Scoprire casualmente alla soglia dei novant’anni l’esistenza di una grave patologia che colpisce bimbi in tenerissima età mi era parsa una imperdonabile lacuna, sopratutto essendo io da oltre un ventennio in una condizione di ipovedenza che mi ha visto spesso fruitore di reparti oculistici di strutture ospedaliere.
Ma poi ho potuto ricredermi in merito alla mia “ignoranza” constatando che in effetti questa affezione “bastarda”, come l’ha definita il padre di un piccino vittima del male, é conosciuta solo da chi se la trova d’improvviso sconvolgente sul suo percorso di vita e da “addetti ai lavori”, pediatri e oculisti, che hanno poche armi a disposizione per prevenirne le conseguenze.
Sto parlando di “cataratta congenita” una patologia che si manifesta nei neonati e che, se non diagnosticata entro pochi giorni dalla nascita, può sfociare in situazioni drammatiche.
L’aver stabilito in circostanze fortuite un contatto tramite il più diffuso social network con la mamma di un bimbo sofferente per quel male e, successivamente, con genitori appartenenti al gruppo che porta il nome della patologia, mi ha fatto conoscere realtà affrontate in particolare da giovani mamme coraggiose con determinazione. Ma il loro coraggio, il loro amore per i loro piccoli, non può vincere le ansie e le paure per le incertezze sul futuro.
E ciò che maggiormente le angoscia é l’essere consce che sarebbe bastato un test preventivo, l’esame del “riflesso rosso”, per poter aggredire subito il male.
E vero che questo non avrebbe evitato probabilmente tutto il pesante iter curativo, intervento chirurgico compreso, ma avrebbe totalmente o in gran parte evitato le conseguenze future.
Tutte le mamme appartenenti a quel gruppo, che purtroppo vede aderire ogni giorno
nuovi genitori alla ricerca di una parola di conforto, di aiuto, di una prova di amicizia, o magari soltanto di un consiglio su come affrontare un evento improvviso, traumatizzante, avendo appena appreso che il loro figlio é vittima di quel subdolo male, si vogliono impegnare per ottenere che il test che diagnostica la presenza della cataratta congenita venga effettuato in ogni reparto neonatale di tutte le strutture ospedaliere sul territorio nazionale.
Vorrebbero anche che questo esame divenisse obbligatorio come lo sono oggi le diverse vaccinazioni alle quali vengono sottoposti tutti i bambini.
Il costo per il servizio sanitario nazionale sarebbe sicuramente esiguo e largamente compensato dai risultati. Una diagnosi tardiva infatti comporta il rischio di casi irreversibili di ipovedenza e purtroppo anche di situazioni irreparabili di cecità.
Ma un altro traguardo vorrebbero raggiungere le famiglie dei bimbi colpiti da questa disabilità, che per fortuna attraverso anni di cure affrontate con grandi sacrifici anche di carattere economico ,in moltissimi casi giunge al recupero di buone funzioni visive.
E a questo punto dopo aver parlato del “riflesso” mi pare opportuno passare a qualche riflessione.
Esistono malattie che vengono in una ipotetica scala di valori, relegati nelle ultime posizioni. A volte ciò avviene a cagione dei dati statistici che le fanno includere nel novero delle patologie rare.
La cataratta congenita, secondo i dati più recenti, colpisce un bimbo ogni 2500 nascite, e definirla patologia rara mi pare quanto meno azzardato. Comunque sia si tratta di un male che aggredisce giovani vite, che condiziona l’esistenza di coloro che rappresentano il nostro futuro e il futuro della nostra nazione. E’ un patrimonio, un grande tesoro che deve essere salvaguardato e difeso.
Si tratta di bimbi in una condizione che li pone temporaneamente nel novero dei così detti “diversamente abili” (anche se personalmente odio queste definizioni eufemisticamente create per addolcire pillole amare).
Temporaneamente, ho detto, perché si tratta di anni di cure, di anni di sacrifici , di anni di costi per visite di controllo da effettuarsi spesso in località a distanze notevoli dalle abitazioni dei piccoli malati, di anni di spese per viaggi e soggiorni, che se si concludono in rari casi con un successo totale, il più delle volte offrono risultati di proporzioni modeste, che comunque preservano da situazioni drammatiche, mantenute in proporzioni meno pesanti.
Ma tutto questo incide sui bilanci di famiglie costrette a volte ad indebitarsi o a ricorrere all’aiuto di amici e parenti per sopperire a oneri gravosi.
In una Nazione dove centinaia di “falsi invalidi” gravano per decine di anni sul bilancio delle stato, nessun uomo di governo, nessun uomo politico ha fino ad oggi pensato , forse ignorandone il problema, a questi piccoli “invalidi” ai quali sarebbe sufficiente riconoscere il diritto alle cure, il diritto ad essere assistiti nei loro luoghi di origine. Anche perché una assistenza a carattere locale significa controlli più frequenti con maggiori probabilità di successo.
Si potrebbe in questo modo ridurre il numero dei bimbi destinati a divenire nel tempo e per tutti gli anni restanti della loro vita dei “diversamente abili” con pensioni di accompagnamento e tutti i conseguenti aggravi a carico della collettività.
Forse sarebbe utile qualche riflessione anche in più elevate sedi, sopratutto tenendo sempre presente che chi silenziosamente reclama un futuro normale sono bimbi, piccoli teneri innocenti “cuccioli’ che non possiamo e non dobbiamo deludere.