base di interpretazioni estensive o analogiche di altre norme, ad esempio, oltre a quelle già citate in questo testo, anche la Legge 4/2004, c.d. Legge Stanca, oppure, ove non sussistano regole di buone prassi, sulla base di prassi consolidate, anche in Stati esteri. Detto questo, sicuramente è condivisibile l’imposizione della Corte a legiferare in tal senso, per dare all’ordinamento italiano una legge ordinaria certa, secondo il principio della certezza del diritto.

 

Eccezioni all’ambito di applicazione: azioni in giudizio.

In casi strettamente limitati, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali, su un handicap, sull’età o sulle tendenze sessuali non costituisce discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato (art. 4 e considerando (23). Lo stesso principio è dettato anche dall’art. 15 dello statuto dei lavoratori come modificato dall’art. 4 comma 1 del Decreto attuativo, ma in attuazione di questo disposto, l’art. 3 comma 3 del medesimo decreto, confermato in senso lato dall’art. 3 comma 2 della Legge 67/2006, aggiunge i principi di proporzionalità e ragionevolezza, demandando di fatto la valutazione delle singole fattispecie non, come richiesto dalla Direttiva, ad una precisa norma dell’ordinamento, ma all’interpretazione giurisprudenziale ex art. 2729 primo comma del Codice Civile, ai sensi del quale saranno da interpretarsi gli elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il ricorrente può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno (art. 4 comma 4 del Decreto attuativo). A parziale deroga dei principi fin qui esposti, il comma 4 dell’art. 3 della direttiva, recepito dal terzo comma dell’art. 3 del Decreto attuativo, riprende sinteticamente quanto esposto nel considerando (18), esimendo le forze armate nonché i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso degli stati membri ad assumere o mantenere nel posto di lavoro persone che non possiedano i requisiti necessari per svolgere l’insieme delle funzioni che possono essere chiamate ad esercitare, in considerazione dell’obiettivo legittimo di salvaguardare il carattere operativo di siffatti servizi. Inoltre, per salvaguardare la capacità delle proprie forze armate, gli Stati membri possono decidere di escluderle in tutto o in parte dalle disposizioni della Direttiva relative all’handicap o all’età. Gli Stati membri che operano tale scelta devono definire il campo d’applicazione della deroga in questione (considerando 19). L’art. 5, che recepisce l’art. 9 comma 2 della Direttiva, e l’art. 4 della Legge 67/2006, legittimano ad agire ai sensi dell’articolo 3 in forza di delega rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti individuati, secondo il dettato normativo del 2006, con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione. Tali associazioni ed enti possono intervenire nei giudizi per danno subìto dalle persone con disabilità e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti lesivi degli interessi delle persone stesse e sono legittimati ad agire quando i comportamenti discriminatori assumano carattere collettivo. Il comma 5 dell’art. 4 del Decreto stabilisce che con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, dovrà ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione dei suoi effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Inoltre ai sensi del sesto comma il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno, della eventuale natura di ritorsione dell’atto o del comportamento discriminatorio, ovvero di ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. Questa disposizione, tuttavia, non integra quanto prescritto dalla Direttiva, che all’art. 17 vincola gli Stati membri a determinare le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della Direttiva e a prendere tutti i provvedimenti necessari per la loro effettiva applicazione. Infatti la Direttiva vuole sanzioni certe e quantificate ex lege, effettive, proporzionate e dissuasive, non discrezionali come si evincono dalle norme del Decreto. Risulta in questo modo impossibile ottemperare all’obbligo derivante dal medesimo art. 17 della Direttiva, di notificare le disposizioni sanzionatorie e le eventuali loro modificazioni successive alla Commissione. Anche qui, anzi con maggiore forza, vale quanto detto nel paragrafo precedente sulla mancanza di totale attuazione dell’art. 5.

 

Tre casi giurisprudenziali

Analizziamo qui tre casi giurisprudenziali esemplificativi che ci sembrano emblematici in positivo e in negativo.

