Centro di Documentazione Giuridica: Corte Costituzionale sentenza n.22/2015: riconoscimento delle provvidenze economiche agli stranieri «ciechi civili parziali» e «ciechi ventesimisti», a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

La Corte Costituzionale, il 27 gennaio u.s., ha emesso una sentenza che conferma l’orientamento favorevole alla concessione delle previdenze economiche ai non vedenti stranieri.
Nella sentenza 22/2015, precisa nuovamente la Suprema Corte che le provvidenze per indennità non sono condizionate al possedimento del permesso di soggiorno di lunga durata per le persone provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea. Essa in particolare, si esprime sulla pensione per i «ciechi civili parziali» e sull’indennità speciale per i «ciechi ventesimisti» stranieri riconoscendo l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedono il possesso del permesso di soggiorno di lunga durata per il riconoscimento della citate previdenze.
Nella sentenza di cui si riporta il testo integrale in allegato, la Corte Costituzionale, riprendendo i precedenti pronunciamenti in materia, chiarisce nuovamente che è illegittimo conferire tali provvidenze solo a chi è in possesso del permesso di soggiorno di lunga durata; infatti, anche alle persone che provengono da Paesi extra-europei soggiornanti in Italia e che hanno limitazioni alle funzioni visive (persone cieche parziali e cieche ventesimiste) spetta la «pensione ai ciechi parziali» e «l’indennità speciale ciechi ventesimisti», anche se non sono in possesso della carta di soggiorno.
Tale Sentenza segue l’indirizzo già adottato dalla Corte Costituzionale con i precedenti pronunciamenti sull’indennità mensile di frequenza, sull’indennità di accompagnamento per gli invalidi civili, sulla pensione per le persone con invalidità civile totale e sull’assegno mensile di assistenza per le persone con invalidità civile parziale.

a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

Sentenza della Corte Costituzionale 27 gennaio 2015, n. 22
“Giudizio di legittimità costituzionale su Art. 80, c. 19° , della legge 23/12/2000, n. 388, in combinato disposto con l’art. 9, c. 1°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, come modificato dall’art. 9, c. 1°, della legge 30/07/2002, n. 189, poi sostituito dall’art. 1, c. 1°, lett. a), del decreto legislativo 08/01/2007, n.3. art. 80, c. 19° legge del 23/12/2000 n. 388”

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), in combinato disposto con l’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), promosso dalla Corte d’appello di Bologna con ordinanza del 20 settembre 2012 e nel giudizio di legittimità costituzionale del predetto art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza del 20 maggio 2014, iscritte rispettivamente al n. 4 del registro ordinanze 2013 e al n. 148 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2013 e n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS);
udito nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
udito l’avvocato Clementina Pulli per l’INPS.

Ritenuto in fatto
1.? Con ordinanza del 20 settembre 2012, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, primo comma, 32, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale, questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001) e dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), «in correlazione» con l’art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili) e con l’art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508 (Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti).
Alla luce dei princìpi affermati nella giurisprudenza costituzionale, il giudice rimettente reputa manifestamente irragionevole subordinare «l’attribuzione di una prestazione assistenziale quale la indennità di accompagnamento riconosciuta al c.d. cieco civile ventesimista», al possesso di un titolo alla permanenza nel territorio dello Stato che richiede, tra l’altro, la titolarità di un reddito; con «incidenza negativa», anche, sul diritto alla salute (art. 32 Cost.), sui diritti riconosciuti dagli altri parametri evocati (artt. 2, 3 e 38 Cost.) nonché sui diritti inviolabili della persona tutelati dalle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, primo comma, Cost.), che vietano la discriminazione nei confronti degli stranieri legalmente soggiornanti; con violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 della CEDU e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale.
Tutti questi rilievi varrebbero «a maggiore ragione» anche per il diritto alla pensione; con la conseguenza che la subordinazione della attribuzione di tale prestazione al possesso di un titolo di soggiorno, a sua volta subordinato alla titolarità di un reddito, «rende ancora più evidente la intrinseca irragionevolezza del complesso normativo in esame».

In punto di rilevanza, la questione appare pregiudiziale, posto che l’appellato possiederebbe tutti i requisiti per il riconoscimento delle prestazioni domandate, ad eccezione di quello richiesto dalla disposizione censurata.

