È illegittimo il licenziamento del lavoratore che abbia rifiutato di essere reintegrato in altra unità produttiva dell’azienda per esigenze familiari e personali, quali la necessità di assistere il parente disabile (compreso nello stato di famiglia) invalido al 100%, nonostante non godesse dei benefici di cui all’art. 3 della legge n.
104 del 1992.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 22421/2015 che ha accolto il ricorso di una lavoratrice.
La donna veniva licenziata a causa di un termine finale di durata apposto al contratto di lavoro, poi dichiarato nullo dal Tribunale di Palermo, pertanto la società della quale era dipendente provvedeva a reintegrarla a Bari (800 km di distanza dal luogo di precedente occupazione), stante l’avvenuta chiusura dell’unità produttiva in cui era stata occupata.
Tuttavia, la ricorrente aveva rifiutato l’esecuzione del provvedimento di trasferimento, ritenuto illegittimo, ed offerto la propria prestazione lavorativa a Palermo (sede originaria), ma per tale rifiuto era stata licenziata. Nonostante la favorevole pronuncia in primo grado, in Appello i giudici ritengono illegittimo il rifiuto opposto dalla lavoratrice.
Tutto cambia dinnanzi ai giudici della Cassazione che, analizzati i dieci motivi di ricorso, accolgono la domanda.
Si legge nella motivazione che non risulta fornita dalla società, sebbene richiesta, adeguata motivazione in merito alla mancata considerazione della situazione familiare della lavoratrice.
Per la Cassazione è ininfluente che la donna non godesse dei benefici della legge n. 104/92, poiché aveva prodotto certificato di stato di famiglia in cui è ricompresa la madre affetta da invalidità al 100%, circostanze non negate dalla società.
I giudici rammentano l’importanza che il legislatore ha voluto attribuire alla socializzazione del soggetto disabile in tutte le sue modalità esplicative, quale fattore di sviluppo della personalità e idoneo strumento di tutela della salute psico-fisica del portatore di handicap.
Si pone l’attenzione anche sul ruolo fondamentale della famiglia nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap, che richiedono, in quanto soggetti deboli, una tutela fatta non solo di prestazioni sanitarie e riabilitazione, ma della continuità delle relazioni costitutive della personalità umana.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite (sent. 16102/2009), ha ritenuto che il familiare lavoratore che assiste un parente portatore di handicap, ha diritto a non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, non potendo subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad originarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda o della P.A.
Anche alla luce dei precetti stabiliti dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, il trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile va vietato anche se si tratta di disabilità non grave.
Deve, ovviamente, trattarsi di disabilità accertata dalla Commissione istituita presso la competente ASL, ai sensi dell’art. 4 della medesima legge, tuttavia, la società non poteva ignorare la complessiva situazione familiare della lavoratrice ed avrebbe dovuto rispettare la Convenzione ONU citata, astenendosi dal disporre l’impegnato trasferimento a prescindere dalla fruizione dei benefici di cui alla menzionata legge.
Il contratto di lavoro dei familiari conviventi con la persona tutelata va, dunque, regolamentato adeguatamente. Il trasferimento deve essere dichiarato illegittimo e va confermata la sentenza resa dal Tribunale in primo grado.
La sentenza in commento, esprime un orientamento espansivo dei diritti e sensibile ai bisogni dei più deboli, facendo prevalere la sostanza sulla forma.
Paolo Colombo