In Italia la condizione dei ciechi nel passato non era differente da quella del resto d’Europa. Nel 1818, sulle orme che Valentin Haüy tracciò in Francia, nasceva a Napoli l’ospizio per ciechi per opera di Giuseppe e Lucia Santi, nel quale venne accolto a scopo educativo un primo nucleo di ragazzi e ragazze privi della vista.
L’enorme successo raggiunto dall’opera di Valentin Haüy in Francia e in Europa stimolava in senso positivo l’immaginazione ed il sentimento dei filantropi illuminati, così anche in Italia si cominciò a prospettare l’assistenza ai ciechi come fenomeno di protezione sociale.
Nel 1838 sorgeva a Padova il Configliachi, il secondo istituto per ciechi in Italia e nel 1840 l’iniziativa di un gruppo di filantropi guidati da mons. Luigi Vitali dava origine a Milano a un grande istituto che accoglieva fanciulli ciechi della Lombardia e del Veneto e che divenne ben presto il più cospicuo grazie alla larga munificenza cittadina. Da allora in poi, un po’ ovunque in Italia si diffusero istituzioni pro ciechi, il cui carattere e le cui finalità rimanevano vincolati a un impegno prettamente assistenziale; la minorazione visiva veniva considerata come un impedimento insuperabile verso l’acquisizione di concrete forme di cultura e di conoscenze adeguate della realtà circostante. Il privo della vista veniva rappresentato, non solo dall’immaginazione popolare, ma anche e soprattutto dalle autorevoli voci di qualificate correnti psicologiche e fisiologiche, come un essere ai margini della normalità, confinato in un mondo privo di forme e di dimensioni.
L’educazione che vigeva nei primi istituti era improntata più ad un senso di pietosa assistenza che alla consapevolezza di preparare uomini da inserire tra gli altri uomini.
La didattica non poteva che essere impostata su un insegnamento nozionistico di poche e frammentarie informazioni selezionate tra quelle che avrebbero potuto facilmente essere affidate alla memoria, senza dover ricorrere alla faticosa sperimentazione, alla ricerca, all’osservazione.
Quando Louis Braille perfezionò la scrittura tattile e, conseguentemente, la lettura fondata sullo stesso metodo, le scuole andavano gradualmente verso l’adozione di quel metodo di scrittura e di lettura; nonostante ciò non si riuscì ad oltrepassare il puro e semplice insegnamento nozionistico forse anche perché i tempi non erano maturi per una profonda rivoluzione pedagogica. La scuola in generale era ferma su quei principi e i fermenti proposti dal pensiero e dall’opera di grandi pedagogisti, come la Montessori, le sorelle Agazzi, Decroly e Piaget restavano soltanto motivi di discussione teorica o di realizzazioni singole in centri particolarmente fortunati.
A ciò si aggiunga che il Codice Civile dello Stato Italiano del 1865 aveva sancito l’inabilità dei ciechi a provvedere alle proprie cose, fatta eccezione per chi fosse dichiarato abile in tal senso da una testimonianza in giudizio da parte dei propri familiari.
Una svolta a questa situazione si ebbe quando la capacità organizzativa dei ciechi portò il 26 Ottobre del 1920 alla fondazione dell’Unione Italiana Ciechi a Genova ad opera di Aurelio Nicolodi.
Il Novecento può dunque essere ritenuto il periodo del passaggio dall’assistenza dei ciechi alla loro istruzione. Nel 1923, con la riforma Gentile, furono emanati provvedimenti e norme per l’istruzione elementare obbligatoria: il RD 2841/1923 decretava il passaggio da ospizi per ciechi a istituti scolastici, da soggetti di assistenza a soggetti di educazione; con il RD 3126/23 l’istruzione per i fanciulli ciechi diveniva obbligatoria. Il passaggio dal concetto di istituto come ricovero assistenziale a quello di ente di istruzione era avviato.
Molto significativo era l’art. 1 dell’O.M. del 27 giugno del 1924, dove si leggeva: “L’obbligo si assolve nelle scuole private o paterne, negli istituti dei ciechi all’uopo designati e presso le pubbliche scuole elementari dove gli alunni ciechi debbono essere ammessi dalla quarta elementare”. Qui si ritrova il primo e fondamentale incunabolo dell’integrazione scolastica dei ragazzi ciechi nella scuola di tutti.
