Ipovedenti: la nascita di una categoria, di Angelo Mombelli

Autore: Angelo Mombelli
  • 1. L’IPOVEDENTE ESCE DALL’OMBRA

Siamo prossimi al centenario di nascita della nostra Unione. In questo secolo di attività, l’Unione ha intrapreso e vinto innumerevoli battaglie a tutela delle persone con minorazione visiva. Una di queste riguarda indubbiamente il riconoscimento di una categoria dimenticata: gli ipovedenti. 

È tipico dell’essere umano prestare attenzione agli estremi, al nero e al bianco, e di prestare poca attenzione a ciò che sta nel mezzo; il mondo è però colmo di grigio, di tante sfumature che nel nostro caso sono rappresentate da quelle persone che, pur non essendo cieche, non sono annoverabili tra i normovedenti: gli ipovedenti. 

La storia abbonda di ciechi illustri: le notizie inerenti i privi di vista si possono rintracciare in ogni tempo. Scarsissime sono invece le testimonianze inerenti gli ipovedenti. Certo non perché questi non siano esistiti in passato: si racconta che l’imperatore Nerone, assistendo ai giochi dei gladiatori, utilizzasse un rubino davanti all’occhio per meglio vedere. Che fosse ipovedente? Non lo sapremo mai, perché all’epoca sebbene sicuramente esistessero le persone con bassa visione, nessuno li identificava con un nome.

È soltanto all’inizio dell’era industriale che nelle testimonianze storiche compaiono tracce dell’esistenza delle persone con bassa acuità visiva, purtroppo coinvolti in episodi poco allegri: con la rivoluzione industriale e l’esplosione demografica del XVIII secolo, nonché con il conseguente incremento della povertà nelle aree urbane, le istituzioni Francesi presero provvedimenti contro la diffusa mendicità; se ai ciechi assoluti era comunque tollerata la questua, agli ipovedenti era decisamente proibita; è allora che, nei verbali d’arresto, compaiono per la prima volta in un documento ufficiale, i cosiddetti “semiciechi”.

Il filosofo Voltaire (1694 – 1778), di fronte ad una grave perdita visiva in tarda età, non trovò credito presso la cieca assoluta Madame Du Deffand, che lo accusò garbatamente di simulazione. Ciò dimostra di quanta poca considerazione godessero le persone con una bassa visione, non solo nella società dei normodotati, ma anche nella comunità dei ciechi.

L’attenzione della società nei confronti dei soggetti con bassa acuità visiva si diffuse, per necessità, laddove si generalizzò l’istruzione di base e nelle realtà ove la rivoluzione industriale creò esigenze di precisione e standardizzazione delle attività produttive. Alla fine del `700 e per tutto il secolo successivo sorsero numerosi istituti per ciechi che, grazie anche al sistema di scrittura e lettura inventato da Louis Braille intorno al 1830, permisero ai ciechi assoluti di intraprendere un percorso di istruzione fino a prima impensabile. Gli ipovedenti però vennero trascurati per tutto l’800; c’è una specie di destino che fa degli ipovedenti “persone dimenticate”. Soltanto nel 1908 fu fondata a Londra la prima scuola per miopi gravi; questo tipo di scuole speciali trovò diffusione nei decenni successivi in altre città del mondo. Fu allora che ci si pose una domanda: chi sono i soggetti che hanno il diritto di accedere a queste scuole? Si manifestò l’esigenza di studiare e codificare le metodologie didattiche specifiche per i soggetti interessati.

Una risposta ancorché parziale alle problematiche circa la definizione di persona ipovedente venne dal Convegno di Tiflologia che si tenne nell’agosto del 1927 a Konigsberg che fece il punto della situazione ed emise una direttiva generale sull’educazione: “Devono essere considerati ampliopici ed educati in classi speciali i fanciulli la cui acutezza visiva è compresa tra 1/25 e 1/4, a condizione che il loro potere visivo permetta di insegnare loro a leggere e a scrivere grazie a metodi medico pedagogici speciali e, più tardi di ricevere un preparazione come vedenti; si deve inoltre tener conto del campo visivo, della percezione dei colori e soprattutto della percezione visiva a breve distanza”. Questa definizione ha influenzato in modo determinante le strategie educative dei minorati visivi per oltre trent’anni.

Furono però le tendenze scientifiche allora dominanti, e che purtroppo ancora oggi nel pensiero comune sopravvivono, a peggiorare molte situazioni visive deficitarie: infatti, gli specialisti del tempo erano soliti consigliare, in presenza di problemi oftalmologici, di utilizzare con parsimonia la vista. Un esempio significativo: negli Istituti per Ciechi, coloro che avevano un residuo visivo, venivano bendati per apprendere il metodo di lettura Braille; tale metodica è continuata fino alla chiusura degli Istituti alla fine degli anni ’70 dello scorso secolo. Questi fatti rimarcano in quanta poca considerazione fossero tenuti coloro che, minorati della vista, avessero comunque la possibilità di apprendere attraverso il residuo visivo. In questo senso molti ipovedenti divennero tali a causa di uno sciagurato approccio alle problematiche legate alle patologie causa di ambliopia, soprattutto quando l’occhio residuo era affetto da altre patologie. Gli occhi, come tutti gli organi del corpo, necessitano di essere attivi, altrimenti perdono la loro piena e corretta funzionalità. Chi ha subito un qualsiasi incidente, sa che l’immobilità di un arto comporta la perdita del tono muscolare, la cui piena ripresa è ottenibile solo dopo un processo di riabilitazione che ne stimoli la funzionalità, pena l’atrofizzazione del medesimo. Solo grazie alla rivoluzione scientifica operata dall’oftalmologia moderna, oggi si interviene, in presenza del cosiddetto “occhio pigro”, con l’occlusione temporanea dell’occhio sano, con l’utilizzo di lenti correttive e con varie forme di stimolazione che favoriscano il recupero visivo dell’occhio ambliope.

