L’associazione è malata, questo è evidente. Ed è vecchia, e questo è scontato, visto che ha cent’anni e si vedono tutti. Di sicuro, ha perso tanto del suo fascino, del richiamo che esercitava nel raccogliere a sé praticamente tutti i disabili visivi gravi, o almeno una gran parte di loro. Questo è un dato oggettivo: la nostra gloriosa associazione, a livello nazionale, oggi conta circa la metà dei soci rispetto ad appena qualche anno fa.
Ovviamente questo fenomeno è qualcosa di diffuso, che riguarda tutti i sodalizi che prevedono una tessera d’iscrizione con pagamento di una quota annuale che non sia obbligatoria. Così come è diffuso il generale disinteresse per qualsiasi forma di impegno che non preveda un qualsivoglia tipo di gratificazione, che sia di potere, economica o anche “solo” di prestigio.
La questione mi allarma da tempo, ma se anche il nostro presidente nazionale Mario Barbuto scrive un articolo sul tema (articolo pubblicato dal giornale della FAND-Federazione tra le Associazioni Nazionali dei Disabili) vuol dire che il problema non può più essere sottovalutato. Perché, non nascondiamocelo, in questi ultimi anni, e forse decenni, ci siamo trincerati dietro all’aura di esclusività della rappresentanza dei disabili visivi che ci veniva riconosciuta a livello politico e istituzionale, al punto che le altre associazioni erano quasi inibite da questa nostra ingombrante presenza “ufficiale”.
Tutto questo ha fatto sì che ci adagiassimo oltremodo, perdendo di vista, ed è il colmo, quella che è di fatto la nostra missione: ascoltare i bisogni della base associativa. Il termine “base” infatti non è da intendersi come l’ultimo gradino di una scala gerarchica, come forse si è arrivato a credere soprattutto a livello centrale o comunque dirigenziale; “base” sta per fondamenta della nostra esistenza, l’appoggio senza il quale nulla ha più ragion d’essere. Ora, solo ora che il giocattolo dei dirigenti si sta rompendo, si è presa coscienza di quanto importante, di quanto imprescindibile sia la nostra base associativa, che rappresenta l’Unione, che è l’Unione. Sono grato a Barbuto perché non si è limitato a formulare frasi di circostanza, che ai più sarebbero sembrate un modo elegante per snobbare il problema dell’emorragia dei soci, e che in pratica avrebbe significato snobbare i soci stessi. Lui ha proposto delle soluzioni concrete a problemi più che concreti, mirabilmente sviscerati nel suo articolo e in ogni intervento che gli abbia sentito fare sull’argomento.
Io invece vorrei soffermarmi su un aspetto, una considerazione che continua a riecheggiare nella mia mente: la nostra associazione non ci piace, non piace più. Lascio perdere altre eventuali cause a “copertura”, non mi interessano e in un certo senso non mi competono più. Ciò che non posso fare a meno di constatare è che i ciechi e gli ipovedenti, e mi riferisco anche a una parte di quelli iscritti, non si rispecchiano più nell’UICI. Manca anche quella vena polemica che spesso caratterizzava la vita associativa, ma che era comunque manifestazione tangibile di attaccamento e partecipazione. Siamo così disinteressati che non abbiamo neanche più voglia di palesarlo, questo disinteresse. Parliamo di Torino, la realtà che meglio conosco: come direttore di questa pubblicazione, tempo addietro ho lanciato l’idea di una rubrica che potesse dar voce ai lettori, la classica pagina delle “lettere al direttore” insomma. “Porte aperte” è una rubrica che permette di esternare le proprie considerazioni e avanzare suggerimenti, al fine di tracciare un quadro attendibile della situazione. Risultato: zero. Non una lettera, non una email, nonostante la garanzia – per chi la desiderasse – dell’anonimato.
Siamo alle soglie del rinnovamento di tutte le cariche dell’associazione, a tutti i livelli: un’occasione imperdibile, un evento che inevitabilmente si annuncia come epocale, vista la staticità che ha caratterizzato l’UICI negli ultimi trent’anni. Quale occasione migliore per segnalare quello che non va, cosa non vi piace, e come cambiare questo stato di cose?
Rimane tanto da fare, noi dirigenti possiamo ancora fare tanto, soprattutto in vista del prossimo Congresso nazionale. Per non far sentire tagliato fuori nessuno, il primo passo da compiere è necessariamente quello di ridare spazio alle minoranze, una mancanza che ho sempre evidenziato. Un’altra decisione importante da prendere sarebbe quella di snellire, nel numero e nel modo di lavorare, i consigli di amministrazione, partendo ovviamente da quello nazionale. Questo consentirebbe anche un risparmio laddove (non certo a Torino, dove tutti lavoriamo gratuitamente) sono previste indennità varie e gettoni di presenza. Non siamo più un ente pubblico, occorre fare di più e farlo più velocemente possibile, senza perdersi nei meandri della burocrazia, tra le pieghe di bilancio o in discussioni fini a se stesse. Un segnale importante arriva dal fatto che il presidente nazionale Mario Barbuto (e forse altri due componenti della direzione) hanno rinunciato all’indennità di carica.
Le cose da fare sono altre: ritrovare un contatto diretto con i soci andandoli a trovare, contattarli telefonicamente, informarli periodicamente attraverso segreteria telefonica o lettere. Rendere le sezioni provinciali più agili e presenti sul territorio. Ce ne sono troppe che, per numero di iscritti o attività svolte, non valgono le spese e l’impegno da sostenere per mantenerle aperte. Anche i consigli regionali hanno un ruolo ormai meramente istituzionale, con oggettive difficoltà nel raccordare le attività delle sezioni provinciali e la funzione di rappresentanza della sede centrale. Si potrebbe riconsiderare il ripristino delle vecchie sezioni interprovinciali, dove la sezione capoluogo inglobava anche le funzioni del consiglio regionale di appartenenza.
Se continuiamo a pensare che non servirebbe a niente, al paradosso dell’inutilità del singolo voto o della singola opinione, perderemo definitivamente quella condivisione che anima lo spirito associativo. Se invece ci crediamo ancora, questa spinta si riverbererà fino alla presidenza nazionale, che di fatto rappresenta in una sola persona tutti gli ideali, tutte le necessità, tutta la storia e la dignità della nostra Unione. Rappresenta tutti noi, il massimo onore ma anche una enorme responsabilità: credo che anche per questo gli dovrebbe essere consentito di proporre i membri che lo affiancano in Direzione Nazionale, altro organo che andrebbe notevolmente ridimensionato nel numero rispetto a quello attuale.
Le mie vogliono essere solo delle considerazioni, delle proposte, che spero vorrete avanzare anche voi scrivendo a Enzo Tomatis presso UICI Torino – corso Vittorio Emanuele II n. 63 o via email all’indirizzo direttore011@uictorino.it
Enzo Tomatis