Il diritto della persona handicappata di non essere trasferita senza il suo consenso ad altra sede, mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda, non è invece attuabile ove sia accertata l’incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro.
Con la recente sentenza n. 24775 del 5 novembre 2013 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul trasferimento del lavoratore disabile, esaminando, in generale, i limiti legali sussistenti in capo al datore di lavoro in tale materia e, in particolare, la legittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale.
La norma (speciale) di riferimento è l’art. 33, comma 6, della legge n. 104/1992, secondo cui il lavoratore handicappato – senza il suo consenso – non può essere trasferito in un’altra sede di lavoro.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono già pronunciate in una fattispecie analoga, pure disciplinata dalla legge n. 104/1992, inerente il trasferimento del lavoratore che assiste una persona affetta da handicap in situazione di gravità (la legge fa riferimento al coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero, entro il terzo grado nei casi ivi espressamente indicati) e che, ai sensi di quanto previsto dall’art. 33, comma 5, della citata legge n. 104/1992, non può essere trasferito senza il suo consenso.
Infatti, con sentenza n. 16102 del 9 luglio 2009, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno precisato che, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, il diritto del genitore o del familiare lavoratore – con rapporto di impiego pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine nei limiti di grado previsti dalla legge – di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, se, da un lato, non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda o della P.A., non è, invece, attuabile ove sia accertata – in base ad una verifica rigorosa anche in sede giurisdizionale – l’incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro.
La sentenza in esame ha ritenuto applicabili i principi affermati dalle Sezioni Unite anche nell’ipotesi del trasferimento del lavoratore disabile.
In particolare, la Suprema Corte ha precisato che l’interesse della persona handicappata, ponendosi come limite esterno al potere datoriale di trasferimento (disciplinato dall’art. 2103 cod. civ.) prevale sulle ordinarie esigenze produttive ed organizzative del datore di lavoro, ma non esclude che il medesimo interesse, pure prevalente rispetto alle predette esigenze, debba conciliarsi con altri rilevanti interessi, differenti da quelli sottesi alla ordinaria mobilità, che possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro (pubblico o privato), così come avviene in altre ipotesi di divieto di trasferimento previste dall’ordinamento, per le quali la considerazione dei principi costituzionali coinvolti può determinare, concretamente, un limite alla prescrizione di inamovibilità (come, ad esempio, per il trasferimento dei dirigenti sindacali, ai sensi dell’art. 22, comma 2, della legge n. 300/1970).
Inoltre, è stato evidenziato che la giurisprudenza di legittimità aveva già, ripetutamente, affermato che il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e di disfunzione dell’unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive di cui all’art. 2103 cod. civ. (ex plurimis, Cass. 23 febbraio 2007, n. 4265, e, più recentemente, Cass. 22 agosto 2013, n. 19425).
Nel nostro caso, la Corte di Cassazione ha, quindi, rilevato che la situazione di incompatibilità ambientale (nella fattispecie, si trattava del trasferimento di una lavoratrice disabile determinato da una situazione di forte contrasto tra quest’ultima ed i colleghi di lavoro, con rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell’attività lavorativa) si distingue dalle “ordinarie” esigenze di modifica dell’assetto organizzativo, in quanto costituisce essa stessa una causa di disorganizzazione e di disfunzione e, quindi, realizza – di per sé – un’esigenza di mutamento del luogo di lavoro.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)