2.? Nel giudizio si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale, (d’ora in avanti «INPS»), chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’INPS osserva come, alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale, debba considerarsi legittima l’introduzione di limitazioni all’attribuzione di prestazioni assistenziali e pensionistiche in relazione a taluni requisiti, come il reddito e la stabile permanenza nel territorio dello Stato.
Quanto, poi, alla CEDU, nel suo ambito «(peraltro, di evidente contenuto politico-programmatico)», non sarebbero «individuabili norme di rango costituzionale che impongano al legislatore di equiparare gli stranieri ai cittadini dell’Unione ai fini della concessione di provvidenze economiche di mera assistenza sociale», mentre la condizione giuridica dello straniero, regolata dalla legge, rispetterebbe il parametro di cui all’art. 10, primo comma, Cost., «in quanto le diverse prestazioni di assistenza sociale, riconosciute ai possessori di carta di soggiorno rispetto ai possessori di permesso di soggiorno, appaiono ispirate al principio di ragionevolezza e di rispetto della condizione dello straniero».
La norma censurata, d’altra parte, «inserita nella legge finanziaria», mirerebbe evidentemente anche a contemperare la concessione dei benefìci alle esigenze connesse alla limitatezza delle «risorse finanziarie disponibili»: da un lato, basandosi «sul presupposto della equiparazione del disabile straniero al disabile cittadino italiano ai fini dell’ottenimento delle provvidenze economiche di natura assistenziale» come quelle in discorso e, dall’altro, correlandosi al principio della non “esportabilità” delle provvidenze medesime in sede comunitaria, ai fini, anche, della prevenzione del fenomeno del cosiddetto “turismo assistenziale”.

3.? Con ordinanza depositata il 20 maggio 2014, la Corte di cassazione ha sollevato #questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della richiamata legge n. 388 del 2000, «nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione e della indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell’assegno sociale maggiorato».
Passati in rassegna i motivi di ricorso ed enunciata la rilevanza della questione, il giudice rimettente ne illustra anche le ragioni di non manifesta infondatezza, richiamando la giurisprudenza costituzionale più volte soffermatasi sulla disciplina di cui alla disposizione censurata, dichiarata costituzionalmente illegittima in riferimento ai diversi istituti assistenziali di volta in volta presi in considerazione.
Viene, in particolare, rammentata la sentenza n. 40 del 2013, i cui princìpi – enunciati in riferimento alla condizione di soggetti «portatori di handicap fortemente invalidanti» – si ritiene non possano «non valere anche con riferimento alle prestazioni assistenziali, richieste nel giudizio principale»: si tratterebbe, infatti, di prestazioni destinate a «fornire alla persona un minimo “sostentamento” idoneo ad assicurare la sopravvivenza», in relazione a «una condizione fisica gravemente menomata», e predisposte per «consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare».

Si sottolinea, in particolare, la peculiarità propria dell’indennità di accompagnamento per ciechi rispetto all’omonima provvidenza prevista per altri invalidi e si osserva, quanto all’assegno sociale maggiorato, che nel giudizio principale risulta «inapplicabile “ratione temporis”» la disciplina di cui all’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133.

Si esclude, infine, sia la possibilità di «una interpretazione costituzionalmente orientata» sia una disapplicazione della disposizione censurata per contrasto con l’art. 14 della CEDU, «“norma di principio”» priva, come tutte «le previsioni della Convenzione», di «efficacia diretta nel nostro ordinamento».

4.? Nel giudizio si è costituito l’INPS, che ha chiesto dichiararsi infondata la proposta questione.
Evidenziate le caratteristiche dell’assegno sociale, l’INPS osserva come, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, questa provvidenza è corrisposta a condizione che gli aventi diritto abbiano soggiornato legalmente in via continuativa nel territorio nazionale per almeno dieci anni, così che il trattamento riservato allo straniero dalla norma denunciata risulta «sicuramente più favorevole rispetto a quello previsto per il cittadino italiano».
Effettivamente, peraltro, si sarebbero rimodulati «in senso restrittivo i requisiti costitutivi che consentono l’accesso alle provvidenze in questione», senza, tuttavia, che la risultante disciplina possa ritenersi illogica o irrazionale.
Quanto al profilo relativo alle norme CEDU come parametro interposto ed a quello concernente le esigenze di finanza pubblica alle quali riconnettere la norma censurata, l’INPS ripropone, in sostanza, gli argomenti già esposti.

5.? In una ulteriore memoria, depositata in prossimità dell’udienza, l’INPS ha insistito nella richiesta formulata, sottolineando, in particolare, «la differenza tra l’assegno sociale e le altre prestazioni assistenziali», anche in ragione della «disciplina differenziata prevista dal Legislatore per l’accesso» alle medesime.

Considerato in diritto

1.? La Corte è chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), denunciato dalla Corte d’appello di Bologna, con ordinanza del 20 settembre 2012, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, primo comma, 32, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale – in «combinato disposto» con l’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), e «in correlazione» con l’art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili) e con l’art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508 (Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti) –; nonché dalla Corte di cassazione, con ordinanza depositata il 20 maggio 2014, «nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione e della indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell’assegno sociale maggiorato».

