Le profonde trasformazioni dei processi lavorativi derivanti dall’applicazione delle nuove tecnologie hanno reso obsoleto il centralino, ma hanno creato nuove e diverse “situazioni di lavoro” idonee all’inserimento lavorativo dei disabili visivi al di là delle professioni “tipiche” . Preferisco parlare di “inserimento in situazioni di lavoro” e non di nuove professioni, perché è proprio qui che sta la profonda differenza nell’approccio tra il nyuovo ed il vecchio “mercato del lavoro”: tranne rarissime eccezioni, non si tratta più di individuare dei nuovi profili professionali verso i quali avviare numerosi disabili visivi e di organizzarne gli specifici corsi di formazione, ma piuttosto della ricerca, da realizzarsi in collaborazione con le organizzazioni dei datori di lavoro ed i sindacati, di quelle “situazioni” nelle quali, il disabile visivo, al quale siano state fornite le dovute competenze e formazione di base e sia stata resa accessibile la postazione di lavoro, potrà esprimere al meglio le proprie capacità.
Va ricordato che le ICT, che sono sempre più presenti nella gestione dei processi lavorativi, ampliano a dismisura la possibilità di “accesso” ai documenti ai disabili visivi e consentono loro una operatività “alla pari”, in diverse situazioni di lavoro. Queste potrebbero diventare altrettante nuove opportunità di impiego ,( in particolare per gli ipovedenti per i quali oggi non abbiamo proposte concrete da fare in materia di occupazione), al di là delle professioni “tipiche”.
E’ questa la nuova prospettiva dalla quale affrontare le difficoltà occupazionali dei nostri giovani: cercare il “posto giusto” per “la persona giusta”,. Una modalità questa che, se pur prevista dalla legge 68/99, è stata sottovalutata in questi anni dai ciechi italiani.
Vi è altresì un’altra causa dietro le odierne difficoltà di occupazione dei nostri ragazzi: l’inadeguatezza della scuola secondaria di secondo grado.
L’inclusione scolastica che, come noto, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 215/87, ha accolto tutti i disabili, non ha però mai elaborato un modello inclusivo idoneo a favorirne l’inserimento socio-lavorativo.
Questo nonostante l’art. 8 della legge 104/92, che individua gli interventi necessari a realizzare l’inserimento e l’integrazione sociale delle persone con disabilità, preveda l’attuazione di “misure idonee a favorire la piena integrazione nel mondo del lavoro e, all’art. 14, la stessa legge individui modalità di integrazione come le attività di orientamento, con inizio almeno alla prima classe della media inferiore e la flessibilità dell’organizzazione didattica , quali momenti particolarmente qualificanti per il processo di inclusione. all’art.17 relativo alla formazione professionale, la legge 104 ribadisce altresì il diritto delle persone con disabilità di avvalersi dei metodi e delle strutture di apprendimento ordinari. La formazione superiore dei disabili negli anni precedenti la sentenza 215, si era concretizzata o con il loro inserimento in classi comuni senza particolare progettazione inclusiva , né con docenti di sostegno, o negli specifici corsi professionali per operatori telefonici e per massoterapisti e, per le persone con grave ritardo di apprendimento, in corsi, così detti, pre-lavorativi.
La scuola secondaria superiore che, tra l’altro, ha trai suoi obiettivi primari la formazione verso l’inclusione sociale dei giovani, nonostante l’autonomia didattica gliene abbia fornito i supporti normativi, non ha saputo sviluppare una progettazione didattica riferita ad una propria “cultura” relativa all’inclusione dei disabili, capace di guardare al di là degli angusti confini dell’aula, ma si è limitata ad assimilare modalità, atteggiamenti e comportamenti educativi caratteristici, per così dire, della scuola dell’obbligo.
Quasi mai si è cercato di organizzare il lavoro didattico in modo da creare un legame coerente e strutturato tra il curriculum del orso di studi a cui l’alunno con disabilità era iscritto , le ipotesi formative individualizzate che erano state previste per lui e, soprattutto, gli obiettivi individuali, troppo spesso, non fanno riferimento ad un concreto “progetto di vita” che ponga la finalità dell’intervento educativo oltre i confini angusti della frequenza scolastica. Il percorso formativo si svolte nell’”hortus conclusus” della scuola frequentata, al di fuori di legami con il territorio, le sue risorse culturali ed il suo sistema socio economico e produttivo. Questo “aureo isolamento” del sistema scolastico limita le necessarie esperienze che un alunno, disabile o no, dovrebbe fare per orientarsi nella scelta professionale e per prepararsi al suo futuro inserimento sociale e lavorativo. Questa carenza è particolarmente sentita dagli istituti tecnici e professionali che , alcuni progetti di riforma avevano voluto liceizzare.
A questo limite pone rimedio l’alternanza scuola-lavoro. Essaconsiste nella realizzazione di percorsi progettati, attuati, verificati e valutati, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, sulla base di apposite convenzioni con le imprese, o con le rispettive associazioni di rappresentanza, o con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con gli enti pubblici e privati, ivi inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di apprendimento in situazione lavorativa, che non costituiscono rapporto individuale di lavoro art.4 D.Lgs. 15 aprile 2005, n. 77
L’alternanza scuola – lavoro è un percorso formativo che rientra a pieno titolonell’attività didattica di un corso di studi, progettato dalla scuola con il partner (museo, biblioteca, redazione giornalistica, azienda commerciale, agenzia turistica, ecc.) che accoglierà l’alunno in stage . Per tutti gli studenti essa: contribuisce a qualificare l’offerta formativa, definendone meglio gli obiettivi; esalta la flessibilità del curriculum, rispondendo ai bisogni diversi degli alunni; ha una forte valenza orientativa e rimotivante e, come tale, agisce anche come mezzo di contrasto alla dispersione scolastica.
Per i nostri ragazzi in particolare: avrebbe una forte valenza per l’acquisizione di una miglior autonomia di movimento e personale, permetterebbe loro di “mettersi in gioco” in un ambiente diverso e meno protetto della scuola ed a “verificarsi e scoprirsi capaci” di svolgere, se messi in condizione di operare in pari opportunità, le mansioni dei colleghi vedenti . Inoltre, questo inserimento in situazione di lavoro , contribuirebbe a sviluppare la cultura dell’accessibilità digitale ed ad incrementare la conoscenza e la fiducia del mondo produttivo nelle potenzialità operative dei disabili visivi.
Anche se forse molti hanno sentito parlare per la prima volta di alternanza scuola-lavoro come una delle innovazioni contenute nel DDL sulla “Buona scuola” attualmente in discussione in Parlamento, essa è stata normata dal DLGS n. 77 del 2005 ed è già presente , in via sperimentale, in diverse realtà scolastiche: dal 2014 , e fino al 2016, è attivo un programma sperimentale per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di II grado. Di questa sperimentazione, presso il MIUR, si occupa la Direzione Generale per l’istruzione e formazione tecnica superiore e per i rapporti con i sistemi formativi delle regioni, la stessa Direzione Generale stipula le convenzioni nazionali con gli Enti pubblici e le aziende private (comprese quelle del terzo settore), per la realizzazione degli stage.
Riteniamo che l’alternanza scuola-lavoro rappresenti una ottima opportunità per i nostri ragazzi ciechi, ipovedenti o con disabilità aggiuntive per: sperimentare il “mondo dell’impresa” , misurarsi con le situazioni di lavoro possibili verificandosi “capaci”, e per scoprire nuove e gratificanti possibilità per un loro futuro impiego. Cosi che ciascuno possa dire: “Ho trovato il lavoro che fa per me”.