La Corte Costituzionale, con sentenza 11.5.2006 n. 190, aveva dichiarato incostituzionale l’art. 8 bis del D.L. 136/2004, ora abrogato, che stabiliva che le riserve di posti per i disabili, previste dalla L. 68/1999, si applicassero alle procedure concorsuali relative al reclutamento dei dirigenti scolastici, incluse quelle per il conferimento degli incarichi di presidenza nelle scuole di istruzione secondaria. Secondo la Corte l’art. 38, 3° comma, Cost. tutelerebbe il diritto all’avviamento professionale dei disabili, ma non la progressione in carriera dei disabili già occupati, in quanto l’equilibrio tra i due interessi pubblici, quello che riguarda l’uguaglianza (art. 3 Cost.) e il buon andamento degli uffici pubblici (art. 97 Cost.) e quello che attiene alla tutela dei disabili, è stabilito dall’art. 38 Cost., che consente di derogare al primo solo per favorire l’accesso dei disabili agli uffici pubblici, non la loro progressione, una volta entrati. Pertanto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma denunciata, nella parte in cui si riferisce alle procedure per il conferimento degli incarichi di presidenza, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.. Si nota subito che la Corte non considera che una disciplina diseguale potrebbe giustificarsi, proprio ai sensi dell’art. 3, 2° comma Cost., anche per rimediare ad una disuguaglianza di fatto sussistente nel momento della progressione della carriera di soggetti svantaggiati e per assicurare la piena capacità lavorativa degli invalidi attraverso la rimozione di quegli ostacoli che, a cagione della stessa invalidità, impediscono in modo effettivo il godimento del diritto al lavoro. In nessun disposto costituzionale sussiste un principio ostativo all’avanzamento di carriera dei disabili, e non sarebbe potuto sussistere, anche perché nel 1948 non vigeva né de jure, né de facto nel sentire comune, il principio di collocamento mirato, ma semplicemente il principio assistenzialista del collocamento obbligatorio. Quindi la Corte Costituzionale avrebbe dovuto interpretare la disposizione tenendo conto del progresso dei tempi, e non anacronisticamente, e soprattutto anche alla luce dei succitati articoli 3 primo comma e 5 della direttiva 2000/78, che hanno, nell’ordinamento italiano, valore equivalente alle leggi costituzionali. Aggiungiamo, ad ulteriore forza di quanto appena detto, che, secondo l’art. 8 e il considerando (28) della Direttiva, i requisiti fissati da questa sono minimi e che, qualora vi siano norme interne più favorevoli, la sua attuazione, o  l’attuazione o l’interpretazione di qualsiasi disposto non può servire da giustificazione per un regresso rispetto alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro.

Di tenore opposto è una sentenza del 29.12.2008 del Tribunale di Napoli, il quale ha dichiarato discriminatorio il comportamento dell’ASL in relazione alla mancata nomina di uno o più dei fisioterapisti non vedenti ricorrenti a “referenti”, carica di coordinamento del gruppo dei fisioterapisti che prevede un’indennità aggiuntiva, in quanto l’ASL aveva ritenuto di individuare i referenti escludendo i fisioterapisti non vedenti, senza offrire una valida e razionale spiegazione di tale determinazione, pur in presenza di specifiche domande dei ricorrenti di essere nominati referenti. Al contrario, ha ritenuto che non si potesse attribuire alcun significato discriminatorio, neppure indiretto, al mancato inserimento dei ricorrenti nei turni di lavoro straordinario, perché questi beneficiavano del permesso ex art. 33, 6° comma, L. 104/1992, che consente ai portatori di handicap grave di anticipare il termine del turno ordinario di lavoro di due ore. Il Giudice ha ritenuto tale permesso incompatibile con la prestazione di lavoro straordinario, perché se il lavoratore, per sua stessa richiesta, non si sente in grado o non vuole, per motivi connessi al suo handicap, effettuare l’intero turno ordinario di lavoro giornaliero, non si vede come il datore di lavoro possa chiedergli di prestare lavoro straordinario. In realtà, l’impedimento, secondo il Tribunale, ha solo natura giuridica e non pratica, perché se uno dei ricorrenti avesse rinunciato alla fruizione dei permessi ex art. 33 cit., allora la sua esclusione dall’assegnazione di lavoro straordinario avrebbe configurato un trattamento discriminatorio.