2.? Avendo ad oggetto una medesima disposizione, i giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia.
La questione prospettata dalla Corte d’appello di Bologna relativamente all’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato, «in combinato disposto» con il predetto art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, appare priva di autonomia agli effetti del petitum perseguito, essendo quest’ultimo evidentemente diretto a rimuovere la preclusione prevista in linea generale per i cittadini extracomunitari e riferibile anche alle provvidenze in discorso.

3.? Va preliminarmente rilevato che l’ordinanza rimessa dalla Corte di cassazione presenta insuperabili carenze nella motivazione, tanto in ordine all’esatta e specifica individuazione dei parametri costituzionali che si assumono violati, quanto in merito alle ragioni della non manifesta infondatezza, ponendo, dunque, una questione che va dichiarata manifestamente inammissibile. Il giudice rimettente si limita, infatti, ad operare un semplice rinvio, per relationem, all’eccezione sollevata dalla parte ricorrente e ad una rievocazione, peraltro generica, dei princìpi posti a base di numerose pronunce di questa Corte relativamente alla stessa materia. Viene, in particolare, richiamata la sentenza n. 40 del 2013, con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione qui all’esame, nella parte in cui subordinava al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell’indennità di accompagnamento, di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili), e della pensione di inabilità, di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili).
Occorre ribadire, al riguardo, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che, ai fini del necessario scrutinio della rilevanza della questione sottoposta nonché dei profili della sua non manifesta infondatezza, il giudice rimettente non può esimersi dal fornire, nell’atto di promovimento, un’esauriente ed autonoma motivazione (ordinanza n. 33 del 2014): dovendosi, invece, escludere che il mero recepimento o la semplice prospettazione di argomenti sviluppati dalle parti o rinvenuti nella giurisprudenza, anche costituzionale, equivalgano a chiarire, per sé stessi, le ragioni per le quali “quel” giudice reputi che la norma applicabile in “quel” processo risulti in contrasto con il dettato costituzionale (nello stesso senso, sentenza n. 7 del 2014).
L’enunciata carenza, d’altra parte, non appare, nella specie, emendabile neppure attraverso una sorta di “interpretazione contenutistica” del provvedimento: se si esclude, infatti, un fugace accenno alla violazione del principio di solidarietà, non risultano additati, con autonomo apprezzamento, specifici “vizi” della normativa censurata, né risulta operata alcuna autonoma selezione di profili di illegittimità, in riferimento a specifici parametri, rispetto a quelli complessivamente rintracciati nelle “fonti” richiamate.
Nel dubitare della legittimità della norma denunciata, la Corte rimettente non sembra abbia, d’altra parte, considerato significativo, sotto alcun profilo, un eventuale problema di compatibilità – astrattamente riguardante i cittadini extracomunitari così come gli italiani – tra le varie misure assistenziali in discussione (e, in particolare, tra l’assegno sociale e la pensione di inabilità): le quali appaiono immotivatamente accomunate sul versante delle garanzie di “non discriminazione”, peraltro solo implicitamente evocate, nonostante le differenze nella ratio, nella disciplina positiva e nelle finalità – in ipotesi, appunto, perfino alternative – che le caratterizzano.

