Alberto Tomberli è un ragazzo ipovedente di 25 anni, affetto da una malattia degenerativa della retina. All’inizio dell’anno ha avuto la possibilità di raccontarsi, di raccontare la sua vita, le sue passioni e la sua malattia: ad offrirgliela, la famosa trasmissione televisiva Le Iene che ne ha realizzato un intenso servizio.
Ho deciso di fargli qualche domanda, non solo a proposito di questa esperienza. E ne è uscito qualcosa di molto diverso rispetto a quelle interviste realizzate con lo scopo di costruire un ponte tra disabili e non disabili o di sensibilizzare questi ultimi sul tema della disabilità. È piuttosto un confronto, un dialogo nato dalla curiosità: quella di un ipovedente che parla con un altro ipovedente per avere un’altra prospettiva su come si possa vivere la nostra disabilità. Perché, a volte, a guardar bene il proprio riflesso su uno specchio, notiamo una postura che non ci rendevamo conto di poter avere. E quando ci voltiamo ci sentiamo più consapevoli e arricchiti.
D. Com’è nata l’idea di questo servizio televisivo?
R. In modo assolutamente casuale. Da una telefonata che ho fatto all’Uici di Roma per avere informazioni su spazi dedicati al paratliathon. Il presidente Giuliano Frittelli mi ha risposto che mi avrebbe richiamato dopo essersi informato e che forse avrebbe avuto un regalo per me. Venti minuti dopo mi ha richiamato parlandomi di questa opportunità che si era creata perché un altro ragazzo aveva rinunciato. Ho detto subito di sì, trovando la cosa molto intrigante.
D. Per uno spettatore come me che condivide la tua stessa disabilità è stato un servizio emozionante. Tu ne sei rimasto soddisfatto?
R. Non sapevo quale indirizzo volessero dargli, né l’ho saputo fino alla messa in onda, e devo ammettere di essermi preoccupato, perché sono servizi in cui è facilissimo strumentalizzare questi argomenti. Mi ero preoccupato addirittura che potessero creare un personaggio che non ero io, uno accusabile di essersi venduto e di aver svalutato o banalizzato la figura del disabile. Invece il risultato è stato ottimo, perché non mi hanno snaturato, non esce una caricatura, ma quello che sono veramente.
D. In effetti, ti sei anche preso una bella responsabilità.
R. Quando ho accettato non ci avevo riflettuto, ma poi mi hanno scritto tantissime persone sui social, complimentandosi, facendomi domande, ringraziandomi per avergli dato conforto.
D. È stato qualcosa in più di un servizio sulla tua vita, quindi…
R. Io l’ho vissuto come un servizio di utilità per tutti. Quando ho capito che non c’entravo soltanto io, ho cercato di abbattere lo stereotipo del non vedente passivo che sta a casa fermo sul divano. Spero davvero che questo servizio dimostri finalmente a tutti quali sono le potenzialità di un disabile della vista, che è in grado di fare anche altro oltre al solito centralinista o fisioterapista.
D. Tu sei fiorentino, ma ti sei trasferito a Roma, lontano dalla tua famiglia.
R. Sì, è stata un’altra sfida. Mi sono trasferito per studiare all’università e ora vivo con un amico.
D. Una sfida, soprattutto perché Roma è una città davvero poco accessibile.
R. Roma è una città bellissima e ricchissima di opportunità, ma non ha nulla di accessibile. E quello che sorprende è che tra la periferia e il centro non cambia nulla: io vivo a San Pietro e mi muovo con tutti gli ausili possibili, ma c’è sempre una transenna che travolgo. Stanno in mezzo ai percorsi loges…
D. E li spostano ogni giorno, tra l’altro…
R. Esatto. L’assurdità è che sono stati fatti investimenti, ma poi li hanno abbandonati. Ti dico solo che se cammini a Castel Sant’Angelo lungo il percorso loges ti trovi all’improvviso dentro una bancarella, visto che le hanno sistemate proprio lì.
D. Ti capisco benissimo. Anche io vivo a Roma e ammetto di aver dovuto sviluppare qualche metodo per sopravvivere, ad esempio impormi di non avere mai fretta.
R. Questo è certo, bisogna sempre avere due o tre piani alternativi, essere flessibili, razionali e soprattutto munirsi di tanta, tanta pazienza. Se sei nervoso a Roma non vai da nessuna parte.
D. Anche la mia malattia è degenerativa come la tua e guardandoti nel servizio delle Iene ho avuto come la sensazione di guardarmi allo specchio nella mia quotidianità. La tua vitalità, la tua voglia di fare tantissime esperienze mi è sembrata derivare dalla mia stessa voglia di sfidare il tempo che mi condanna e i limiti che m’impone e che cambiano di giorno in giorno.