Ancorché non si sia rivelata scientificamente valida, l’opera del medico statunitense William Horatio Bates (1860 – 1931) ha contribuito, negli anni ’20 del ventesimo secolo, a porre l’attenzione su un nuovo approccio alla correzione della miopia, basato sulla stimolazione delle funzionalità oculari. Negli anni ’40 fu lo scrittore premio nobel Aldous Huxley, egli stesso ipovedente, a divulgare le teorie di William Bates attraverso numerosi scritti tra cui il volume “L’arte del vedere” (1942), attirando l’attenzione della comunità scientifica sull’argomento.      

Accanto ai problemi clinici oftalmologici, permaneva però la necessità di pervenire ad una meglio definita classificazione delle minorazioni visive, che approfondisse quanto indicato al congresso di Konigsberg, anche in virtù delle nuove conoscenze nel settore. Nel corso del dopoguerra, sono stati numerosissimi i tentativi di formulare classificazioni medico-legali delle minorazioni visive. Tra questi, possiamo ricordare quello di Genesky che nel 1970 avanzò un sistema di classificazione funzionale per gli ipovedenti che distingueva tra persona funzionalmente cieca e persona funzionalmente vedente in base alla capacità di leggere e scrivere, identificare oggetti familiari e di muoversi senza pericolo in ambiente non familiare. Nel 1975, Meber e Freid definirono “vista parziale” o “vista bassa” una riduzione dell’acutezza centrale o una perdita di campo visivo che, anche con la migliore correzione ottica, desse una minorazione visiva che ostacolasse la vita pratica dell’individuo.

Finalmente nel 1977, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nella “Classification of Visual Performances” contenuta nella “Classification of Disease”, universalmente riconosciuta, definì con chiarezza cinque categorie di minorazione visiva, e precisamente:

Cat I – Ipovisione modesta: prevede un visus inferiore a 0,3 ma superiore o uguale a o,1 o un campo visivo inferiore a 60° centrali, ma superiore ai 20°.

Cat II – Ipovisione marcata: prevede un visus inferiore a o,1 ma superiore o uguale a 0,05 o un campo visivo inferiore a 20° centrali, ma superiore ai 10°.

Cat III – Ipovisione grave: prevede un visus inferiore a 0,05 ma superiore o uguale a 0,02 0 un campo visivo inferiore a 10° centrali, ma superiore ai 5°.

Cat IV- Ipovisione gravissima o cecità quasi totale: prevede un visus inferiore a o,02 o un campo visivo inferiore ai 5° centrali.

Cat V – Cecità assoluta: prevede l’impossibilità di percepire la luce.

Da sottolineare che la definizione di minorazione visiva dell’O.M.S. non contemplava altri parametri di valutazione della funzione visiva, quali la sensibilità al contrasto, il senso luminoso, il senso cromatico e la presenza di nistagmo, che talvolta hanno un ruolo essenziale nel determinare il grado di invalidità. La definizione dell’O.M.S. ha avuto comunque il merito di sostituire la divisione binaria tra persone legalmente vedenti e persone legalmente cieche, inserendo finalmente una terza categoria, quella degli ipovedenti. Si può quindi affermare, con cognizione di causa, che, nel 1977, nacque ufficialmente la categoria degli ipovedenti.

La direttiva O.M.S. non ebbe però applicazioni immediate ed esaustive nelle normative di legge italiane; infatti molteplici leggi nazionali, tutt’ora vigenti, considerano cieco colui che ha un residuo visivo di 1/10 in entrambi gli occhi, anche con eventuale correzione, senza fornire ulteriori indicazioni sulle basse visioni. Da sottolineare che allora sorse un dibattito sulla definizione stessa della categoria: qualcuno suggerì di definire i soggetti con bassa visione “malvedenti” oppure “subvedenti”, ma prevalse infine il termine “ipovedenti”.

2. LA RICERCA ABCUS: IL MONDO SOMMERSO DEGLI IPOVEDENTI

Dai primi anni ‘80, nei paesi occidentali la società iniziò ad interessarsi alla parte “grigio-scura” della visione, ovverosia a coloro che pur non essendo ciechi, avevano grossi problemi di vista. Il miglioramento della situazione economica del mondo capitalista e la maturazione della coscienza collettiva, hanno consentito un atteggiamento più attento nei confronti della disabilità. Inoltre, l’entità del fenomeno dell’ipovisione si faceva progressivamente più significativa, da una parte a causa al progressivo allungarsi dell’età media della vita umana, con l’istaurarsi di patologie tipiche della terza età che un tempo erano alquanto rare, dall’altra grazie al progresso tecnologico in campo medico-chirurgico. Non dimentichiamo che tra le scienze che maggiormente sono state potenziate grazie alle moderne tecnologie, c’ è indubbiamente l’oftalmologia.

