In quale modo la tecnologia continuerà ad essere al servizio dell’uomo? Quali saranno i parametri qualitativi di domani? Quanto e in che modo svolgerà un ruolo a compensazione delle disabilità? La progettazione di una tecnologia facile, “amichevole” e sempre più autonoma è fuor di dubbio indicatore e cartina di tornasole dell’evoluzione delle dinamiche relazionali uomo-macchina. Vero è che più il rapporto uomo-device sarà basato prevalentemente su comandi gestuali impartiti a distanza e il solo pensiero sarà scintilla e causa di un evento esterno indipendente, tanto più il senso della vista manterrà la supremazia sugli altri sensi. Avrà dunque termine lo scontro sensoriale in atto oppure la multisensorialità, intesa come larga banda attraverso cui interagire con le “cose”, continuerà ad essere oggetto di attenzione da parte dei ricercatori? Ad ogni modo, più lo strumento tecnologico si affrancherà dall’uomo tanto più questi gli cederà potere di scelta e di azione. L’uomo avrà “schifo” persino di toccare ciò che è frutto della sua creatività, ciò di cui si serve. L’uomo prenderà le distanze da ciò che è il risultato della sua ricerca e da ciò che inventa, da ciò di cui non potrà più comunque fare a meno. In quest’ultimo scenario, allora, l’uomo non guarderà al visivo come strumento per “manipolare” il mondo, ma sarà schiacciato, soverchiato, dominato, sarà, in una sorta di ribaltamento dei ruoli, pilotato dalla tecnologia, dalla robotica, dall’intelligenza artificiale, da ciò che egli stesso ha realizzato per sua stessa mano ed intelligenza. La disabilità e la tifloinformatica troveranno ancora posto lungo l’asse tecnologia-didattica digitale? Potranno le tecnologie avanzate del futuro “normalizzare” ogni forma di disabilità? Ma cos’è la normalità? Ed esiste una normalità? Avrà ancora senso ragionare di didattica inclusiva?
Abbiamo imparato a dirci che nessuno può essere considerato normale. Forse, neghiamo la normalità perché non accettiamo la nostra diversità.
“La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo. Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma”. Cit. “Nati due volte” Pontiggia.
Se la norma si configura come pluralità di differenze, non possiamo permettere, tuttavia, che alcuno si dimentichi dei bisogni specifici delle persone che vivono in uno stato di permanente difficoltà, per condizioni fisiche, mentali, ambientali o sociali, che comportino svantaggi ed emarginazioni. E’ importante altresì riconoscere la necessità di non permettere al deficit di oscurare il valore della persona nella sua essenziale umanità, sottolineando le abilità, valorizzando le potenzialità di ogni individuo, richiamando il concetto tanto avverso quanto interessante di “diversabilità”. La pedagogia speciale si sta occupando, alla luce dei cambiamenti sociali e culturali in atto, anche dello studio, della ricerca e della presa in carico e cura delle situazioni di vulnerabilità causate non solo da fattori biologici, ma anche personali, sociali, culturali e ambientali. Ricerca inoltre i modi possibili per favorire una riorganizzazione positiva della vita, con l’osservazione e lo studio degli atteggiamenti di resilienza ovvero la resistenza psicologica alle avversità, che rappresenta una nuova prospettiva verso la disabilità e l’handicap. Se si vuole lavorare nell’interesse della persona disabile, non si può partire dalle competenze burocratiche, bisogna partire da lui, crescere con lui, seguirlo in tutto il continuum della sua esistenza, individuando per lui e con lui il suo “progetto di vita”.
È peraltro da scongiurare “la tragedia della modernità: come nel caso dei genitori nevrotici e iperprotettivi, spesso chi cerca di aiutarci finisce per farci più male. Se quasi tutto ciò che è calato dall’alto (top-down) rende fragili, impedendo l’antifragilità e la crescita, d’altro canto con la giusta quantità di stress e disordine tutto ciò che viene dal basso (bottom-up) fiorisce. Lo stesso processo di scoperta è condizionato dall’antifragile arte di sperimentare e da un’aggressiva assunzione di rischi, piuttosto che dall’aver ricevuto un’istruzione regolare (e lo stesso vale per l’innovazione o il progresso tecnologico). Cit. “Antifragile” – Nassim Nicolas Taleb.