Nel 1925, con il RD 2483, a Roma veniva fondato l’Istituto “Romagnoli”. Esso costituiva la prima “scuola di metodo” per gli educatori dei ciechi del nostro paese. Tale “lungimirante” ed innovativa istituzione avrà come suo primo Direttore ovviamente Augusto Romagnoli e ricoprirà per diversi decenni in Italia un ruolo centrale nella consulenza tiflodidattica e nell’orientamento professionale degli educatori dei privi della vista.
Il contributo di Romagnoli al progresso dell’istruzione dei ciechi appare indubbiamente fondamentale e ancora oggi tale da farlo considerare il fondatore della tiflologia in Italia e tale da promuovere su di lui nuovi studi e ricerche. Si tratta di un contributo concreto, concentrato a focalizzare l’attenzione sociale sull’educabilità dei privi della vista e ad invitare i non vedenti stessi a partire dalle proprie responsabilità. Romagnoli, inoltre, pensava che “l’ideale sarebbe che i ragazzi ciechi venissero educati coi loro compagni vedenti”.
Tuttavia, tali embrionali esperienze d’integrazione sarebbero ben presto tramontate. Infatti, con il varo della legge 1463 del 26 ottobre 1952, che ai sensi dell’art. 1 prevede, per i fanciulli ciechi, l’obbligo di frequentare la scuola speciale, nacquero appunto le cosiddette “scuole speciali”.
Tale norma, benché si ispiri ad una verità pedagogica che anche la Corte Costituzionale ha riconosciuto come ineccepibile, applicata alla lettera, ha invece favorito, di là dalle intenzioni del legislatore, il dilatarsi dei mali interni agli Istituti, provocandone l’appiattimento e l’involuzione.
Augusto Romagnoli, in “Ragazzi ciechi”, aveva auspicato, fin dal 1924, che maturassero i tempi per l’integrazione dei fanciulli ciechi nella scuola ordinaria. Gli istituti, invece, si mossero fuori da questo spirito e dopo l’istituzione della scuola media dell’obbligo con la legge 1859 del 31 dicembre 1962, pur rimanendo importanti “baluardi” per l’accesso alla cultura e l’inserimento professionale dei non vedenti (grazie allo svolgimento di attività manuali, all’insegnamento del Braille, della musica, di tecniche di mobilità ed orientamento e di educazione motoria), dilatarono ulteriormente l’internato. Accadde così che nel 1968 qualcuno poté accusarli di essere “ghetti” o “gabbie dorate”,.
La tempesta sessantottina s’abbatté sulle scuole speciali, accusandole di rappresentare un sistema chiuso, un libro uguale per tutti. I docenti spesso erano ciechi, i direttori erano ciechi: un mondo autosufficiente che dava una risposta ai bisogni solo dei ciechi.
Naturale e scontata conseguenza di questa “ventata” rivoluzionaria fu la chiusura delle scuole speciali per ciechi, disposta con la Legge 360 dell’11 Maggio del 1976, cui seguì l’anno dopo la legge 517 che introdusse in Italia il principio dell’integrazione scolastica degli alunni portatori d’handicap nella scuola “normale”. La 517 del ‘77 inoltre prevedeva per gli studenti disabili l’assoluta e “storica” novità della presenza dell’insegnante di sostegno nella scuola di tutti che ancora oggi, seppure con enormi difficoltà, continua a rappresentare una conquista di civiltà ed una svolta storica della moderna pedagogia italiana.
Ma, come sopra accennato, a quasi quarant’anni dalla 517, il sistema del sostegno degli alunni minorati della vista presenta ancora delle forti criticità ed è ben lungi dall’assicurare e garantire ai nostri ragazzi una piena ed effettiva inclusione scolastica.
Ciò dipende dalle ambiguità e precarietà che caratterizzano il ruolo, la funzione e la formazione degli insegnanti di sostegno, dall’inadeguata e scadente preparazione degli assistenti all’educazione e comunicazione (di cui all’art 13 della legge 104 del 1992), ma soprattutto dalla grande confusione che riguarda la figura del Tiflologo.