Per queste ragioni, il numero delle persone con bassa visione prese ad aumentare esponenzialmente.

In Italia, dove l’interesse per l’ipovisione restò per anni relativo, fu la dirigenza dell’Unione Italiana Ciechi a prendere in considerazione il problema. La prima domanda alla quale rispondere era: quanti sono gli Ipovedenti? E poi: di quali patologie sono portatori? Come vivono nella quotidianità? Quali sono le loro aspettative e le loro principali criticità? Nel 1988, per dare una risposta ai quesiti di cui sopra, l’Unione propose al Ministero del Lavoro, che la finanziò, un’indagine conoscitiva sulle persone ipovedenti.  

Essa si svolse nel 1989 e venne effettuata in collaborazione con la società Abacus, mediante tre interviste di gruppo per consentire l’analisi delle problematiche sul tappeto e predisporre un questionario. Trecento novantanove interviste personali furono rivolte in città campione e furono effettuate 12.036 interviste telefoniche (corrispondenti a circa a 31.000 persone), per conoscere l’entità del fenomeno e le patologie.

Come è facile immaginare, a distanza di trent’anni da allora, i dati raccolti, a livello numerico e soprattutto per quanto riguarda le patologie causa di ipovisione, risultano oggi inattuali: a colpire però sono alcune considerazioni emerse dalle interviste individuali circa la situazione socio-esistenziale delle persone ipovedenti, che temiamo essere ancora attuali. 

Per quanto riguarda il livello di istruzione, ad esempio, emerse che solo il 23% degli intervistati aveva ricevuto un’istruzione superiore (liceo, università), dato che si collega a quanto l’indagine ci racconta sul  sentimento di tanti ipovedenti verso la propria esperienza scolastica: solo il 55% degli intervistati ammise di avere ricordi positivi della scuola e uno su quattro giudicò insufficiente la propria carriera scolastica. Molti tra gli intervistati lamentarono difficoltà nell’inserirsi nel contesto scolastico e a socializzare con i compagni normovedenti (”Per me il passaggio ad una scuola normale è stato terribile, provocandomi vari tipi di stress nervoso”), alcuni segnalarono l’indifferenza degli insegnanti circa il problema visivo (“Gli insegnanti, se tu riuscivi a seguirli, bene per te: se no rimanevi indietro”). Il quadro che emerse fu di una totale impreparazione del contesto scolastico nei confronti dell’ipovisione: un’impreparazione che possiamo definire sia culturale che tecnologica, considerato lo scarso se non nullo riferimento agli ausili tiflotecnici.

Anche il dato sul lavoro fa pensare: solo il 46% del campione dichiarò di avere un lavoro, più della metà risultò invece disoccupata. Le cause sono ovvie: da una parte la precarietà della situazione lavorativa una volta emerse le difficoltà visiva (“Lavoravo come contabile nell’amministrazione di una grossa azienda e poi… quando sono arrivati i primi computer mi sono accorto di avere delle difficoltà, ho appurato l’impossibilità di svolgere quel lavoro. Ho fatto dei colloqui, come personalità andavo bene, nessun problema, avevo esperienza e tutto, ma c’era la vista… con la vista che ho quel lavoro non lo posso più fare”), dall’altra la gamma estremamente ristretta delle professioni accessibili a chi ha problemi di vista.  

L’indagine Abacus fornì un altro dato particolarmente sconcertante: solo il 44% degli ipovedenti adulti risultò avere un rapporto di coppia; molti tra gli intervistati vivevano infatti in casa con i genitori. E tra quelli che erano fidanzati o sposati, il partner risultava in molti casi anch’esso ipovedente.

Se ammettiamo che la cellula di base della società è rappresentata dalla coppia, è facile intuire quante difficoltà di inserimento nel tessuto sociale incontrino gli ipovedenti. Utilizziamo il presente perché riteniamo che il dato emerso nell’89 sia purtroppo attuale. La prolungata convivenza con la famiglia d’origine comporta problemi di non facile soluzione: ad ogni persona, per la propria maturazione, è necessario vivere una serie di esperienze, affrontare situazioni in piena autonomia, e questo non è sempre possibile per il senso di iper-protezione di cui i genitori circondano a qualunque età il soggetto con minorazione creando all’interno del contesto familiare tensioni costanti e sovente insuperabili (“A me il problema lo creano i miei genitori. Per il fatto che non ci vedo bene a loro fa paura che io cammini da solo, che vada in giro da solo… È una forma di possessività che oltretutto mi opprime. Io esco solo o con gli amici, alla sera mi accompagnano a casa, ma a volte sono solo. Mia madre mi dice: stai attento alle macchine a questo, a quello… una notte si è messa a telefonare alla polizia e agli ospedali, duecento telefonate per trovarmi!”).

