Rubrica per genitori.
In questo numero affrontiamo per la prima volta il tema dell’istruzione e, in particolare, grazie al contributo della prof.ssa Daniela Floriduz, parleremo del ruolo degli operatori per il sostegno.
Il modello I.C.F. (International Classification of Functioning, Classificazione Internazionale del funzionamento), mira a superare la concezione stessa di disabilità, intesa come handicap invalidante che riguarda un settore specifico della popolazione. Va riconosciuta senz’altro la menomazione, che risulta un dato biomedico, scientificamente inconfutabile e misurabile (il visus, ad esempio, viene accertato per erogare le provvidenze sociali). Al di là della menomazione, tuttavia, il soggetto “funziona” o meno a seconda della rete contestuale in cui è collocato, con la quale interagisce. L’uso delle parole non è privo di conseguenze sulla realtà e attesta anche una visione del mondo ben precisa, una percezione legata alla mentalità e agli stereotipi. Non è ininfluente il fatto che, alla fine degli anni ’60, sulla scorta dei processi di de istituzionalizzazione conseguenti al 1968, sia avvenuto un passaggio non solo semantico, ma anche culturale, filosofico, sociale dall’”inserimento” all’”integrazione” dei disabili nella scuola. L’I.C.F., per così dire, universalizza i processi di integrazione: non è la maggioranza che è chiamata ad “integrare” l’alunno disabile in una classe di persone già “integrate” e “integre”. E’ il contesto che deve continuamente ridefinirsi, adattarsi ad una realtà che scorre e muta continuamente, sfuggendo alle categorie interpretative con cui, di volta in volta, si cerca di ridefinirla e inquadrarla.
Pertanto, nel corso della vita, a seconda della tipologia di funzioni che un soggetto è chiamato a svolgere, ciascuno è abile o disabile. È dunque importante attivare una rete di supporto, un contesto operativo all’interno del quale il soggetto può “funzionare”, estrinsecando tutte le sue potenzialità. Il soggetto è dunque protagonista della propria inclusione, non come primo attore su un palcoscenico, come beneficiario di interventi di stampo assistenziale e medicalistico, ma come co-attore, responsabile del proprio iter di crescita. Viene infatti superato il modello meccanicistico e comportamentista in base al quale, una volta studiata la sintomatologia e analizzate le cause del problema, si provvedeva ad una diagnosi e ad una “prescrizione” che poi veniva estesa e applicata in casi analoghi, senza tener conto dei prerequisiti di base e delle esigenze di partenza. Lo stato di benessere non viene tout court identificato con la salute del corpo, con il funzionamento degli organi di senso o dei vari apparati dell’organismo, ma con fattori psicologici e sociali. Il contesto può rendere disabile una persona o rendere invalidante la sua disabilità. Ad esempio, se la scuola non educa il ragazzo cieco all’utilizzo autonomo dei mezzi informatici, l’alunno, oltre a mancare della funzione visiva, non potrà neanche accedere da solo alla molteplicità di informazioni presenti in rete o ad un testo elettronico o alla produzione di materiale scritto ecc. L’incapacità di utilizzare il computer non dipenderà, dunque, dalla disabilità visiva. Pertanto, risulta fondamentale che gli operatori (insegnanti di sostegno, educatori e genitori), all’inizio dell’anno, lavorino congiuntamente su un programma di attività che il soggetto può imparare a svolgere, indicando concretamente obiettivi, strategie, metodi, strumenti, persone coinvolte, esplicitando molto bene i criteri di valutazione e verificando in fase finale il grado di acquisizione di dette abilità. La molteplicità di operatori che spesso supportano un alunno disabile visivo non sempre garantisce l’esercizio autonomo delle sue potenzialità. Il lavoro degli operatori dovrebbe essere finalizzato progressivamente al superamento della necessità della loro presenza, alla scomparsa progressiva della loro insostituibilità. Il numero di ore di sostegno scolastico non garantisce, di per sé, la qualità dell’integrazione. Spesso, dove vi sono disservizi o vengono concesse poche ore di sostegno, il soggetto attiva maggiormente le proprie risorse, il contesto si responsabilizza e compartecipa. L’impianto assistenzialista della legislazione sociale italiana, compresa la legge 104/92, nonché i provvedimenti miranti, ad esempio, all’abbattimento delle barriere architettoniche, risulta focalizzato sulla rivendicazione di diritti per categorie specifiche, settoriali. Il presupposto dell’i.c.f. è una considerazione dinamica della persona e del contesto: il soggetto è in evoluzione e, pur essendo colpito da una disabilità permanente, può mutare il grado di accettazione, di convivenza, di superamento di detta disabilità nel corso della vita. Il lavoro sull’autostima e sulla fiducia nelle proprie possibilità, da questo punto di vista, risulta di fondamentale importanza. Non tutto dipende dal soggetto e non tutto dipende dal contesto: c’è un’interazione sinergica tra questi due elementi. Se, ad esempio, nel caso dell’autostima, il contesto non rimanda al soggetto messaggi di rinforzo, ma continue smentite o dichiarazioni preventive di fallimento, il soggetto non sentirà di poter far leva sulle sue risorse e peserà, nei suoi confronti, il pregiudizio negativo, secondo lo schema della “profezia che si auto avvera”. Ogni processo di educazione ha di mira la formazione di un soggetto adulto autonomo, capace di autodeterminarsi. A questo livello, gioca un ruolo molto potente anche la sfera dell’affettività. Se l’operatore si sostituisce continuamente alla persona disabile, anche e soprattutto utilizzando, sicuramente in buona fede, meccanismi di iperprotezione, risparmiando alla persona disabile i cosiddetti “urti della vita”, questa campana di vetro non farà che rinforzarsi negli anni, sarà carica di incrostazioni e sedimentazioni anche autoindotte, per cui risulterà progressivamente difficile uscire dalla cappa rassicurante, ma psicologicamente distruttiva, che gli adulti hanno consolidato intorno al disabile.