“Adattare il lavoro al lavoratore e non viceversa” è sostanzialmente il principio che sta alla base di un’Ordinanza del 26 marzo 2016 del Tribunale di Avezzano (l’Aquila), che ha ritenuto sussistente la discriminazione sul posto di lavoro, nei confronti di una persona con disabilità, a causa della presenza di barriere architettoniche. Nel fatto, si trattava di una discriminazione subita da una persona con disabilità, sia per la mancata concessione dei permessi, come da Legge 104/92 (art. 33), sia per la turistica, che per le barriere architettoniche. A conclusione del procedimento sommario, il Giudice del Tribunale di Avezzano ha ritenuto sussistente la discriminazione, anche se unicamente per la presenza delle barriere architettoniche, condannando pertanto al risarcimento del danno l’Azienda Sanitaria, ex datrice di lavoro del ricorrente. Il Tribunale, richiamando il disposto di cui all’articolo 63 del Decreto Legislativo 81/08″Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, ha sancito due importanti princìpi.

Il primo riguarda l’obbligo del datore di lavoro di adottare misure idonee a garantire al lavoratore con disabilità la mobilità all’interno della postazione lavorativa. In caso di inadempienza, il datore sarà tenuto a risarcire il danno non patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa, insito nella lesione della dignità del lavoratore disabile che, a causa della limitazione di movimento dovuta alla presenza di barriere architettoniche, avverte un senso di frustrazione, sentendosi discriminato rispetto agli altri lavoratori. Nella fattispecie si trattava di sedie e scrivanie che ostacolavano l’accesso del lavoratore alla sua postazione di lavoro, situata in un locale di ridotte dimensioni. Notiamo che qui può entrare in gioco il principio dell’accomodamento ragionevole ex art. 5 della Direttiva 2000/78.

Il secondo attiene alla circostanza che, allorquando si è in presenza di una situazione accertata oggettivamente idonea a creare disagio nel lavoratore che, a causa della propria disabilità e della presenza di ostacoli ingombranti, non possa muoversi liberamente, non rileva il fatto che il lavoratore non si lamenti delle difficoltà incontrate negli spostamenti all’interno del luogo di lavoro.

Tale principio può collegarsi con il consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di valore giuridico del silenzio. Secondo la giurisprudenza, infatti, «il silenzio non ha alcun valore giuridico nell’ordinamento, se non quando per legge o per contratto sia previsto che debba darsi al medesimo un significato determinato» (tra i tanti: Tribunale di Milano, 10 agosto 2007); e «anche nel rapporto di lavoro il silenzio del lavoratore in sé considerato […] non può valere come consenso, stante la sua intrinseca equivocità» (tra i tanti: Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 8235/99; e si veda anche Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 5437/2011 e Cassazione Civile, n. 21018/12).

Anzi, nell’àmbito del diritto del lavoro, la Suprema Corte ha sancito che «il silenzio, nei casi in cui esso è da equiparare ad una manifestazione tacita di volontà, non può essere valutato in materia di contratto di lavoro col medesimo metro che vale ad attribuirgli gli stessi effetti del comportamento adesivo negli altri contratti, a causa dello stato di soggezione economica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, che impedisce di attribuire al silenzio del primo il significato di accettazione delle condizioni impostegli unilateralmente dall’altra parte» (tra i tanti: Cassazione Civile, n. 2995/77).