Gli eventi della quotidianità provvedono a rammentare le anomalie della situazione sensoriale, che portano il soggetto a vivere in continuo stato di tensione e, a volte, di depressione. Accettare se stesso per ciò che si è e non per ciò che si sarebbe potuto essere è un processo indispensabile per poter convivere con la disabilità e creare le condizioni necessarie allo sfruttamento ottimale del residuo visivo e quindi al concreto inserimento nel contesto sociale. Tuttavia, il passaggio suddetto avviene con estrema difficoltà: tendono spesso a prevalere comportamenti tipici dello stadio infantile, ma soprattutto emerge una forte tendenza all’auto-colpevolizzazione e, in proiezione, alla colpevolizzazione degli altri, della società in generale.

Tornando all’indagine Abacus, va detto che essa aprì un dibattito su un tema poco discusso, quello della maternità della donna ipovedente: aspettative, paure e dubbi risultavano mescolarsi ad una generale disinformazione circa gli aspetti medico-scientifici della questione; tale disinformazione era anche dovuta ad un atteggiamento difensivo, un “non voler essere pienamente consapevoli del problema”: un processo di rimozione o sottovalutazione dettato dalla paura e dall’incapacità di affrontare il problema in tutta la sua drammaticità.

In un’intervista di gruppo svoltasi a Napoli, una donna ipovedente, portatrice di una patologia ereditaria, risultò madre di tre figli. Le fu chiesto della situazione dei ragazzi e lei rispose serenamente che i figli non avevano problemi di vista. Come poteva saperlo? Glielo domandammo: la sua risposta fu che il marito tutte le settimane faceva loro contare le dita della mano… Attraverso la Sezione UICI di Napoli, nei giorni successivi, facemmo visitare da un oculista tutti loro, marito compreso.

In generale, fu in effetti la disinformazione e l’isolamento delle persone con problemi visivi a colpire chi analizzò i risultati di questa prima indagine statistica sul mondo dell’ipovisione. Spesso i problemi emersi si sarebbero potuti risolvere con poco. Un esempio: nell’incontro di gruppo svoltosi a Milano, una signora anziana raccontò che nel passato il suo passatempo preferito era quello di cucire e ricamare, ma lo scarso residuo visivo non le consentiva più di svolgere con frequenza quel passatempo perché doveva ricorrere alla vicina di casa per infilare il filo nella cruna dell’ago. La prassi non poteva essere frequente per cui la signora viveva il rammarico del tempo passato. Dieci minuti dopo disponeva di un “infila aghi”. A distanza di trent’anni ricordo ancora quel grazie colmo di commozione e il sorriso da un orecchio all’altro.

Dall’altra parte, alcune criticità emerse necessitavano però di interventi strutturali, decisamente più energici, che solo la nostra Unione avrebbe potuto promuovere. Possiamo dire che l’indagine Abacus ebbe un notevole impatto nella politica associativa del decennio successivo, soprattutto per le iniziative di carattere riabilitativo e legislativo.   

3. L’IMPEGNO DIRETTO DELL’UNIONE ITALIANA DEI CIECHI (E DEGLI IPOVEDENTI) NELL’AMBITO DELL’IPOVISIONE

La riabilitazione visiva consente alle persone ipovedenti, grazie anche alla moderne tecnologie, di utilizzare il residuo visivo al massimo delle potenzialità e di apprendere prassi utili all’autonomia personale e lavorativa. Negli anni ’70, i pionieri del settore furono gli svedesi, primi a fondare i centri di riabilitazione visiva, supportati dalle nuove tecnologia elettroniche, come ad esempio i video ingranditori per la lettura. Anche negli Stati Uniti, in quegli anni, erano state avviate ricerche in campo riabilitativo, focalizzate principalmente sulla fornitura degli ausili ottici, elettronici e posturali. In Italia però, fino agli anni ’90, la cultura della riabilitazione visiva fu marginale. Per ovviare a ciò, nel 1990 l’Unione Italiana Ciechi organizzò il primo corso per riabilitatoti visivi nel nostro paese, tenuto da esperti provenienti dalla Svezia. Fu dopo questo corso che, timidamente, sorsero i primi centri italiani di riabilitazione visiva. Visto il successo dell’iniziativa l’Unione decise di organizzare un secondo corso, nel 1992, che si svolse a Tirrenia, in collaborazione con l’Istituto per la Ricerca, la  Formazione e la Riabilitazione (I.Ri.Fo.R.) e della durata di 6 mesi, ben superiore a quella del corso precedente. Si era infatti evidenziata la necessità di allargare le competenze dei futuri riabilitatori,  implementando il programma del corso con il coinvolgimento di un genetista, di un sociologo, di un traumatologo, di un ottico e di altre figure professionali.

Nonostante il fatto che la legge n. 833 del 1978, all’articolo 26, prevedesse che la riabilitazione sensoriale fosse a carico dell’allora Servizio Sanitario Nazionale, i nascenti centri di riabilitazione visiva non ricevettero alcun finanziamento, né per la loro costituzione, né per la loro attività ordinaria.  Fu ancora una volta l’Unione ad intervenire, promuovendo una perla legislativa: la legge n. 284 del 1997.