Spesso attribuiamo la causa della nostra fragilità totale unicamente a quelle 3 lettere del prefisso “dis”, “calato dall’alto”, che rappresenta la negazione o la privazione di una qualsivoglia condizione di abilità. L’oppressione di quella parolina ci pervade e ci tiene compagnia dalla mattina alla sera, dalla sera alla mattina, ci soverchia tutti i giorni della nostra vita: cresce, vive e se ne va con noi. Come combattere la fragilità? Come rifuggirla? Esiste il suo opposto funzionale? Esiste davvero un antidoto efficace?
Cerchiamo riparo in situazioni ed eventi esterni a noi, indipendenti da noi. Le nostre generazioni, ad esempio, trovano per lo più momenti di sollievo e conforto salvifici nel rincorrere gli ultimi ritrovati tecnologici: improvvisate sperimentazioni, test senza un dichiarato scopo, promesse vaghe, si rivelano spesso specchi per allodole; l’inconscio bisogno di riprendere un po’ di fiato trascorrendo brevi istanti di evasione si traduce in rapida delusione e inevitabile rammarico; siamo chiamati a conoscere aggeggi di dubbia utilità, ausili spesso solo tali sulla carta, ultime versioni di software talvolta peggiorative; ogni volta siamo attratti con lo stesso immutato ardore e rinnovata speranza, disposti a donare la nostra unicità di persone con tutte le loro inestimabili differenze in nome ed in cambio di una uguaglianza fatta di ipotetiche pari, fugaci opportunità; ogni volta, quasi ogni volta, riprecipitiamo giù, quando qualcosa o qualcuno mette in luce i nostri limiti, fisici o sensoriali, pronti però a ripartire, questa volta, dalla nostra segreta fortezza fatta di fatiche mai dichiarate, di sconfitte mal digerite, d’intime frustrazioni alquanto corrosive. Affrontare con avvedutezza gli ostacoli della vita, reagire prontamente agli imprevisti, abituarsi alla disabitudine, sono alcune fondamentali leve dalle quali può lievitare la crescita personale di un qualsiasi individuo, disabile o no.
Di certo, i dispositivi tecnologici sono ormai considerati vitali per tutti, dallo smartphone al personal computer; è fuor di dubbio che non riusciamo ad immaginare un mondo privo di tecnologia! Il confine infatti tra mondo reale e virtuale è alquanto aleatorio. Muoversi con la consapevolezza di poter sbagliare, di mettere il piede in fallo, di cadere senza appiglio, sono rischi che ormai fanno parte della nostra stessa esistenza, con i quali dobbiamo imparare a convivere fino a farceli amici.
Ecco ancora una qualità, un’altra abilità da migliorare! Ci viene in aiuto ancora una volta Nassim Nicolas Taleb con il suo illuminante lavoro.
“L’antifragilità va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli shock e rimane identico a se stesso; l’antifragile migliora. Questa qualità è alla base di tutto ciò che muta nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle aziende, le buone ricette (per esempio il brodo di pollo o la bistecca alla tartara con un goccio di cognac), lo sviluppo di città, civiltà, sistemi giuridici, foreste equatoriali, la resistenza dei batteri… persino la vita della nostra specie su questo pianeta. Ed è l’antifragilità a determinare il confine tra ciò che vive ed è organico (o complesso), come per esempio il corpo umano, e ciò che è inerte, per esempio un oggetto come la graffettatrice che abbiamo sulla scrivania”.
Similmente antifragile è colui che ha imparato a lottare strenuamente senza risparmio per conquistare oggi un pezzetto di integrazione sociale, per poi all’indomani farselo sciogliere tra le mani come neve al sole; riafferrarlo ancora e poi di nuovo vedere svanire i propri sforzi il giorno successivo… Combattere i pregiudizi più intimi, le convinzioni più radicate, le false credenze più diffuse, presuppone forza di volontà, perseveranza, determinazione, decisamente altro e di più del saper resistere. Ad esempio, l’applauso di quando attraversi l’incrocio “alla grande” schivando le auto e azzeccando il passaggio tra le aiuole dello spartitraffico oppure l’ovazione corale di quando imbocchi la scala della metropolitana senza fallire il primo scalino, perdono di spontaneità e di gratitudine al primo “oh” urlato allorché sbatti contro un palo, lì, per caso oppure ti adagi su di una bicicletta mal posta sul marciapiedi; il consenso di stupore che si coglie nel salire in scioltezza i gradini del tram si trasforma in solidarietà compassionevole quando vieni assalito dai numerosi e rumorosi benefattori sempre pronti a cederti il posto a sedere; la meraviglia smisurata di come accarezzi lo schermo di uno smartphone si alterna allo scetticismo nel momento in cui il software di navigazione ci fa sbagliare percorso o numero civico, quasi che in fondo la colpa sia da ricondurre all’utilizzatore. L’integrazione sociale serpeggia tra il caso, la casualità, il disordine, la volatilità e i fattori di stress: l’integrazione sociale non è lineare ed è anche per questa ragione antifragile, si evolve alla stregua dei sistemi più complessi.