Il paradigma I.C.F. aiuta ad evitare l’etichetta degli stereotipi, positivi o negativi, dal momento che non esistono cliché e le situazioni variano a seconda dei singoli, per cui la diagnosi di handicap non dovrebbe mai precedere la persona che ne è colpita, come uno stigma o un’etichetta indelebile. Ci sono sicuramente atteggiamenti ricorrenti, che qualificano la disabilità visiva in quanto tale e ad essa si accompagnano, come dimostra la letteratura tiflologica fin qui prodotta: ad esempio, i cosiddetti cechismi rappresentano un dato che gli studi sullo sviluppo psicomotorio danno ormai per acquisito e possono rappresentare degli utili descrittori di una situazione. Tuttavia, le modalità della loro insorgenza, nonché le strategie per il loro superamento, variano a seconda delle situazioni. Non esistono cliché codificati e la persona eccede, sempre e comunque, i protocolli sanitari e le tabelle psicoattitudinali codificate. Gli strumenti di monitoraggio e valutazione rappresentano degli standard utili per descrivere il “qui ed ora”, ma poi è necessario calarli nella realtà, per verificare la possibilità di intervenire concretamente sul contesto, al fine di migliorarlo.
Il cambiamento del contesto non risulta utile soltanto alla persona con deficit visivo, ma anche al miglioramento della qualità di vita di una società nel suo complesso. Ad esempio, se, a scuola, il clima di un gruppo-classe risulta accogliente ed inclusivo, potrà beneficiarne non solo il ragazzo cieco, ma anche i suoi compagni, che magari non sono colpiti da disabilità certificate, ma che necessitano comunque di un’atmosfera integrante per estrinsecare al meglio le proprie attitudini, per superare un momentaneo disagio esistenziale, per ritrovare fiducia in se stessi ecc. Gli insegnanti di sostegno, nei corsi di formazione che sono chiamati a seguire, imparano per prima cosa, quasi come un mantra o un dogma, che, prima di tutto, il loro lavoro è rivolto all’intera classe: sono parte integrante del consiglio di classe, a tutti gli effetti, concorrono dunque alla valutazione complessiva degli alunni, come ogni altro docente. Questo significa, però, che la presenza del disabile deve costituire un valore aggiunto all’interno del gruppo, che gli interventi mirati sono efficaci solo per colmare il divario che la tecnologia o la metodologia didattica inevitabilmente comporta, in certe fasi dell’apprendimento. Il ruolo dell’insegnante di sostegno è quello di aiutare l’alunno disabile a padroneggiare le tecnologie che possono renderlo autonomo, ad esplorare l’ambiente, ad attivare strategie di socializzazione: si tratta di momenti di formazione inevitabilmente specifici, una volta a carico degli istituti e delle scuole speciali. Si tratta di un’attrezzatura, di un bagaglio di prerequisiti che devono rendere l’allievo in grado di affrontare qualsiasi momento di formazione in autonomia. Ciò non esclude che la specifica formazione possa rappresentare poi un arricchimento per l’intera classe: ad esempio, l’apprendimento del Braille potrebbe essere un’ottima opportunità didattica anche per gli alunni normodotati, che avrebbero così modo di confrontarsi con codici di accesso al sapere diversi, magari anche unitamente all’insegnamento della Lis o di altre forme di comunicazione e scrittura.
Superare la marginalità è una condizione dinamica, soprattutto a livello psicologico: richiede la capacità di gestire la frustrazione, di comprendere che ciascun individuo, a seconda delle situazioni, può trovarsi esistenzialmente ai margini o al centro del contesto, di essere capaci di lavorare anche a partire da una situazione di dislocazione marginale, per migliorare il quadro complessivo.