4.? È fondata, invece, la questione sollevata dalla Corte d’appello di Bologna e riferita alla previsione che subordina alla titolarità della carta di soggiorno la concessione, in favore dei ciechi extracomunitari, della pensione di cui all’art. 8 della legge n. 66 del 1962, a norma del quale «Tutti coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18° anno di età» nonché della speciale indennità di cui all’art. 3, comma 1, della legge n. 508 del 1988, secondo cui «A decorrere dal 1° gennaio 1988, ai cittadini riconosciuti ciechi, con residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, è concessa una speciale indennità non reversibile al solo titolo della minorazione di L. 50.000 mensili per dodici mensilità».
Al riguardo, appare utile, anzitutto, muovere dal precedente specifico costituito dalla già richiamata sentenza n. 40 del 2013.
In questa decisione, prendendo in esame l’identica condizione ostativa della necessaria titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, a norma del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante «Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo»), ai fini del riconoscimento agli stranieri extracomunitari dell’indennità di accompagnamento (di cui all’art. 1 della legge n. 18 del 1980) e della pensione di inabilità (di cui all’art. 12 della legge n. 118 del 1971) (provvidenze del tutto simili a quelle in esame), la Corte rilevò in particolare, sulla scia di proprie analoghe precedenti pronunce, come, nell’ipotesi in cui vengano in rilievo provvidenze destinate al sostentamento della persona nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile si trova inserito, «qualsiasi discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU», per come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Questi princìpi dovevano trovare applicazione – si osservò – anche in riferimento alle misure assistenziali prese in considerazione nel frangente, in riferimento a benefìci rivolti a soggetti in gravi condizioni di salute, portatori di impedimenti fortemente invalidanti, la cui tutela implicava il coinvolgimento di una serie di valori di essenziale risalto e tutti di rilievo costituzionale, a cominciare da quello della solidarietà, enunciato all’art. 2 Cost. Del resto – si disse – anche le diverse convenzioni internazionali, che parimenti presidiano i corrispondenti valori, rendevano «priva di giustificazione la previsione di un regime restrittivo (ratione temporis, così come ratione census) nei confronti di cittadini extracomunitari, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile ed in modo non episodico».
I rilievi appena richiamati debbono, a fortiori, essere riaffermati in riferimento allo stato delle persone non vedenti. La specificità, infatti, dei connotati invalidanti – resa evidente dalla particolare attenzione e dal favor che caratterizzano, da epoca ormai risalente, la normativa di settore, con la previsione di diverse provvidenze per le persone che risultino averne titolo – renderebbe ancora più arduo giustificare, nella dimensione costituzionale della convivenza solidale, una condizione ostativa – inevitabilmente discriminatoria – che subordini al possesso della carta di soggiorno la fruizione di benefìci intrinsecamente raccordati alla necessità di assicurare a ciascuna persona, nella più ampia e compatibile misura, condizioni minime di vita e di salute.
Ove così non fosse, d’altra parte, specifiche provvidenze di carattere assistenziale – inerenti alla sfera di protezione di situazioni di inabilità gravi e insuscettibili di efficace salvaguardia al di fuori degli interventi che la Repubblica prevede in adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà (art. 2 Cost.) – verrebbero fatte dipendere, nel caso degli stranieri extracomunitari, da requisiti di carattere meramente “temporale”, del tutto incompatibili con l’indifferibilità e la pregnanza dei relativi bisogni: i quali requisiti ineluttabilmente finirebbero per innestare nel tessuto normativo condizioni incoerenti e incompatibili con la natura stessa delle provvidenze, generando effetti irragionevolmente pregiudizievoli rispetto al valore fondamentale di ciascuna persona.
La disposizione denunciata, pertanto, risultando in contrasto con gli evocati parametri costituzionali e con i relativi princìpi – oltre che con quelli più volte affermati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo –, deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima.

per questi motivi

La Corte costituzionale
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione di cui all’art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili) e dell’indennità di cui all’art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508 (Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti);
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 gennaio 2015.

F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI

Centro di Documentazione Giuridica: Licenziamento disabile: obbligo di doppia verifica della inidoneità, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Con sentenza 4757/2015, la Cassazione ha affermato che risulta illegittimo il licenziamento disposto per inidoneità sopravvenuta del lavoratore allo svolgimento delle mansioni sul presupposto del solo accertamento compiuto dal medico competente e senza aver atteso gli esiti del successivo riesame da parte della commissione sanitaria.
La Corte ha ulteriormente precisato che l’illegittimità del provvedimento espulsivo è motivata dal fatto che il datore non ha dato prova dell’impossibilità di reimpiegare il lavoratore altrove nell’ambito dell’azienda.
Il presupposto da cui muove la decisione è che, avverso la valutazione del medico competente circa l’idoneità/inidoneità parziale, temporanea o permanente del dipendente al disimpegno di una determinata attività, è consentito presentare ricorso, entro 30 giorni dalla comunicazione del giudizio medico, all’organo di vigilanza territorialmente competente.
Nel caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema corte, l’intimazione del provvedimento espulsivo era intervenuta prima che la commissione sanitaria si fosse pronunciata sull’opposizione del lavoratore al giudizio espresso dal medico competente.
La Cassazione non si è, tuttavia, arrestata a questo accertamento, ma ha rilevato che l’invalidità del licenziamento emergeva anche sotto il profilo del mancato accertamento circa la possibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni disponibili in azienda, compatibili con le sue ridotte condizioni psico-fisiche.
La sentenza conferma che, in presenza di un licenziamento motivato con la inidoneità fisica al lavoro, il datore è chiamato a dimostrare l’impossibilità di utilizzare il dipendente in mansioni equivalenti e in un ambiente compatibile con il suo stato di salute, essendo il medesimo datore tenuto, inoltre, a confutare le allegazioni espresse dal dipendente circa il suo possibile repêchage in altre mansioni nell’ambito della compagine aziendale.
La Suprema Corte ha precisato che, in tale contesto, non costituisce violazione del principio costituzionale di libertà di iniziativa economica la decisione del giudice di dichiarare l’illegittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, se il datore non ha preventivamente valutato la possibilità di assegnare al dipendente mansioni diverse e di pari livello.
Questa conclusione, ad avviso dei giudici, può essere superata unicamente se la riassegnazione del lavoratore ad altre posizioni possa indurre un’alterazione dell’organizzazione aziendale o un trasferimento di altri lavoratori.
In questo caso, come riconosciuto da un consolidato indirizzo, al datore di lavoro non può farsi obbligo di ricollocare il dipendente risultato inidoneo alle specifiche mansioni, atteso che una diversa conclusione comporterebbe una ingerenza sull’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’impresa.
In allegato il testo della commentata sentenza.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

