L’11 maggio 1976 il Parlamento “restituiva” ai ragazzi con disabilità visiva il diritto all’inclusione nella scuola di tutti, un diritto che gli era stato loro “scippato” da due leggi: quella che nel 1952 statizzava le scuole elementari per ciechi e quella che nel 1962 istituiva la scuola media unica. La prima prevedendo che i ciechi dovevano assolvere all’obbligo scolastico nelle apposite scuole speciali, impediva, contrariamente a quanto previsto dalla riforma Gentile, che essi potessero frequentare, a partire dalla quarta elementare, le scuole comuni. La seconda, estendendo l’obbligo fino a 14 anni, li costringeva a frequentare anche le nuove scuole medie speciali, nate dalla trasformazione delle precedenti scuole speciali di avviamento professionale.
Questo rende evidente come la frequenza degli alunni con disabilità visiva nelle scuole speciali fino al termine dell’obbligo scolastico, non sia stato il frutto di una riflessione tiflopedagogica, ma sia stata piuttosto motivata dalla necessità di salvaguardare strutture e interessi diversi.
A questa situazione si ribellarono, a partire dai primi anni ’70, alcuni genitori Spezzini, seguiti da altri (Torinesi, Bergamaschi e Veneti e via via, di altre regioni), che, seppure non sempre appoggiati dalle locali sedi dell’U.I.C.I., ottennero che i loro figli fossero accettati nelle scuole comuni per l’assolvimento dell’obbligo. Nasceva così, all’interno dell’Unione, quel movimento che avrebbe lottato per ottenere di nuovo il riconoscimento del diritto all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità visiva, quel diritto che Augusto Romagnoli nel 1925 aveva voluto per loro a partire dalla quarta elementare e che leggi motivate più dalla salvaguardia delle istituzioni che dalle ragioni pedagogiche avevano loro sottratto. La legge 360, promossa da una parlamentare Bergamasca, che prima come assessore all’istruzione di quella provincia aveva avuto modo di verificare l’efficacia dell’inclusione scolastica per i ragazzi con problemi di vista, fece giustizia dello scippo, restituendo loro il diritto alla frequenza nella scuola di tutti, precedendo di un anno quella che sarà la legge che sancirà il diritto all’inclusione nella scuola dell’obbligo per tutti i disabili.
Purtroppo, il modo con cui, a partire da questo momento, verrà realizzato il modello di inclusione, non terrà conto di uno dei due “pilastri” sui quali la 517 fondava il processo di integrazione: lo sviluppo di un “contesto inclusivo”, ma si limiterà a fare affidamento unicamente sul docente di sostegno e ciò favorirà il progressivo disimpegno degli insegnanti titolari e l’ampliarsi della “delega” del disabile al sostegno. Inoltre, anche in considerazione della modesta percentuale di disabili visivi (meno del 2%) sul totale degli alunni disabili, il modello di inclusione e la formazione dei docenti, focalizzandosi sulla disabilità intellettiva, terranno sempre meno in conto le specificità della minorazione visiva. Questi i principali punti di debolezza di un modello di inclusione, che, per quanto riguarda l’istruzione dei disabili visivi, ha sicuramente la necessità di essere rivisto.
Tuttavia questo non giustifica certo le “nostalgie” di chi evoca un ritorno alle scuole speciali: l’inclusione dei disabili nella scuola di tutti è un principio della cui validità tutti sono convinti, tanto che il nostro sistema inclusivo è all’attenzione delle agenzie formative di tutta l’Europa, e non solo, e sempre più nazioni stanno aprendo i loro sistemi scolastici all’inclusione dei disabili.
Per quanto riguarda i ciechi poi, come abbiamo visto, non si tratta che di tornare ai principi del fondatore della tiflologia che sostenne, sin da principio e nonostante si fosse in un contesto socioculturale in cui l’analfabetismo era ancora molto diffuso, che i nostri ragazzi potevano frequentare le normali scuole sin dalla quarta elementare (ovviamente senza docente di sostegno).