Il ragionamento calza alla perfezione affrontando le tematiche segnatamente correlate all’inclusione scolastica. Vi è la tendenza a generare reazioni a catena che escono dal controllo e riducono, o perfino annullano, le certezze di una oculata pianificazione, provocando quindi eventi fuori misura. Se da un lato il mondo odierno sta senz’altro accrescendo le proprie conoscenze tecnologiche, dall’altro, paradossalmente, rende le cose molto più imprevedibili. Ora, per ragioni connesse all’aumento di ciò che è artificiale, all’allontanamento dai modelli ancestrali e naturali e alla perdita di robustezza causata dalle complicazioni che si incontrano creando qualsiasi cosa, il ruolo degli eventi rari (“Cigni neri” Taleb) sta assumendo sempre più importanza. Inoltre, siamo vittime di una nuova malattia, la neomania, la quale ci porta a costruire sistemi vulnerabili alla stregua del Cigno nero nel nome del «progresso».
Il percorso dell’inclusione scolastica oscilla in continuazione e si appoggia, ora sul pilastro tecnologico e dell’accessibilità al digitale e al materiale di studio, un po’ meno sul pilastro dell’orientamento e della mobilità, talvolta sul pilastro della relazione con i compagni e con gli insegnanti, molto raramente sul pilastro dell’indipendenza e della libertà di pensiero.
Ricercare un equilibrio che favorisca una crescita armonica dello studente significa contemplare l’imprevisto, accettare il rischio, mettere in luce punti di potenziale vulnerabilità. Per questa prospettiva occorrerebbe una inequivocabile convergenza interdisciplinare fra le componenti che concorrono al processo inclusivo, la qual cosa non è scontata per molteplici ragioni: diverse sensibilità individuali, differenti livelli di conoscenza delle implicazioni correlate alla disabilità visiva, visioni diverse dei processi educativi, problematiche inerenti alle difficoltà di tipo organizzativo concernenti gli incontri di confronto e di pianificazione. Proteggere i nostri ragazzi dalle insidie del sistema equivale, d’altra parte, a conservare lo status quo e ad optare per la via più facile, quella cioè della rassegnazione al loro futuro di permanente fragilità. Come siamo fieri ed orgogliosi del nostro operato di tutor quando il nostro studente (modello o cavia) dà prova di saper utilizzare la tastiera di un computer a 10 dita, di saper aprire con presunta rapidità una cartella o un documento digitali, di saper far scivolare con destrezza due dita sullo schermo piatto di un dispositivo interattivo; come siamo contenti… Urliamo per questo al successo inclusivo! Così, in qualche modo, siamo ahimè colti di sorpresa, ci deresponsabilizziamo e non sappiamo meravigliarci neppure più dinanzi alla scarsa autonomia che egli mostra nel riporre in modo maldestro la “cavetteria” e tutta la tecnologia di cui dispone nello zainetto oppure di fronte allo smarrimento che vive nel tentativo di raggiungere la porta di uscita dell’aula. Come sappiamo profondere elogi in abbondanza nel vederlo navigare tra intestazioni e tabelle con buona disinvoltura presentandolo come un piccolo fenomeno, così non siamo in grado di dargli suggerimenti appropriati e fornirgli strategie efficaci e metodologie adeguate al momento di rielaborare e di concettualizzare i contenuti della pagina.