La legge 284/97, tra l’altro, istituì lo stanziamento di cinque miliardi delle vecchie lire a favore delle regioni, destinati alla creazione e al potenziamento dei Centri di Educazione e Riabilitazione Visiva per Ipovedenti (CERVI). La circolare applicativa del dicembre dello stesso anno, su indicazione della nostra Unione, stabilì il materiale e le figure professionali che i Cervi avrebbero dovuto avere in dotazione. Da sottolineare che nella legge fu anche previsto lo stanziamento di un miliardo di lire annuo a favore della Sezione Italiana dell’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità (IAPB). La relazione che venne prodotta a sostegno di questa proposta di legge documentò l’enorme costo che la cecità ha per la collettività e la conseguente importanza socio-economica della prevenzione visiva: questo approccio al problema fu illuminante, e di sicuro decisivo per il successo della proposta di legge.  Dal 1998, con la disponibilità finanziaria garantita dalla 284/97, in un crescendo rossiniano, furono progettati e sorsero su tutto il territorio nazionale, soprattutto nelle cliniche oculistiche, i centri di riabilitazione visiva.

Al puzzle mancava però ancora un tassello: l’antico problema del “chi” fossero le persone ipovedenti, e quindi le persone destinatarie della riabilitazione visiva, non era ancora stato risolto a livello normativo. La legge italiana, infatti, non aveva ancora del tutto recepito la direttiva dell’OMS e la complessità del problema dell’ipovisione. Per questo, l’Unione, in collaborazione con la Società Oftalmologica Italiana, l’APIMO (Associazione Professionale Italiana Medici Oculisti), il GISI (Gruppo Italiano Studi sull’Ipovisione) e la IAPB, propose al parlamento una nuova classificazione delle minorazioni visive, formulata sulla base dei recenti progressi tecnologici in campo oftalmologico e in grado di valutare più correttamente il deficit visivo, tenendo conto di due parametri: l’acuità visiva e il campo perimetrico binoculare. Anche in questo caso, tutti gli incontri del gruppo di lavoro che mise a punto la proposta di legge, furono coordinati e si svolsero presso la sede dell’Unione. 

La proposta di legge venne approvata in data 3 aprile 2001, con il numero 138. La legge propose una suddivisione della minorazione visiva in cinque categorie:

Art. 2. (Definizione di ciechi totali).

i. Ai fini della presente legge, si definiscono ciechi totali:

coloro che sono colpiti da totale mancanza della vista in entrambi gli occhi;

coloro che hanno la mera percezione dell’ombra e della luce o del moto della mano in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore;

coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 3 per cento.

Art. 3. (Definizione di ciechi parziali).

i. Si definiscono ciechi parziali:

coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione;

coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al io per cento.

Art. 4. (Definizione di ipovedenti gravi).

i. Si definiscono ipovedenti gravi:

coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/1o in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione; coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 30 per cento.

Art. 5. (Definizione di ipovedenti medio-gravi).

i. Ai fini della presente legge, si definiscono ipovedenti medio-gravi:

coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 2/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione;

coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 50 per cento.

Art. 6. (Definizione di ipovedenti lievi).

1. Si definiscono ipovedenti lievi:

coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 3/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione;

coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 6o per cento.

Come accennato, una caratteristica della Legge 138/2001 fu quella di affiancare al tradizionale parametro dell’acuità visiva quello del campo perimetrico binoculare, espresso non più in gradi come nella vecchia definizione dell’OMS, ma in percentuale: per questa ragione, successivamente all’approvazione della legge, si pose il problema di come quantificare con precisione il campo visivo perimetrico binoculare.  A tal proposito, il Consiglio Superiore della Sanità, su relazione del Prof,. Roberto Ratiglia, indicò nella metodica Zingirian-Gandolfo “CV%” quella idonea alla corretta quantificazione del residuo perimetrico binoculare da certificare ai fini dell’ottenimento dei benefici previsti dalla legge.

Le implicazioni della legge 138/2001 erano poco conosciute fra gli addetti ai lavori, perciò l’Unione, in collaborazione con la IAPB e l’Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione (i.Ri.Fo.R.), svolse su tutto il territorio nazionale diversi corsi, con crediti formativi ECM, soprattutto indirizzati agli oculisti, agli assistenti in oftalmologia e ai medici legali, per far conoscere il problema dell’ipovisione e le modalità di valutazione e accertamento della stessa in base alle normative sopracitate.

Nel passato la nostra Unione aveva accolto come “soci aggregati” i soggetti con un residuo non superiore a 2 decimi anche con eventuale correzione. Fu nel 2005 che l’Unione accolse tra i soci effettivi gli ipovedenti di cui alla legge 138/2001 e di conseguenza modificò il proprio nome da Unione Italiana dei Ciechi a Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti.

Per quanto concerne la riabilitazione visiva, la IAPB costituì alla fine del 2007, presso la clinica oculistica del Policlinico Gemelli a Roma, un polo Nazionale di Servizi e Ricerca per la Prevenzione della Cecità e la Riabilitazione Visiva degli Ipovedenti, finanziato dal Ministero della Salute. Il Polo divenne presto un punto di riferimento in campo nazionale e nel 2013 venne scelto come centro di collaborazione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questo ha consentito al Polo di divenire per le sue metodiche un centro di riferimento riconosciuto anche dalle diverse organizzazioni internazionali che si occupano di riabilitazione visiva e che nel dicembre 2015 a Roma in occasione dell’International Consensus Conference hanno approvato gli standard per la riabilitazione visiva. Come al solito, noi italiani fatichiamo a partire, ma grazie al nostro ingegno, recuperiamo il tempo perduto.    