Dunque, il datore di lavoro deve provvedere ad abbattere tutte le barriere architettoniche eventualmente presenti nei luoghi di lavoro, anche, ad esempio, assicurando spazi adeguati tra i mobili e tra questi e le componenti edilizie, per consentire al lavoratore con disabilità il passaggio e la libera e agevole mobilità, soprattutto se si serve di sedia a rotelle. Del resto, pure con la Circolare del Ministero del Lavoro e Previdenza Sociale n. 102 del 7 agosto 1995, si è chiarito che, nei luoghi di lavoro, l’adeguamento alle norme sulle barriere architettoniche è obbligatorio anche ai sensi del Decreto Legislativo 626/94 (ora divenuto il già citato Decreto legislativo 81/08). Guardando poi al documento dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, intitolato Garantire la salute e la sicurezza per i lavoratori disabili, vi si evidenzia che «il processo di fornitura delle misure per i lavoratori disabili deve essere coordinato con tutti gli aspetti della gestione della sicurezza, in particolare con la valutazione del rischio […] affinché i dipendenti assolvano le loro mansioni secondo la legislazione sulla salute e la sicurezza e quella contro la discriminazione. Gli orientamenti volti contro la discriminazione devono essere presi in considerazione in tutte le fasi del processo di gestione del rischio, affinché gli ambienti di lavoro, le attrezzature di lavoro e la sua organizzazione siano modificati o adattati ove necessario per far sì che vengano eliminati, o almeno ridotti, i rischi e la discriminazione» (vedasi anche l’art. 6 comma 2 lettera d della Direttiva 89/391/CEE, del 12 giugno 1989). In tale contesto, infine, assume rilevanza anche la Circolare del Ministero dell’Interno 4/02 (Linee guida per la valutazione della sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro ove siano presenti persone disabili), nella quale si sono voluti evidenziare gli elementi strutturali, impiantistici e gestionali che devono essere considerati in funzione di una possibile situazione di emergenza in un luogo di lavoro dove risultino presenti persone con difficoltà di mobilità e/o di orientamento e/o percezione, anche al fine di «conseguire adeguati standard di sicurezza per tutti senza determinare alcuna forma di discriminazione tra i lavoratori».

 

Il Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 (Job’s Act)

in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, entrato in vigore il 24/09/2015, il c.d. Job’s Act modifica parti importanti della Legge 68/99.

L’intero Capo I del Titolo I – dall’art. 1 all’art. 13 – riguarda i lavoratori disabili.

L’art. 1 prevede che vengano definite delle linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità, demandate ad uno o più Decreti del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, che devono essere emessi entro 180 giorni, sulla base di alcuni principi : promuovere una rete integrata tra i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio, che coinvolga anche l’INAIL per l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro; dare impulso ad accordi territoriali tra organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, cooperative sociali, associazioni delle persone con disabilità, per favorire l’inserimento lavorativo dei soggetti disabili; individuare modalità di valutazione bio-psico-sociale della disabilità, (su base ICF) e la definizione dei criteri di predisposizione dei progetti di inserimento lavorativo che tengano conto delle barriere e dei facilitatori ambientali; predisporre l’analisi delle caratteristiche dei posti di lavoro da assegnare ai disabili, anche con riferimento alle modifiche che il datore di lavoro è tenuto ad adottare; definire la figura del responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro, con compiti di predisposizione di progetti personalizzati per le persone con disabilità e di risoluzione dei problemi legati alle condizioni di lavoro dei lavoratori con disabilità, in raccordo con l’I.N.A.I.L. per le persone con disabilità da lavoro; l’impegno di individuare le buone pratiche di inclusione lavorativa dei disabili.

Non è qui esplicitato il necessario coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nell’elaborazione di dette linee guida, per definire le scelte relative al miglioramento dell’inserimento lavorativo mirato. Analizzando tale disposto normativo è stato fatto rilevare che, probabilmente, rispetto alla nuova figura del responsabile dell’inserimento lavorativo, sarebbe stato più funzionale istituire nei posti di lavoro una unità tecnica, ossia un osservatorio per i lavoratori con disabilità, che in stretto raccordo con le RSU/RSA aziendali, si potesse occupare con progetti personalizzati di affrontare e risolvere i problemi legati alle condizioni di lavoro delle persone con disabilità. A nostro parere, invece, tale ruolo potrebbe essere ben ricoperto dalla figura del disability manager, da impiegarsi in azienda o come consulente in outsourcing che in raccordo con le varie unità aziendali, dovrebbe occuparsi, ad esempio, di mobilità all’interno della sede lavorativa, di predisposizione di softwares accessibili ai lettori di schermo e di formare all’interno dell’azienda personale con competenze informatiche sugli ausili per i non vedenti. Sarebbe stata anche l’occasione, lo ribadiamo, per legiferare su quanto disposto dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza che abbiamo ampiamente analizzato sugli accomodamenti ragionevoli.