cdg Sentenza n. 4757-2015

Centro di Documentazione Giuridica: Assunzione disabili, gli enti pubblici non autocertificano il proprio esonero, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Gli enti pubblici non possono autocertificare il proprio esonero dal collocamento obbligatorio di disabili.
A precisarlo è il Ministero del Lavoro nell’interpello n. 4/2015, che ha risposto ad un quesito dell’Anci (associazione nazionale comuni italiani) in merito al campo di applicazione dell’art. 5, comma 2, della legge n. 68/1999 (diritto al lavoro dei disabili). La richiamata norma (art. 5), si ricorda, disciplina i casi di esonero del personale dal computo della c.d. quota di riserva (cioè le assunzioni riservate a soggetti disabili); l’ultimo capoverso prevede che “fermo restando l’obbligo del versamento del contributo di cui al comma 3 al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili, per le aziende che occupano addetti impegnati in lavorazioni che comportano il pagamento di un tasso di premio ai fini Inail pari o superiore al 60 per mille, la procedura di esonero prevista dal presente articolo è sostituita da un’autocertificazione del datore di lavoro che attesta l’esclusione dei lavoratori interessati dalla base di computo”.
L’Anci ha chiesto di sapere se quest’ultimo capoverso della norma possa applicarsi anche agli enti pubblici. La risposta del Ministero è stata negativa.
Il Ministero muove dalla lettura dell’art. 5, il quale stabilisce: nella prima parte che i datori di lavoro, sia pubblici che privati, ove operino in determinati settori (trasporto aereo, marittimo o terrestre, edile e degli impianti a fune, autotrasporto e minerario) sono sottratti dall’osservanza degli obblighi di assunzione (di cui all’art. 3), con esclusivo riferimento al personale identificato dalla stessa disposizione; nell’ultimo periodo (prima riportato) che “(…) le aziende che occupano addetti impegnati in lavorazioni che comportano il pagamento di un tasso di premio ai fini Inail (…)”, la procedura di esonero prevista dal presente articolo è sostituita da un’autocertificazione.
Per il Ministero l’ultima previsione non può intendersi riferita agli enti pubblici, perché il dato testuale fa esplicito riferimento alle “aziende” contrariamente a quanto avviene in altre parti dello stesso art. 5 dove il legislatore ha preso espressamente in considerazione i “datori di lavoro privati e gli enti pubblici”.
Segue testo integrale dell’interpello.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

 

cdg ALLEGATO Interpello Ministero Lavoro n. 4-2015

Centro di Documentazione Giuridica: Il reddito della casa di abitazione non incide su quello utile per la concessione degli assegni di invalidità, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

I Giudici della Corte di Cassazione con sentenza della prima sezione civile n.4674 del 17.12.2014, depositata il 9.3.2015, hanno stabilito che non conta il reddito della casa di abitazione ai fini del riconoscimento dell’assegno mensile di invalidità (L. 118/71, art. 13).
Le condizioni economiche richieste per la concessione di provvidenze ai mutilati e agli invalidi civili (in particolare per la pensione di cui all’articolo 12 della legge 118/1971 e l’assegno di cui al successivo articolo 13) sono quelle previste dall’articolo 3 della stessa legge, nella parte in cui tale disposizione ha riscritto, tra l’altro, i primi tre commi dell’art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 in materia di computo dei redditi ai fini dell’erogazione della pensione sociale, indicando espressamente l’esclusione del reddito della casa di abitazione.
E’ questo il principio espresso dalla in materia di concessione di prestazioni di invalidità civile originate da vicende nelle quali non era in contestazione il requisito sanitario, quanto, appunto, il requisito reddituale necessario per l’ammissione al trattamento.
Le prestazioni erogate agli invalidi civili, ai ciechi civili e ai sordomuti, rapportate al loro grado di invalidità, devono infatti tener conto di determinati limiti reddituali (per l’erogazione occorre, che l’interessato non superi i 4.805,19 euro annui), eccetto che nel caso di indennità di accompagnamento per ciechi e invalidi civili, di indennità di comunicazione per i sordomuti e di indennità per i ciechi ventesimisti, per le quali tali limiti non sono contemplati.
Nel caso de quo la Corte, dando torto all’lnps, ha ritenuto che il reddito della casa di abitazione non rappresentasse un onere deducibile o una ritenuta fiscale e che, di conseguenza, il reddito Irpef al lordo non comprendesse il reddito della casa di abitazione. Bisogna dunque fare una distinzione tra il reddito della persona ed il reddito imponibile, che esclude i redditi non tassabili.
Segue il testo integrale della sentenza commentata.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)
CDG Sentenza n. 4674-2015