A proposito della non idonea e modesta preparazione dei docenti di sostegno sulla disabilità visiva, grazie alla pressoché maggioritaria presenza nella scuola normale di disabili con ritardi di apprendimento, negli ultimi decenni, si è andata affermando una formazione , centrata senz’altro sulle tematiche relative alla disabilità, ma con una impostazione sempre più “generalista” e sempre meno attenta ai bisogni specifici derivanti dalle diverse tipologie di disabilità. Troppo spesso, ormai, capita di imbattersi desolatamente in insegnanti di sostegno di alunni ciechi che poco o nulla sanno di tiflopedagogia e tiflodidattica e che, cosa ancora più disdicevole, non conoscono neppure il Braille e la tifloinformatica. Di recente, per ovviare e scongiurare tali deficienze del “sistema”, la Fand e la Fish hanno presentato una proposta di legge mirante all’istituzione di un ruolo “ordinario” del sostegno, con una formazione universitaria “specifica” sulle singole disabilità.
Il considerare i tiflologi dei veri e propri “Carneadi” e la “dispersione” delle loro competenze tiflopedagogiche e tiflodidattiche sono invece da ricercarsi nel fatto che l’Istituto Romagnoli di Roma , Senza più il suo fondatore, il grande Augusto Romagnoli prematuramente scomparso nel 1948, è diventato sempre meno autorevole , incapace di continuare ad essere il punto di riferimento ed il “presidio” dell’indagine scientifica, della sperimentazione didattica e metodologica e della ricerca tiflologica a favore dei non vedenti ed ipovedenti, non esercitando più nessun “appeal” sull’”intelligentia” e sul mondo universitario ed iniziando una crisi lenta ma inesorabile, fino alla sua chiusura definitiva negli anni novanta.
Porsi il problema relativo alle funzioni del “tiflologo” nella spinosa tematica concernente l’istruzione dei ragazzi minorati della vista, oggi, a molti potrebbe sembrare, se non un “problema inventato”, certamente una questione oziosa, quasi un gioco di pedagogisti sfaccendati o, comunque, collocati fuori della realtà storica. Io ritengo invece che la tiflologia non costituisca una scienza di pochi eletti, di un circoscritto numero di iniziati, ma si prospetta come un capitolo della più vasta pedagogia. I problemi relativi all’inclusione degli allievi disabili visivi, quindi, sono oggi questioni che non appartengono più, come in un triste passato non troppo remoto, esclusivamente a chi non vede ed alla sua famiglia ma richiedono interventi oculati ed accorti di tutta la collettività.
Per tutti questi motivi, abbiamo assoluto bisogno di una ripresa e di un rilancio della Tiflologia. A mio modesto avviso, sotto il profilo pedagogico, la sua possibilità di esistere ancora e le prospettive di un suo rinverdimento e di un suo rinvigorimento, sussistono per almeno due ordini di riflessioni: in primo luogo, perché dalla didattica differenziata, da quella speciale, e nella fattispecie della cecità, dalla Tiflopedagogia e dalla Tiflodidattica non si può prescindere neppure quando l’educazione dei ragazzi ciechi si svolge nella scuola ordinaria. Un imperdonabile errore che si commette nel nostro tempo consiste nel contrapporre l’inclusione all’educazione specializzata che, invece, si integrano, non si elidono l’una con l’altra. In secondo luogo perché le istituzioni pro ciechi, rinnovandosi, possono costituirsi come “centri di risorse”, deputati all’erogazione di quei servizi tiflopedagogici che gli enti locali, le Regioni, ma spesso anche lo Stato, non sono in grado di fornire per mancanza di preparazione specifica.
Di fronte a tali carenze del sistema nazionale d’istruzione, la nostra Unione ed i suoi Enti collegati non sono stati a guardare e si sono invece adoperati con tutte le loro energie e le risorse economiche disponibili per dar vita a “centri di servizio”a supporto della scuola “comune”.
Trattasi dei cosiddetti “centri di consulenza tiflodidattica” (c.c.t.), istituiti dalla Federazione Nazionale Delle Istituzioni Pro Ciechi e dalla Biblioteca italiana per i ciechi “Regina Margherita” ai sensi della legge 284 del 1997. I nostri c.c.t. sono 17, sono distribuiti su tutto il territorio nazionale e si prefiggono il compito di fornire consulenza tiflodidattica e di far conoscere gli strumenti ed i materiali tiflodidattici agli insegnanti di sostegno, agli operatori scolastici, ai genitori ed agli alunni della scuola di ogni ordine e grado.