L’art. 2 modifica l’art.1 comma 1 let.a) della L.68/99, prevedendo che la disciplina sul collocamento mirato si applichi anche alle persone con capacità di lavoro ridotta a meno di un terzo, cioè ai percettori di assegno ordinario di invalidità Inps. È un timido passo per avvicinare la legge 68/99 ad essere effettiva per un maggior numero di persone considerate disabili, se non proprio a tutti, come aveva fatto notare la Corte di Giustizia europea nella sentenza di cui sopra. Con l’art. 3 viene novellato l’art. 3 della legge n. 68/99 eliminando il cosiddetto “regime di gradualità”. I datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti sono obbligati fin da subito all’assunzione di una persona con disabilità. In precedenza l’obbligo sorgeva solo in caso di nuove assunzioni, ora il fatto di avere dai 15 ai 35 dipendenti impone al datore di lavoro di assumere un lavoratore disabile. Questo vale anche per partiti politici, organizzazioni sindacali ed organizzazioni che, senza scopo di lucro, operano nel campo della solidarietà sociale, dell’assistenza e della riabilitazione. È condivisibile la nuova norma che impone, raggiunto il numero di occupati previsto dalla L 68/99, l’assunzione immediata dei disabili senza dover aspettare le future nuove assunzioni. Non si vede la ratio per l’applicazione solo dal 1° gennaio 2017.

Con l’art. 4si introduce nell’art 4 della Legge 68/99 l’obbligo di conteggiare nella quota di riserva i lavoratori, già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite il collocamento obbligatorio, nel caso in cui abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 60%, o minorazioni ascritte dalla prima alla sesta categoria di cui alle tabelle annesse al DPR 915/1978, o con disabilità intellettiva e psichica, con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%. Da una parte vengono quindi maggiormente salvaguardati i lavoratori già disabili prima dell’assunzione avvenuta fuori dalle liste speciali, ricomprendendoli nelle tutele previste dalla Legge 68/99. Dall’altra però viene di conseguenza ridotto il numero dei posti non coperti della quota di riserva (assunzioni obbligatorie), limitando la possibilità di nuove assunzioni delle persone con disabilità. La formulazione generica della norma approvata può dare luogo ad equivoci e valutazioni arbitrarie. Sarebbe stato opportuno precisare che la disabilità intellettiva e psichica deve essere certificata dalle autorità competenti. L’art 5 modifica il suo omologo della legge n. 68/99. È introdotto l’esonero totale dalle assunzioni obbligatorie per i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che occupano addetti impegnati in lavorazioni che comportano il pagamento di un tasso di premio ai fini INAIL pari o superiore al 60 per mille, attraverso una autocertificazione. I datori di lavoro dovranno versare al Fondo Nazionale per il diritto al lavoro dei disabili un contributo esonerativo pari a 30,64 euro per ogni giorno lavorativo per ciascun lavoratore con disabilità non occupato. Viene prevista la compensazione territoriale automatica anche per i datori di lavoro pubblici, prima doveva essere richiesta l’autorizzazione preventiva. In particolare, si stabilisce che i datori di lavoro pubblici possono, comunicandolo per via telematica, assumere in una unità produttiva un numero di lavoratori aventi diritto al collocamento obbligatorio superiore a quello prescritto, compensando il minor numero di lavoratori assunti in altre unità produttive della medesima regione.

L’introduzione dell’esonero totale per attività di rischio e pericolose, se da un lato può avere una ratio evidente nell’applicazione delle norme sulla sicurezza e sulla salute nei posti di lavoro, aumenta la possibilità da parte dei datori di lavoro di aggirare, attraverso il pagamento di una penale, l’obbligo di assumere i lavoratori disabili. I motivi dell’esclusione dovrebbero essere legati non al tasso infortunistico, ma ad un intreccio tra tipologia della disabilità, competenze del disabile e condizioni di lavoro. Non è condivisibile l’autocertificazione, che si può prestare a scelte arbitrarie. Meglio sarebbe stato mantenere l’autorizzazione preventiva da parte degli uffici competenti, oppure prevedere una tipizzazione dei soggetti esenti. Da notare che qui è previsto di indirizzare al Fondo Nazionale e non a quello Regionale le risorse della sanzione prevista, come invece prescrive per tutte le altre penali l’art. 14 della Legge 68/99. Non se ne vede la ratio, non essendoci tra l’una e le altre differenze sostanziali. Anche la scelta di facilitare la compensazione territoriale nel pubblico impiego è particolarmente negativa, in quanto apre la strada alla nascita di “reparti o uffici confino” in cui raggruppare più disabili. Aumenta altresì il rischio, per le persone con disabilità, di dover svolgere il proprio lavoro lontano dal proprio contesto familiare. La compensazione potrebbe penalizzare i territori già colpiti da alte percentuali di disoccupazione tra i disabili”.