Nessuno rimane stabilmente ai margini di una cultura.
D’altra parte, l’accesso alle risorse va adeguatamente distinto dalle competenze d’uso delle medesime: il deficit visivo insegna a non rimanere ancorati dogmaticamente ed esclusivamente ad un ausilio, ma a diventare flessibilmente capaci di adattarsi alle esigenze della realtà e della vita, maneggiando, all’occorrenza, tutti gli strumenti resi disponibili dalla tecnologia e dalla tradizione. La scrittura in Braille con tavoletta e punteruolo, ad esempio, non può essere abbandonata perché c’è stato l’avvento dell’informatica: l’alunno cieco deve essere in grado di scrivere una cartolina in Braille quando va in vacanza e non ha a disposizione il pc e la stampante. Non solo: l’utilizzo della tavoletta attiva competenze di natura psicomotoria (lateralizzazione, direzionalità, abilità tattili), utili anche nella sfera della mobilità autonoma. Non esiste un ausilio miracolistico, una panacea per tutte le situazioni, lo strumento migliore in assoluto, ma ci sono mezzi funzionali al raggiungimento di un determinato scopo e gli operatori devono interrogarsi circa l’ausilio che, di volta in volta, permette all’alunno di conseguire al meglio l’obiettivo educativo e didattico su cui si intende lavorare. Pertanto, la valutazione di una competenza operativa deve evidenziare le abilità nell’utilizzo delle risorse atte a raggiungerla ed attuarla. Vale anche il discorso inverso: l’accesso alle risorse non sempre denota un’adeguata padronanza delle competenze ad esse legate. Se, ad esempio, l’alunno disabile visivo sa utilizzare adeguatamente il navigatore satellitare presente sul telefonino, ma non è in grado di orientarsi per strada né di girare autonomamente, l’utilizzo della risorsa è disgiunto dalla competenza, con il pericolo del verbalismo, molto spesso associato alla cecità.
L’acquisizione di una competenza dev’essere valutata anche tenendo conto del supporto e dell’aiuto prestato eventualmente nell’esecuzione del compito, l’aiuto può essere anche solo psicologico, ma va comunque segnalato nella descrizione delle abilità e competenze del soggetto.
In tal senso, l’I.C.F. insegna anche un utilizzo corretto del linguaggio, come descrittore di una situazione in un dato momento, non come generatore di stereotipi o alimentatore di ipocrisie. L’antica diatriba sull’utilizzo dell’espressione “non vedente” al posto di “cieco”, nasconde, a volte, la difficoltà a reagire di fronte alla disabilità visiva e a descriverla per quello che è. Dietro le parole ci sono spesso cattive prassi ed errori concettuali, per cui la qualità dell’intervento e la sua inclusività vengono frenate proprio dalla mancanza di chiarezza terminologica, che rappresenta, poi, mancanza di onestà intellettuale e di limpidezza di pensiero. Ciò incide, ad esempio, nelle schede di valutazione che si producono in ambito scolastico e che rispondono, spesso, a necessità di tutela formale degli operatori, grondano di riferimenti burocratici, ma non modificano la prassi e l’intervento. Classificare aiuta certamente a valutare, ma non si deve essere prigionieri di una griglia, essa va adattata alla situazione e riformulata secondo le necessità, seguendo l’evoluzione del soggetto. Specificare meglio i comportamenti operativi, mediante l’utilizzo di un linguaggio adeguato, vuol dire diventare maggiormente efficaci, rispettosi, attinenti, democratici, nonché favorire la chiarezza e la comunicazione tra gli operatori. La valutazione deve esplicitare i criteri utilizzati, le modalità e i tempi di osservazione. L’I.C.F. non utilizza giudizi, ma qualificatori, dei semplici descrittori che possono mutare se cambiano le condizioni. L’I.C.F. parla di “co-design”: ogni operatore chiamato a valutare un soggetto è portatore di un punto di vista specifico, la valutazione deve necessariamente diventare anche autovalutazione. Ciò non significa relativismo solipsistico: mettendo insieme i diversi punti di vista, è possibile ottenere un quadro completo. Nessuno ha un canale di osservazione privilegiato, il confronto può costare fatica, ma è l’unico modo per ottenere un quadro il più possibile circostanziato e completo, al fine di produrre un intervento educativo e didattico mirato, adatto alla persona e al suo ambiente di vita.
Daniela Floriduz
Docente di storia e filosofia presso il liceo classico Leopardi-Majorana di Pordenone, componente la Commissione Nazionale Istruzione e la Commissione per la tutela dei diritti degli insegnanti dell’Uici.