4. LE CRITICITA’ NEL VISSUTO

I centri di riabilitazione visiva sono ormai una realtà consolidata sul territorio nazionale ancorché in alcune regioni stentino ad essere davvero efficaci, anche perché il trattamento del soggetto ipovedente, in molto casi, implica la presenza di numerose figure professionali con competenze specifiche.  Per una corretta riabilitazione si deve tener conto non solo della patologia, ma anche della data di insorgenza della stessa, dell’ambiente socio culturale in cui il soggetto vive, delle sue attitudini personali e delle sue necessità. Particolarmente impegnativa è la riabilitazione nell’età evolutiva, soprattutto nella prima infanzia: spesso in quel caso il lavoro si deve rivolgere tanto al bambino quanto al genitore; abbiamo imparato dall’indagine Abacus quanto la famiglia possa rappresentare un agente perturbante dell’equilibrio che consente al ragazzo di avere un pieno sviluppo esistenziale.

Se l’insorgenza della patologia avviene al termine dell’età evolutiva, le problematiche sono ovviamente differenti. Considerato che il processo cognitivo di ogni individuo avviene per l’80% circa grazie alle sensazioni visive, questa forma di apprendimento è per la persona ipovedente, ovviamente, limitata e parziale, anche se egli la accetta come unico canale di conoscenza: è quindi sempre fonte di sorpresa il realizzare che il mondo che lo circonda non è solo quello che egli percepisce.

Ciò implica il vivere in continuo stato di tensione e, a volte, di depressione. Accettare se stesso per ciò che si è e non per ciò che si sarebbe potuto essere è un processo indispensabile per poter convivere con la disabilità e creare le condizioni necessarie all’utilizzo ottimale del residuo visivo. Ma il passaggio avviene con estrema difficoltà. Per quanto concerne l’attività lavorativa è noto che la disoccupazione giovanile in Italia sia alta, e nel caso delle persone ipovedenti il fenomeno è ancora più marcato.

Ancora diversi infine sono i problemi che coinvolgono le persone la cui patologia emerge in tarda età. Ai tempi dell’indagine Abacus i soggetti anziani erano una percentuale alquanto ridotta, ma a distanza di trent’anni, con l’allungarsi della vita umana, le moderne terapie oftalmologiche e l’inclusione apportata dalla legge 138/2001, il numero di anziani da considerarsi ipovedenti è esploso: oggi infatti circa il 70% delle persone ipovedenti appartiene alla fascia degli anziani.

La loro esistenza non è delle più semplici: dopo una vita di lavoro e il desiderio di una vecchiaia serena, si vedono costretti a vivere in situazioni di estremo disagio. Devono abbandonare le vecchie abitudini, impararne di nuove, lasciare gli amici e chiedere aiuto a terzi per le normali attività della vita quotidiana; se vivono in famiglia, la stessa non gli consente nessuna attività per il timore di incidenti. Da sottolineare che i traumi che colpiscono gli anziani sono ovviamente superiori alla norma e soprattutto questi riguardano le persone con bassa visione. Da aggiungersi un particolare: con l’età altre patologie intervengono, e quindi le complicazioni per una persona ipovedente aumentano considerevolmente.

Da sottolineare inoltre che, quando una patologia colpisce una persona sin da renderla incapace di attendere alle normali attività della vita quotidiana, la stessa intraprende tutte le strade possibili ed immaginabili per risolvere il problema, ma normalmente esaurite tutte le possibilità accetta l’evento, acquisisce strategie personali per l’autonomia quotidiana e per non crearsi inutili speranze accetta lo stato di cose. In varie occasioni abbiamo accennato quanto l’oftalmologia e la farmacologia abbiano ottenuto risultati sempre nuovi. Qualche anno orsono, con un amico oculista, abbiamo convocato a visita gratuita i soci di una sezione lombarda dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti: della ventina di soci che si sono presentati per circa sette di essi, che da moltissimi anni non incontravano un medico, era possibile migliorare la situazione visiva. La morale è ovvia: chi da svariati anni non si sottopone a visita oculistica, provi a farlo.       

Nel 2012 la società Doxapharma svolse un’indagine sul territorio italiano per indagare quanto gli italiani conoscessero il fenomeno dell’ipovisione: i risultati, addetti ai lavori esclusi, furono alquanto sconfortanti: solo un terzo degli intervistati riconosceva l’ipovisione come un fenomeno collegato ad un problema di vista. Un altro terzo non sapeva rispondere e il restante campione manifestava un’idea confusa e scorretta del fenomeno. Ecco un quadro esemplificativo delle risposte ottenute alla domanda “Secondo Lei chi è una persona IPOVEDENTE? Come la definirebbe?”:

intervistati

  • Non sanno rispondere 33%
  • Persona che ci vede poco\male\con la vista limitata 22%
  • Sfortunato \ svantaggiato 11%
  • Persona che non vede \ cieco 8%
  • Persona che ha problemi di vista 7%
  • Disabile \ ha un handicap 4%
  • Persona con alcuni limiti \ che ha delle difficoltà 3%
  • Persona normale 2%
  • Persona che non può fare una vita normale 2%
  • Invalido\infortunato\ malato 2%
  • Molto sensibile (che ha altri sensi meglio sviluppati) 1%
  • Non è indipendente \ non è autonomo 1%
  • Triste 1%
  • Persona priva di tante cose 1%
  • Persona da aiutare 1%