L’art. 6 modifica l’art. 7 della legge n. 68/99. Le assunzioni con chiamata nominativa fino ad oggi erano limitate alle aziende da 15 a 35 dipendenti, obbligate ad assumere una sola persona disabile, i partiti politici, le organizzazioni sindacali e sociali e gli enti da essi promossi. Le aziende con un numero di dipendenti da 36 a 50 potevano procedere all’assunzione di un lavoratore con chiamata nominativa e l’altro con richiesta numerica. Nel caso di aziende con più di 50 dipendenti il 60% poteva essere assunto con chiamata nominativa ed il restante 40% con richiesta numerica. Ora vengono estese a tutti i datori di lavoro privati e agli enti pubblici economici, tra le persone iscritte alle liste speciali dei centri per l’impiego. Le assunzioni obbligatorie si potranno fare anche tramite la stipula delle convenzioni previste dall’art. 11 della Legge 68/99. Nel caso di mancata assunzione con chiamata nominativa entro il termine di sessanta giorni gli uffici avviano i lavoratori secondo l’ordine di graduatoria per la qualifica richiesta o altra concordata con il datore di lavoro. Sebbene questa norma sia in linea con la ratio che sottende alla Legge 68/99, cioè il collocamento mirato dei disabili, la generalizzazione delle assunzioni dei disabili tramite le chiamate nominative rischia di creare pesanti discriminazioni, soprattutto per i profili di bassa categoria, in particolare per i lavoratori/trici con gravi disabilità, specie se psichiche o intellettive, con il pericolo di una loro emarginazione a favore di lavoratori/trici con una disabilità minore.

L’art. 8 della legge n. 68/99, come novellato dall’art. 7, stabilisce che la tenuta dell’elenco delle persone con disabilità, che risultano disoccupate, è di competenza dei servizi per il collocamento mirato nel cui ambito territoriale si trova la residenza della persona che può iscriversi nell’elenco di altro servizio in altra parte d’Italia, previa cancellazione dall’elenco in cui era precedentemente iscritta. Viene altresì definito che presso i servizi per il collocamento mirato opera un comitato tecnico, composto da funzionari dei servizi medesimi e da esperti del settore sociale e medico-legale, con particolare riferimento alla materia della disabilità, con compiti di valutazione delle capacità lavorative, di definizione degli strumenti e delle prestazioni atti all’inserimento e di predisposizione dei controlli periodici sulla permanenza delle condizioni di disabilità. Ai componenti il Comitato Tecnico non spetta alcun compenso, indennità o gettone di presenza. Viene data così la possibilità ai disabili di potersi iscrivere in alternativa ad un altro elenco che non sia solo quello del territorio di residenza. Vengono ulteriormente specificati i compiti del Comitato Tecnico, con la piena responsabilità dell’inserimento mirato. Auspichiamo che i membri del comitato tecnico siano effettivamente formati per ogni disabilità e, più in particolare per le persone con problematiche visive, conoscano le potenzialità che le nuove tecnologie offrono, al fine di garantire un effettivo inserimento mirato.

L’art. 8 abroga i commi 2 e 5 dell’art. 9 della Legge 68/99, che definivano le diverse modalità dell’avvio al lavoro delle persone disabili con riferimento alla graduatoria, da parte degli uffici, ora superate dall’art.6 che generalizza le assunzioni a chiamata. Si estende e razionalizza altresì la raccolta dei dati riferiti al collocamento mirato con il fine di semplificare gli adempimenti e rafforzare i controlli istituendo all’interno della Banca dati politiche attive e passive, una apposita sezione denominata “Banca dati del collocamento mirato”. La Banca dati è alimentata, in particolare, dall’INPS, relativamente agli incentivi di cui il datore di lavoro beneficia, dall’INAIL, relativamente agli interventi di reinserimento e integrazione delle persone con disabilità da lavoro, nonché dalle Regioni. I dati che saranno resi disponibili alle regioni, province autonome ed enti pubblici responsabili del collocamento mirato. Sarebbe stato opportuno che i dati raccolti sul collocamento mirato fossero messi direttamente a disposizione anche delle organizzazioni di tutela dei disabili, delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro.