Centro di Documentazione Giuridica- Breve Vademecum sui permessi retribuiti di cui all’art. 33 della legge 104/1992, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

La principale fonte normativa in tema di permessi lavorativi retribuiti è costituita dalla Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (L. 104/92 così come modificata dalla L. 53/2000, L. 183/2010 e dal d.lgs. 119/2011), la quale, all’art. 33, disciplina le agevolazioni riconosciute ai lavoratori affetti da disabilità grave e ai familiari che assistono una persona con handicap in situazione di gravità.
Considerata l’importanza e l’attualità dell’istituto formuliamo un breve vademecum
Gli aventi diritto
I permessi retribuiti possono essere richiesti al proprio datore di lavoro, pubblico o privato, da:

– disabili con contratto individuale di lavoro dipendente: sono inclusi anche i lavoratori in modalità part-time, sono invece esclusi i lavoratori autonomi e quelli parasubordinati, i lavoratori agricoli a tempo determinato occupati in giornata, i lavoratori a domicilio e quelli addetti ai lavoro domestici e familiari;
– genitori lavoratori dipendenti: madre e/o padre biologici, adottivi o affidatari di figli disabili in situazione di gravità anche non conviventi;
– coniuge lavoratore dipendente: resta attualmente escluso il convivente more uxorio anche se in proposito sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale, da ultimo con ordinanza del 15/09/2014 del Tribunale di Livorno;
– parenti o affini entro il II grado lavoratori dipendenti: figli, nonni, nipoti, fratelli, suoceri, generi, nuore, cognati del soggetto disabile con lui conviventi;
ESTENSIONE DEL  DIRITTO AI PARENTI E AGLI AFFINI DI TERZO GRADO DELLA PERSONA CON DISABILITÀ GRAVE
In tutti i casi sopra esposti, il diritto può essere esteso ai parenti e agli affini di terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità soltanto qualora i genitori o il coniuge della persona in situazione di disabilità grave abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti (L. 183/2010 – circ. 155/2010).
L’espressione “mancanti” deve essere intesa non solo come situazione di assenza naturale e giuridica (celibato o stato di figlio naturale non riconosciuto), ma deve ricomprendere anche ogni altra condizione ad essa giuridicamente assimilabile, continuativa e debitamente certificata dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità, quale: divorzio, separazione legale o abbandono. Si segnala comunque che in caso di separazione legale la giurisprudenza di merito ha, sovente, esteso anche al coniuge non convivente separato il diritto di fruire dei permessi di cui all’art. 33 in quanto in presenza delle condizioni, permane tra i coniugi pur se attenuato l’obbligo di reciproca assistenza morale e materiale di cui all’art.143 c.c. La possibilità di passare dal secondo al terzo grado di assistenza si verifica anche nel caso in cui uno solo dei soggetti menzionati (coniuge, genitore) si trovi nelle descritte situazioni (assenza, decesso, patologie invalidanti).
Frazionabilità ad ore dei 3 permessi giornalieri (msg 15995/07 – msg 16866/2007)
Qualora i permessi giornalieri vengano utilizzati, anche solo parzialmente, frazionandoli in ore opera un limite orario mensile. Tale limite massimo mensile fruibile è uguale all’orario normale di lavoro settimanale diviso il numero dei giorni lavorativi settimanali per 3  (msg 16866/2007).
Cosa spetta
I permessi retribuiti ai sensi della legge 104 si traducono, per il lavoratore disabile, in tre giorni di riposo al mese o, in alternativa, in riposi giornalieri di una o due ore. Per i genitori e i familiari lavoratori, è necessario distinguere in base all’età dell’assistito:
– genitori con figlio disabile di età inferiore ai tre anni: diritto al prolungamento del congedo parentale previsto fino al compimento dell’ottavo anno di vita del figlio, per un periodo massimo di ulteriori tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, ovvero che, in caso di ricovero, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore; tre giorni di permesso mensile fruibili anche alternativamente; riposi orari di una o due ore per giorno a seconda dell’orario di lavoro.
La fruizione dei benefici non è cumulativa;
– genitori con figlio disabile di età compresa tra i tre e gli otto anni: diritto al prolungamento del congedo parentale previsto fino al compimento dell’ottavo anno di vita del figlio, per un periodo massimo di ulteriori tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, ovvero che, in caso di ricovero, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore; tre giorni di permesso mensile fruibili anche alternativamente ma non anche riposi orari;
– genitori, coniuge e parenti di disabile maggiorenne: tre giorni di permesso mensile.
Anche in assenza di una specifica norma sul preavviso, qualora i permessi siano richiesti tempestivamente al datore di lavoro, questi non può legittimamente rifiutarli; il concetto di tempestività dev’essere concretamente determinato avendo riguardo sia per le necessità del lavoratore sia per le necessità tecnico-amministrative del datore di lavoro. Circa la frazionabilità in ore dei permessi giornalieri da parte dei familiari, tuttavia, nel silenzio del legislatore, si deve ritenere che non possa essere accordata nel caso in cui determini problemi di natura organizzativa per l’impresa o l’amministrazione.
Come fare domanda
Per poter beneficiare delle agevolazioni previste dalla legge 104, è necessario presentare specifica domanda sotto forma di autocertificazione da cui risultino le condizioni personali ovvero di quelle del familiare assistito (dati personali; relazione di parentela, affinità o coniugio; stato di handicap). Nel settore pubblico le domande sono esaminate dai dirigenti dell’amministrazione di riferimento. Nel settore privato, invece, è necessario che la disabilità risulti dall’apposito verbale compilato a cura dell’INPS su domanda dell’interessato e previa visita medica di verifica, la richiesta di permesso, inoltre, deve essere trasmessa per mezzo di specifici moduli predisposti. La domanda di permesso retribuito, che deve contenere l’indicazione dello specifico permesso di cui si intende usufruire, ha validità a partire dalla data di presentazione e non scade al termine dell’anno solare, eventuali variazioni delle notizie o delle situazioni autocertificate nel modello di richiesta devono essere comunicate entro trenta giorni.
RETRIBUZIONE E FRUIZIONE DEI PERMESSI – QUANTO SPETTA
*  I permessi  fruiti a giorni saranno indennizzati sulla base della retribuzione effettivamente corrisposta (Circ. 80/95 par. 4);
*  i permessi  fruiti a ore (assimilati ai permessi per allattamento Circ. 162/93 punto 1, 8° capoverso) saranno indennizzati sulla base della retribuzione effettivamente corrisposta;
*  quelli concessi a titolo di prolungamento del congedo parentale fino all’8° anno di vita del bambino saranno indennizzati al 30% della retribuzione effettivamente corrisposta o convenzionale se appartenenti a categorie di lavoratori che hanno diritto all’indennità per congedo parentale sulla base di retribuzioni convenzionali.
Permessi retribuiti e ANF
Durante la fruizione dei permessi retribuiti si ha diritto anche all’assegno per il nucleo familiare(circ. 199/1997)