Le dinamiche che sottintendono questo composito sistema sono parallele, interdipendenti, talora si compenetrano; una lettura che non sia superficiale può avvenire compiutamente da un acuto osservatore esterno in grado di coglierne gli effetti generali o, comunque, richiede uno scambio consapevole condotto costantemente dal gruppo degli operatori. L’insegnamento dell’informatica e la possibilità di accesso a strumenti tecnologici, da soli, non determineranno la bontà di un percorso di inclusione così come la relazione con uno, due compagni non indurrà a persuadere che il nostro allievo si senta a proprio agio nelle attività di gruppo. L’inclusione scolastica è la somma degli istanti che costituiscono una parte della nostra vita! Avremo creato condizioni di vera inclusione solo quando nei nostri ragazzi i momenti di autentica serenità prevarranno su quelli difficili. La fonte dell’umana gioia consiste nel sentirsi liberi da ogni paura, ansia, stress, frustrazione e non fa preoccupare di nulla; la fonte dell’umana gioia è quando ciò che fai ti tranquillizza e ti insegna qualcosa, continuamente; quando ti senti bene ogni volta che commetti un errore, perché sai che stai imparando qualcosa. Le sensazioni che sapremo far loro provare influiranno sulla loro salute, sulla loro autostima, sulla qualità delle relazioni che sapranno tessere con gli altri e sulla loro vita. Che siano quindi meravigliose!
Disciplina, sforzo, determinazione, tre qualità le cui ricompense saranno sorprendenti!
Una didattica, per poter essere definita per tutti, deve avere tra gli obiettivi primari quello di stimolare gli studenti a darci dentro per ottenere qualsiasi cosa desiderino; ad essere orgogliosi di se stessi e darlo a vedere; ad avere il controllo di ogni cosa che fanno e che devono fare; ad amare la vita e adorare di stare in compagnia. I momenti difficili sono, appunto, solo momenti che ti fanno diventare persona migliore. In fondo in fondo, occorre sapere che quegli istanti servono per imparare delle preziose lezioni. I nostri ragazzi si sentiranno realmente felici, rilassati, fiduciosi, centrati e lucidi riguardo ad ogni cosa quando sapranno godere della loro libertà. Ci sarà integrazione totale quando saranno tutti individualmente liberi, non prigionieri cioè dei propri limiti fisici, ma soprattutto dei limiti dei propri pensieri, della propria mente. Solo allora potremo sostenere che avranno raggiunto la piena integrazione sociale e inclusione scolastica; solo allora potremo apprezzare gli effetti di una didattica inclusiva.
L’insegnamento dell’utilizzo ancorché basico del personal computer e della tecnologia assistiva avrà tanto più raggiunto il suo scopo inclusivo quanto più saprà richiamare, ricomprendere e contemplare i valori appena menzionati. Un insegnamento privo della competenza info-tiflo-pedagogica si muoverà nella direzione contraria e correrà il rischio di erigere nuove e vecchie barriere attorno al nostro allievo gettandolo nell’isolamento più opprimente, impregnato di rassegnazione, vana fatica, frustrazione. Una preparazione professionale approssimativa del tiflo-informatico e una improvvisazione metodologica possono dar origine nel discente ad irreparabili sensazioni di sfiducia nelle proprie capacità, generando tra l’altro un rifiuto per la materia che si protrarrà nel medio-lungo periodo. Un sistema di inclusione scolastica che intenda ambire ad elevati parametri qualitativi, allontanandosi dallo spettro della regressione storico-politica di nuove forme di emarginazioni coatte, dovrà potersi sviluppare all’insegna della trasparenza e di un costante confronto tra figure esperte, in presenza di regole certe. Diversamente, si accompagneranno le famiglie e i loro ragazzi verso una trappola che rilascerà i suoi segni negativi più indelebili.
“Le cose che imparate a scuola non sono che l’inizio. Il vero laboratorio comincia quando ve ne andate.” Richard Bandler.
Intanto, non ci rimane che riversare la speranza e la fiducia nei nostri ragazzi che, da soli, sono costretti a porre rimedio alle incapacità e alla vanità di noi adulti.
Alcuni versi di una poesia scritta da un poeta inglese molto malato sul letto d’ospedale racchiudono magistralmente un insegnamento che dovrebbe essere il riferimento di ogni materia; si dice che Nelson Mandela nei suoi 27 anni di malattia la recitasse, la interpretasse per darsi forza e coraggio:
“non importa quanto stretto sia il passaggio, quanti castighi ci possano essere nella vita, ma che voi siate, ragazzi, padroni del vostro destino e capitani della vostra Anima.”
Buon cammino, ragazzi, buon cammino!