L’art. 9 cancella la possibilità prevista dall’art. 12 bis della Legge 68/99, che norma una specifica tipologia di convenzione per l’inserimento lavorativo, di effettuare l’assunzione con chiamata nominativa, in deroga all’obbligo di effettuare una percentuale di assunzioni con chiamata numerica, poiché la nuova legge consente di assumere sempre con chiamata nominativa. Cancella altresì il precedente diritto del datore di lavoro di prelazione nell’assegnazione degli incentivi.

Con l’art. 10 viene cambiato il sistema previsto dall’art. 13 della legge 68/99, degli incentivi peri datori di lavoro che assumono persone con disabilità. Le aziende potranno usufruire per un periodo di 36 mesi (questo vincolo prima non c’era) di un contributo pari al 70% (dal 60% attuale) della retribuzione mensile lorda per ogni lavoratore disabile assunto con contratto a tempo indeterminato che abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% o con minorazioni ascritte dalla I alla III categoria di cui alle tabelle annesse al DPR 915/1978.

È prevista una specifica misura per favorire l’assunzione delle persone con disabilità intellettiva e psichica. Il contributo del 70% della retribuzione lorda durerà 60 mesi per ogni lavoratore che venga assunto a tempo indeterminato (o anche a tempo determinato per un periodo non inferiore ai dodici mesi e per tutta la durata del contratto), che abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%.

Per ogni lavoratore disabile assunto a tempo indeterminato con una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67% ed il 79% o con le minorazioni ascritte dalla IV alla VI categoria di cui alle tabelle annesse al DPR 915/1978 l’incentivo viene elevato al 35%, contro il 25% attuale. Viene confermata l’opzione che i contributi potranno essere richiesti anche dai datori di lavoro privati che, pur non essendo soggetti agli obblighi della legge 68/1999, procedano all’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori disabili. La gestione e l’erogazione dell’incentivo viene fatta direttamente dall’Inps, non più dalle regioni, ai datori di lavoro mediante conguaglio nelle denunce contributive mensili, sulla base dell’ordine cronologico della presentazione delle domande, sulla base delle risorse disponibili. Il 5% delle risorse del Fondo nazionale può essere utilizzato dal Ministero del Lavoro per sperimentazioni di programmi di inclusione attiva delle persone disabili. La scelta, in se positiva, di aumentare gli incentivi per favorire l’assunzione delle persone con disabilità, specie se con maggiore gravità, viene inficiata dalla decisione, introdotta nell’art. 6, di generalizzare l’assunzione con chiamata nominativa, Scelta che, come abbiamo già ricordato, potrebbe creare pesanti discriminazioni nei confronti dei lavoratori/trici con gravi disabilità.

Non è condivisibile che la gestione degli incentivi alle aziende venga demandata all’Inps sulla base della data di presentazione delle domande. Sarebbe stato più opportuno mantenere la ripartizione del Fondo nazionale alle Regioni, per il loro ruolo di mediazione e rapporto con i territori e gli uffici competenti, sulla base di alcune specificità: il numero delle domande, il numero degli iscritti al collocamento mirato, il funzionamento dei servizi pubblici dell’inserimento lavorativo, la situazione del sistema produttivo regionale eccetera. Si poteva pensare al coinvolgimento dell’Inps nella fase di erogazione dei fondi ai datori di lavoro. L’art. 12 sopprime l’albo nazionale dei centralinisti telefonici privi della vista istituito con l’art. 2 della legge n. 594 del 1957. Sicuramente un passo avanti verso l’attuazione effettiva del collocamento mirato anche per i non vedenti, ancora di fatto vincolati alla gabbia occupazionale delle leggi per il collocamento obbligatorio come centralinisti e masso fisioterapisti che sono state fatte salve, purtroppo, dalla Legge 68/99. Sempre in tema di centralinisti non vedenti, l’art 13 modifica la legge n. 113 del 1985 prevedendo che i privi della vista, analogamente alle altre persone con disabilità, si possono iscrivere nell’elenco del centro per l’impiego del territorio di residenza o, in alternativa, presso un altro servizio di un altro territorio, dopo la preventiva cancellazione dall’elenco in cui erano precedentemente iscritti. Le persone prive della vista avevano la possibilità di iscriversi negli elenchi di più centri per l’impiego. Ora dovranno scegliere l’elenco in cui vogliono iscriversi, entro trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge.