Quarant’anni di integrazione scolastica ci hanno insegnato che per una reale inclusione questo modello che è passato a fornire agli alunni con disabilità visiva da meno di 13 ore medie settimanali dei primi anni 90, le attuali 25 ore medie settimanali di sostegno (tra scuola e a casa), non è servito a migliorarne il processo di inclusione, né serve pretendere per loro il rapporto uno a uno: è dimostrato che non è l’aumento delle ore di sostegno ad elevare il livello qualitativo dell’inclusione. Ciò che serve è un “contesto inclusivo” in grado di mettere i ragazzi nelle condizioni di seguire autonomamente le lezioni, un contesto capace di offrire, attraverso una “rete organizzata” tra territorio e scuola, servizi di formazione e sostegno specializzati e di qualità che rendano i docenti titolari “capaci” all’insegnamento dei ragazzi con disabilità, fornendo loro gli strumenti perché essi riescano ad interagire positivamente con lui. Un contesto in cui vi sia chi sappia: comprendere gli aspetti critici dello sviluppo psicomotorio in assenza della vista e suggerire come si faccia a superarli con successo; chiarire gli aspetti specifici della percezione della realtà in mancanza della vista; valutare la funzionalità del residuo visivo in relazione al lavoro didattico e/o professionale; insegnare come si educa un minorato della vista alla “lettura” delle rappresentazioni grafiche bidimensionali (grafici, piantine toponomastiche e cartine, disegni in rilievo, ecc.); indicare quando è indispensabile l’insegnamento del metodo Braille, piuttosto che quali siano i sussidi per gli ipovedenti per rendere autonomo il bambino con disabilità visiva nella letto-scrittura; illustrare quali siano gli accorgimenti ed i sussidi per rendere efficace la didattica in presenza di un cieco assoluto e/o di un ipovedente grave; insegnare l’uso del PC con le periferiche assistive (screen reader, display Braille, sofware ingrandenti, ecc.); individuare i giochi idonei al bambino con gravi problemi di vista; indicare quali siano le opportunità di accesso all’informazione (quotidiani e riviste on line accessibili, biblioteche digitali, audiolibri, ecc.); suggerire come si “adatta” un testo di scuola primaria o un testo letterario o scientifico affinché il privo della vista o l’ipovedente lo possano utilizzare appieno; far capire come insegnare la musica a chi non riesce a leggere lo spartito; spiegare quali siano le possibilità di orientamento, mobilità e di autonomia personale raggiungibili alle diverse età e nelle diverse situazioni da chi ha problemi di vista; valutare l’idoneità di una situazione di lavoro e la sua adattabilità al cieco o all’ipovedente. Tutto questo può sembrare un’utopia, ma può diventare realtà se si riesce a mettere “in rete” tutte le capacità e le risorse oggi presenti, ma scoordinate tra loro, è questa la nuova sfida che l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e gli enti ad essa collegati: Federazione delle istituzioni pro Ciechi, Biblioteca Nazionale per Ciechi, I.Ri.Fo.R. e IAPB, vogliono affrontare con la creazione di un network per gli studi tiflodidattici e tiflopedagogici.
Occorre invece fuggire da coloro che, viceversa, vorrebbero nuove scuole speciali per ciechi, e che, sfruttando il malcontento di quei genitori che, lasciati soli e avendo trovato docenti di sostegno impreparati, temono per il futuro dei propri figli, offrono loro questa come soluzione, illudendoli che in tal modo i loro problemi saranno risolti.
Certe nostalgie non hanno senso nel momento in cui la pedagogia internazionale riconosce che l’inclusione scolastica è il modello educativo più valido e, a maggior ragione, esso lo sarà per quei disabili che da sempre, prima che altri interessi gliene scippassero il diritto, sono andati a scuola con i loro compagni vedenti.
Una data da ricordare, di Luciano Paschetta
Autore: Luciano Paschetta