Dunque, il vero problema del sostegno degli allievi disabili visivi in Italia non sta nella mancanza di “centri di supporto” alla scuola, che ci sono e sono anche parecchi, quanto piuttosto nella totale assenza di una loro “visione d’insieme”, di un loro fattivo e sinergico collegamento, elementi che sarebbero al contrario indispensabili per un proficuo processo di inclusione dei nostri ragazzi nella scuola “normale”.
Al riguardo, su proposta del Presidente Nazionale dell’UICI Mario Barbuto, come da me già scritto qualche giorno fa, la Federazione ha approvato la costituzione di una vera e propria “authority dell’inclusione” con il “nobile” compito di coordinare ed integrare tutti gli Enti collegati all’Unione e magari, perché no, sciogliere definitivamente il rebus sull’inquadramento professionale del tiflologo.
Infatti, in seguito al declino dell’Istituto Romagnoli di Roma ed a causa della mancata attuazione della legge 69 del 2000 che ne avrebbe finanziato la rinascita e riapertura, c’è una certa urgenza di ridefinire il percorso formativo ed il profilo professionale del tiflologo. Paghiamo cioè lo scotto della mancanza di una vera e propria generazione di esperti di Tiflologia, a cui bisogna necessariamente porre rimedio, pensando all’istituzionalizzazione di una nuova “figura” professionale più al passo con i tempi e più idonea e preparata a favorire l’inclusione scolastica dei ragazzi privi della vista del terzo millennio.
Tale “mission”, d’altra parte, si presenta certamente come non facile poiché quello del tiflologo è un profilo professionale obiettivamente difficile da definire, trattandosi di un esperto con competenze psicologiche, ma anche pedagogiche, educative e sociologiche. Per non parlare dei “famosi” aec (assistenti all’educazione ed alla comunicazione), istituiti dalla legge 104, che non si sono ancora radicati come “figure” del sostegno su tutto il territorio nazionale e comunque, laddove operano già, hanno una formazione lacunosa ed improvvisata.
Al fine di superare queste difficoltà e nell’intento di creare tale nuovo profilo professionale, Il nostro Presidente Mario Barbuto, il componente la Direzione Nazionale dell’UICI Marco Condidorio ed il Direttore centrale dell’I.Ri.Fo.R. Luciano Paschetta hanno voluto fortemente organizzare insieme l’innovativo e “lungimirante master universitario in Typhlology Skilled Educator (esperto in scienze tiflologiche), avente il patrocinio dell’I.Ri.Fo.R. e che, da esperienza “pilota” nel Molise, va generalizzato ed esteso in tutta Italia.
Il nostro ambizioso obiettivo è di stipulare una Convenzione con il MIUR entro la fine dell’estate, perché il nuovo organismo dell’”authority dell’inclusione” venga accreditato e riconosciuto ufficialmente dal Ministero e godere dunque di una sua “autorevolezza” anche nel mondo scientifico ed universitario e nel sistema educativo e formativo.
Pertanto, l’”authority” dovrà essere lo strumento ed il “grimaldello” a nostra disposizione per “imporre” alle Regioni, cui compete l’assistenza scolastica e/o postscolastica – domiciliare l’assunzione dei sopramenzionati “esperti in scienze tiflologiche” come operatori privilegiati del sostegno degli allievi disabili visivi, perché dotati di una formazione finalmente adeguata e di una “specializzazione” sulla minorazione visiva. Infatti, il Typhlology Skilled Educator potrebbe trovare impiego nei nostri “centri di consulenza tiflodidattica”, nei CTS come responsabile degli “sportelli tiflologici” (la cui apertura l’”authority” dovrà pretendere) e nelle scuole come “figura” di supporto al consiglio di classe per promuovere un autentico processo inclusivo degli studenti non vedenti ed ipovedenti.
Solo così potremo fugare pericolosi tentativi di ritorni anacronistici alle scuole speciali, garantendo veramente accoglienza ed inclusione a tutti gli alunni con disabilità visiva e, soprattutto, facendo risplendere la “luce” della Tiflologia in Italia!
Il rilancio della Tiflologia: un obiettivo possibile, di Gianluca Rapisarda
Autore: Gianluca Rapisarda