 

Alcune riflessioni finali

Va rilevata l’assenza di ogni riferimento nel Decreto attuativo all’art. 7 della direttiva 2000/78. Su questo rimandiamo a quanto detto sull’ingresso diretto della norma comunitaria nell’ordinamento interno con il rango di norma costituzionale. Il succitato Decreto legislativo 81/08, in ogni caso, colma almeno parzialmente questo vulnus nell’ordinamento.

Sarebbe comunque auspicabile un intervento del Legislatore atto a definire con dirimente chiarezza i criteri di progettazione , orientandoli necessariamente a rendere l’ambiente di lavoro, nonchè ogni ambiente e situazione della vita quotidiana, sicuro e fruibile per tutti secondo il concetto di Universal Design, connesso a quello di Inclusive Design o Design for All, al fine non solo di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti delle persone con disabilità, che trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto all’uguaglianza, alla salute, alla libertà, all’autonomia e alla piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società, ma pure per avere un unico modus operandi nella produzione e nella progettazione, che non sia discriminante.

Per raggiungere a pieno l’obiettivo, bisognerà porre norme chiaramente cogenti e prevedere sanzioni certe, come richiede l’art. 17 della direttiva, che non sono presenti nelle sue norme attuative, e in generale sono demandate alla discrezionalità del Giudice.

Altra considerazione attiene alle norme della Legge 4/2004, c.d. Legge Stanca, che secondo il suo art. 1 si applicano principalmente ai soggetti pubblici o che abbiano funzioni di pubblica utilità. alla luce di quanto detto finora, queste andrebbero senz’altro estese anche ai soggetti datori di lavoro privati, quindi alla totalità dei soggetti attori. Sembrerebbero infatti violare il principio dei requisiti minimi ex art. 8 della Direttiva, abbassando fattivamente il livello di protezione contro la discriminazione.

Infine, al fine di chiarire che non si può in alcun modo considerare contro l’ordinamento un qualsiasi disposto atto a favorire la promozione e l’avanzamento di carriera delle persone disabili, sarebbe auspicabile una norma di livello costituzionale che imponga, per i disabili, un principio simile a quello delle quote rosa per la parità di genere, da seguire per la scelta di personale da impiegare in mansioni direttive e dirigenziali in ogni ambito lavorativo, pubblico e privato.

 

Sitografia

Per la legge 67/2006 e per il Decreto attuativo della Direttiva 78/2000 vedasi per esempio http://www.webaccessibile.org/normative/legge-67-2006/ e http://www.webaccessibile.org/normative/dlgs-216-2003/.
Per un commento alla Sentenza della Corte di Giustizia C-312/11 del 04/07/2013, vedasi http://www.superando.it/2013/06/21/discriminazioni-e-lavoro-importante-sentenza-dalleuropa/
Per un’analisi compiuta delle modifiche alla legge 68/99 apportate dal Job’s Act, vedasi http://www.cgilpiemonte.it/2016/01/canalia01/

Per un discorso più generale sulla Direttiva 78/2000 e la sua attuazione, sulle altre sentenze giurisprudenziali qui citate e su analisi di dottriva, vedasi più in dettaglio “CORSO DI DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO – La discriminazione dei lavoratori con disabilità nei luoghi di lavoro – La normativa antidiscriminatoria comunitaria: Direttiva 2000/78 e giurisprudenza CGUE La normativa antidiscriminatoria italiana”, relazione del dottor Federico Grillo, http://www.ordineavvocatitorino.it/sites/default/files/documents/RELAZIONE%20DOTT%20GRILLO-Discriminazione%20dei%20lavoratori%20disabili.pdf.

Per altre sentenze della Corte di Giustizia europea in tema vedasi sempre per esempio il sito dell’Ordine degli Avvocati di Torino http://www.ordineavvocatitorino.it e in generale sul tema sono consultabili riviste giuridiche come Altalex o siti più specialistici come Handilex.