INDENNITA’ DI MANSIONE
Assenza per permessi 104/1992, art. 33, comma 6: Si premette che i permessi presi dai lavoratori disabili gravi per se stessi sono equiparati alla presenza in servizio in termini di percezione di ogni indennità o emolumento nonché di ogni altro accessorio collegato alla presenza effettiva in attività (differentemente da quanto avviene per coloro che richiedono i permessi per l’assistenza ad un familiare disabile grave). In caso di assenza dal servizio per la fruizione di permessi retribuiti, ad esempio i permessi di cui all’art. 33 della legge n. 104/1992, la Funzione Pubblica, con nota del 27 maggio 1999, Prot. 2207/10.2/15181, ha espresso <…. parere favorevole alla fattispecie concreta>», in ragione della equiparazione della assenza alla presenza in servizio. Il già Ministero per i Beni e le Attività Culturali è dello stesso orientamento, nel senso che <… le assenze tutelate dalla legge n. 104/92, non comportano decurtazione dell’indennità di mansione ex art. 9 l. n. 113/85>. Sulla base di un’interpretazione analogica delle norme, si può pertanto ribadire che, ai fini del pagamento dell’indennità di mansione, <… possono essere calcolati, tra i giorni da valutare come presenze di servizio, oltre ai casi previsti dalla l. n. 113/85, anche quelli dell’art. 33 l. n. 104/92, in quanto rispondenti alla medesima ratio che giustifica i casi di assenza “retribuita” già espressamente contemplati dall’art. 9 l. 113 del 1985>. Sull’argomento è intervenuto anche il Tribunale del Lavoro di Reggio Calabria che, con sentenza 21 marzo 2006, n. 782/2005 R.G.A., ha considerato detta misura indennitaria come <… parte integrante della retribuzione fissa di coloro che versino nelle condizioni di non vedenti e siano centralinisti> e, quindi, <… va da sé che nella retribuzione dovuta in caso di assenze retribuite vada sempre compresa la cd <indennità di mansione>. Ad ogni buon conto, riepiloghiamo  le diverse modalità previste per l’erogazione dell’indennità di mansione che spetta per tutti i giorni di effettivo servizio prestato e non si corrisponde durante i giorni di assenza, fatte salve alcune eccezioni (cfr. circolare n. 84 del Ministero del Tesoro del 4.11.1992):
* assenza per ferie
* assenza per malattia dipendente da causa di servizio
* cure necessarie per infermità contratte in guerra
* assenza per infortunio sul lavoro
* frequenza corsi professionali previsti a livello datoriale
* donatori di sangue
* motivi sindacali
* beneficiari della legge n. 104/1992, art. 33, comma 6
* congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, e congedo di paternità (astensioni obbligatorie)
* assenze per permessi lutto
* assenze dovute alla fruizione di permessi per citazione a testimoniare e per espletamento delle funzioni di giudice popolare
* assenze previste dall’art. 4, comma 1, della legge n. 53/2000