Dall’indagine emerge però che nove italiani su dieci riconoscono che il deficit sensoriale più grave è quello visivo. La paura principale é l’impossibilità di leggere, di vedere il mondo attorno e i propri cari. Sebbene gli italiani conoscano poco il fenomeno, posti di fronte all’eventualità della perdita della vista, appaiono ben consci del problema.

Anche le patologie causa di ipovisione sono conosciute parzialmente: se il 90% degli intervistati conosce patologie come la cataratta e il glaucoma, sono molte percentuali molto più basse ad aver mai sentito parlare di retinopatia diabetica e degenerazione maculare. Anche sulla prevenzione i pareri sono discordanti: un italiano su tre non ritiene che si possano prevenire i problemi della vista.

A nostro avviso l’ignoranza del problema da parte della popolazione deve anche essere attribuito all’ipovedente stesso che tende a nascondersi cercando di comportarsi come una persona normovedente, minimizzando i propri problemi di vista.   

Inoltre, dall’indagine risulta che il’83% degli intervistati non è in grado di quantificare correttamente l’ampiezza del fenomeno dell’ipovisione nel nostro paese. Questo è un fatto più complesso, perché effettivamente dare una risposta alla domanda “quante sono le persone ipovedenti in Italia?” non è semplice nemmeno per gli addetti ai lavori:  i dati ISTAT del 2016 rilevano che nel nostro paese, in linea con i paesi europei, due persone su cento, dai 15 anni in su, soffrono di gravi limitazioni sul piano visivo, percentuale che sale al 5,4% tra chi ha più di 65 anni e all’8,6% per chi ha almeno 75 anni. Le proiezione dicono altresì che a causa dell’invecchiamento della popolazione, entro il 2050 il numero delle persone con problemi di vista nella terza età potrebbe triplicare.

5. E PER IL FUTURO?

Tanti sono ancora i problemi che coinvolgono le persone ipovedenti che vivono nel nostro paese, tante le criticità da risolvere.

Partiamo dall’inizio: l’accertamento della condizione di ipovedente è la prima documentazione di cui l’interessato ha bisogno per avere diritto alle varie provvidenze. E’ da tempo ormai che un ipovedente grave viene avviato alla commissione per l’accertamento degli stati di invalidità e non di cecità, e altrettanto riguarda sia gli ipovedenti medio gravi che gli ipovedenti lievi. L’elenco delle persone che si sottopongono ad accertamento, di conseguenza, viene inviato all’associazione di categoria degli invalidi civili e non all’UICI. La ragione non è del tutto peregrina, perché come invalido civile, se il riconoscimento è superiore al 75%, l’interessato ha il diritto all’assegno di invalidità ancorché legato al reddito. Se poi si tratta di un soggetto in età evolutiva egli ha diritto all’accesso al nomenclatore tariffario della protesi qualunque sia la sua percentuale di invalidità, mentre per quanto concerne la strumentazione indirizzata agli ipovedenti, se non è invalido civile, la concessione è limitata ad un decimo di residuo visivo.

Da segnalare che in sede di accertamento degli stati di invalidità l’associazione di categoria di questi ultimi è presente, mentre la nostra associazione non è mai presente nelle commissioni per l’accertamento degli stati di cecità. E’ superfluo sottolineare che presentare in quella sede l’Unione con i servizi che può svolgere a favore delle persone con disabilità visiva implica la possibile iscrizione all’associazione. 

Sebbene i problemi sopraelencati siano di difficile soluzione poiché legati alla revisione di un vero e proprio groviglio normativo, In collaborazione con l’INPS, occorrerà almeno promuovere l’elaborazione di linee guida che assicurino modalità di accertamento uniformi su tutto il territorio nazionale da parte delle Commissioni di Prima Istanza, al fine di superare le discordanze che spesso caratterizzano le singole realtà territoriali. Le suddette linee guida dovrebbero tenere in considerazione sia le metodologie di accertamento, sia la strumentazione utilizzata per il loro svolgimento.

È indiscusso che un grosso problema per le persone ipovedenti è poi quello di trovare un lavoro: come affermava il nostro Paolo Bentivoglio: “il lavoro è la luce che ritorna”. Se nel lontano 1989, come si riscontrava dall’indagine dell’Abacus, la percentuale di disoccupazione degli ipovedenti era di 44% rispetto al 5% dei normodotati, oggi che la disoccupazione supera il 10% si può senza dubbio affermare che la percentuale di disoccupati tra gli ipovedenti è sicuramente ancor più alta, e questo per ragioni obiettive: le difficoltà nella lettura, l’impossibilità di ottenere la patente di guida, sovente l’insufficienza nella formazione, la limitata autonomia e, ovviamente, l’esclusione dalle categorie protette, determinano l’estrema complessità nel trovare un’occupazione idonea in un mondo alquanto concorrenziale e in continuo mutamento come quello di oggi. Individuare attività lavorative alle quali indirizzare gli ipovedenti sarebbe un compito primario della nostra associazione, ma di difficile attuazione.