R. Sì, le sfide in un certo momento della nostra vita diventano costanti. Con questa malattia, non sapendo mai come andrà a finire, né quando, cerco di fare quante più cose mi è possibile. Ma il tempo non lo vedo solo come un nemico: da un certo senso è uno stimolo.
D. È vero, questo in effetti emerge molto bene dal servizio. Ed emerge anche un messaggio: che possiamo vivere i nostri limiti come un ostacolo insuperabile oppure come un obiettivo da raggiungere e provare a superare costantemente.
R. Sì, credo che la vita, la nostra vita, debba essere affrontata per andare avanti. Poi, ognuno ha un carattere diverso e la prende in un certo modo. Questo non significa che nella mia vita non ci siano mai momenti di down, di scoramento, ma cerco sempre di superarli con una nuova esperienza.
D. Tu studi Relazioni Internazionali, giusto?
R. Sì, ecco, quella è stata una grande sfida, soprattutto scegliere di andarla a studiare a Roma, come ti dicevo. Ma è stata una scelta di passione, perché amo l’ambito delle politiche internazionali, anche se ammetto che è stata una scelta impulsiva che ho fatto senza un progetto preciso.
D. Ti capisco benissimo, a me quella stessa impulsività mi ha spinto fino al dottorato in Filosofia. Anche questo forse riguarda la voglia di fare quante più esperienze possibili finché ci sono possibili, non credi?
R. Sicuramente, anche se una volta laureato vorrei continuare su quella strada, magari entrando in qualche luogo correlato, come la FAO o il WFP.
D. Nel servizio racconti che, a volte, quando entri col bastone in un pub insieme a un amico, chiedano a lui cosa vorresti da bere, piuttosto che a te. Anche a me è capitato, come credo sia capitato a tutte le persone con la nostra disabilità. Una volta mi incazzavo, poi però ho imparato a fregarmene facendomi una risata. Tu che reazione hai?
R. Dipende dai momenti. Non tutti i giorni riesco a riderne, purtroppo. È il modo delle persone che non riesco a sopportare, l’ignoranza. Non credo che dovrebbe essere mai perdonata e per questo non riesco sempre a lasciarla passare con una risata, per quanto sprezzante.
D. La mia è un’autodifesa da tutte quelle volte che una semplice frase mia ha rovinato una bella giornata.
R. È giusto quello che fai tu, è giusto non prendersela più di tanto, ma credo che sia necessario rispondere, perché tre o quattro parole possono far riflettere. Certo, non possono sradicare l’ignoranza, per quello l’unica soluzione sta nell’educazione nelle scuole.
D. Oggi tutti, giovani e meno giovani, usiamo i social e ci conosciamo più gente di quanta ne conosciamo per strada. Ma è una conoscenza virtuale che nasce dalle chat. Io spesso mi sono posto il problema di quando e se dire all’altro della mia disabilità.
R. È una bella questione. Io tendo sempre a non dirlo subito, ma solo perché voglio capire prima com’è la persona, come potrebbe reagire e se vale veramente la pena andare oltre.
D. Scusami se ti sto facendo domande così intime, ma molte di queste sono domande che faccio spesso a me stesso. E una delle più importanti credo sia questa: pensi che senza questa malattia saresti stato la stessa persona che sei?
R. È una domanda che mi faccio spesso anche io. Secondo me non lo sarei stato, semplicemente perché molte attività che faccio sono legate alla mia disabilità. E per molte cose questa malattia per me è un valore. Penso spesso che se non l’avessi avuta sarei stato una persona comune, uno come tanti. Non che sia un pregio, però davvero non è un difetto… non so se capisci cosa intendo… Non significa pensare di essere migliore degli altri, nel senso di essere più buono o più bravo o più intelligente. È qualcosa in più che abbiamo rispetto agli altri, qualcosa come un peso, forse, che ci dà una coscienza diversa delle cose, maggiore, per certi versi.
D. Però stiamo attenti a non dire che la malattia è qualcosa di positivo.
R. Non è, ma può avere qualcosa di positivo. D’altronde lo hai detto tu stesso, ognuno è fatto in modo diverso… Per te cos’ha di positivo?
D. Ora sei tu a fare le domande a me?
R. È il bello di una bella intervista.
D. Penso che la mia malattia mi renda più cosciente del tempo, di essere mortale. Ecco in cosa la trovo positiva: mi costringe a pesare ogni sguardo, a non sprecare nemmeno un attimo del mio tempo e a sfruttarlo per lavorare su me stesso in direzione di una perfezione che so di non poter raggiungere mai, proprio perché la malattia me lo impedisce fisicamente. Eppure continuare a farlo, quasi come a sfidarla, come a dire: vinci tu lo so, ma almeno mi gusto il piacere di aver provato a combatterti…
R. Alessio, scusa se ti interrompo, ma quanto si sente che sei un filosofo!