Il  Decreto Ministeriale del 5 febbraio 1992″Approvazione della nuova tabella indicativa delle percentuali d’invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti”, per quanto concerne le percentuali di invalidità collegate alle patologie della vista, è ormai superato:  andrebbe aggiornato sulla scia della classificazione definita dalla legge 138/2001 e delle patologie che concorrono a ridurre la qualità della visione.

Fermo restando le modifiche alle percentuali di invalidità, sarebbe necessaria la corresponsione di una indennità per gli ipovedenti gravi e non solo, tenendo conto delle grandi difficoltà nelle quali incorrono quotidianamente.  

Un esempio valga per tutti: una persona sorda la cui percentuale di invalidità massima è dell’80% percepisce un’indennità di comunicazione di oltre 250 euro mensili, quando una persona ipovedente grave monocolo con pari percentuale di invalidità può percepire l’indennità come invalido civile, ma legata al reddito.   

La tecnologia moderna è in continuo mutamento, ma la strumentazione a disposizione degli ipovedenti nell’ambito del nomenclatore tariffario delle protesi rimane invariata: sarebbe quindi necessario l’aggiornamento della stessa con frequenza almeno biennale, come d‘altronde previsto ma mai applicato, ma soprattutto abolire la clausola finale dove viene consentito l’accesso ai soggetti con un residuo visivo non superiore ad un decimo in entrambi gli occhi anche con eventuale correzione, estendendo l’accesso a tutti i soggetti della legge 138/2001.

Tutti noi conosciamo quanto la deambulazione e l’accesso ai servizi in una città moderna siano difficoltosi e sovente impossibili per una persona con una bassa visione. Esistono soluzioni sovente a costo zero o a costo irrilevante, per rendere fruibili informazioni o spazi: spesso è solo una questione di sensibilità. Pensiamo per esempio alla sintesi vocale presente in tante strutture private, ma completamente assente nelle strutture pubbliche (ospedali, poste, anagrafe etcetc…), ai numeri civici retroilluminati, alle indicazioni stradali replicabili ad altezza leggibile e in generale alle soluzioni che abbattano/segnalino le barriere architettoniche presenti nelle città. L’elenco completo degli interventi sarebbe troppo lungo, e comunque ribadiamo che ogni singolo caso potrebbe trovare soluzione in un approccio caratterizzata da una maggiore sensibilità al problema.

Come ampiamente dimostrato dall’indagine della Doxapharma, la conoscenza del fenomeno dell’ipovisione e delle sue necessità è alquanto scarso: un’opera di sensibilizzazione sarebbe necessaria nei confronto di tutti quei professionisti che operano nell’ambito della cura e nell’educazione delle persone con soggetti con bassa visione e che spesso non sanno fornire risposte adeguate; parlo degli oculisti, che pur conoscendo l’esistenza dei centri di riabilitazione visiva, temono di perdere il paziente e non lo avviano alle strutture; parlo dei medici di base, che spesso non conoscono l’esistenza della nostra Unione e delle strutture riabilitative; parlo degli insegnanti che confondono le difficoltà visive con le difficoltà cognitive di un alunno, e che non conoscono l’esistenza dei sussidi tiflo-didattici. Il problema di fondo è il medesimo: far conoscere in modo esauriente ed appropriato l’esistenza di una categoria, in forte crescita, con proprie specificità e criticità. Le Sezioni provinciali dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti dovrebbero inoltre collaborare strettamente con le strutture che intendano realizzare o potenziare i Centri di Riabilitazione Visiva (CERVI) che operano nel loro ambito territoriale.  Infine, la FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità), presente su tutto il territorio nazionale, potrebbe adoperarsi a promuovere incontri specifici con gli ipovedenti iscritti alle varie associazioni della federazione con la partecipazione di un oculista che illustri le diverse patologie e le possibili soluzioni; l’oftalmologia moderna è in continua evoluzione e offre risposte sovente sconosciute agli interessati.   

CONLCUSIONE

La sensibilizzazione sulle tematiche dell’ipovisione è un fatto al quale nemmeno la nostra Unione deve sentirsi estranea. L’Unione è nata negli anni del primo dopoguerra come associazione di ciechi per i ciechi; nel decennio scorso, ha ufficialmente  deciso di aprire le porte alle persone ipovedenti, codificandone l’inclusione in sede statutaria; tuttavia, il nostro sodalizio deve forse ancora superare quell’originaria vocazione votata alla cecità per sviluppare settori di attività ed iniziative che tengano conto della specificità delle persone ipovedenti. 

Stiamo per compiere 100 anni di vita e speriamo che non ne occorrano altrettanti per trasformare i nostri desideri di ipovedenti in realtà.    

Angelo Mombelli

PS: Vorrei ringraziare il Consiglio regionale Lombardo dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, ed in particolare il dott. Stefano Sartori: grazie alla disponibilità e collaborazione sua e dell’ufficio ho potuto redigere questo documento.