FERIE E TREDICESIMA MENSILITÀ
La quota della 13° mensilità (msg 13032/2005), o altre mensilità aggiuntive, è inclusa nella retribuzione giornaliera da prendere a riferimento per il calcolo dell’indennità e pertanto già corrisposta a carico dell’Istituto. Da parte del datore di lavoro quindi non è dovuta la corresponsione della quota relativa alla gratifica natalizia in quanto già compresa nell’indennità erogata dall’Inps.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

Centro di Documentazione Giuridica: Visite di revisione della disabilità. L’INPS definisce le nuove regole e di fatto diviene referente unico, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

L’l’INPS con la Circolare n.10 del 23 gennaio 2015 ha fissato i criteri operativi delle nuove procedure per l’accertamento e la revisione delle minorazioni civili, stabilite lo scorso anno dalla Legge 114/14.
La Legge 114/14 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari) si era posta l’obiettivo di semplificare le procedure di accertamento e di revisione delle minorazioni civili.
La novità particolarmente rilevante prevista dalla legge riguardava proprio le visite di revisione. Nella normativa previgente, infatti, lo status relativo alla minorazione civile e all’handicap (Legge 104/1992) decadeva in occasione della scadenza dei relativi verbali di accertamento, anche se l’interessato era in attesa di visita di revisione.
A causa dei ritardi “tecnici” di verifica della permanenza dei requisiti sanitari, all’indomani della scadenza eventualmente indicata nel verbale venivano pertanto sospese le provvidenze economiche (pensioni, assegni, indennità), si perdeva il diritto alle agevolazioni lavorative (permessi e congedi) e non si poteva accedere ad altre agevolazioni quali, ad esempio, quelle fiscali finché non fosse stato definito un nuovo verbale di accertamento. Con la Legge 114/14, invece, nel caso in cui sia prevista la rivedibilità, si conservano tutti i diritti acquisiti in materia di benefìci, prestazioni e agevolazioni di qualsiasi natura».
L’INPS ha ora fissato con la propria Circolare (n. 10 del 23 gennaio 2015) i criteri operativi previsti dalla legge.
Le ASL, a cui finora erano affidate le visite di revisione, sono state di fatto estromesse al fine di accorciare i tempi (viene infatti meno il cd. passaggio di verbali dall’ ASL all’ INPS), ma per il cittadino sottoposto a visita significa anche perdere come referente la propria ASL e dover affrontare spostamenti maggiori per raggiungere fisicamente la sede INPS territorialmente competente.
Certamente la modifica comporterà un abbattimento dei costi per le Regioni che non dovranno più sopportare le spese relative agli accertamenti presso le proprie ASL, ma altrettanto certo è che con tale modifica ci si avvia verso una delega pressoché totale della valutazione della disabilità all’Istituto di Previdenza.
In allegato il testo integrale della circolare 10 del 23 gennaio 2015.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

CDG allegato Circolare numero 10 del 23-01-2015

Centro di Documentazione Giurdica: I cassaintegrati possono svolgere volontariato, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Una nuova opportunità per le associazioni del Terzo settore o le Onlus

I cassintegrati potranno essere impegnati in attività di volontariato (“ai fini di utilità sociale, in favore delle proprie comunità”) gestite anche da Onlus o da enti locali.
E’ questa l’opportunità offerta dalla legge 114/2014 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), a cui il ministero del welfare ha dedicato una sezione sul proprio sito www.lavoro.gov.it, con “hastag”, #diamociunamano.
L’iniziativa non solo consentirà ai lavoratori in difficoltà la possibilità sentirsi utili agli altri, mettendo a disposizione le proprie competenze ma offrirà anche alle Onlus nuove opportunità per la concreta realizzazione dei loro servizi grazie al loro impiego in attività di volontariato.
Nella pagina web si trovano tutte le istruzioni per usufruire della chance (modalità per accedervi, illustrazione dei requisiti necessari e possibilità di richiedere informazioni via email, scrivendo all’indirizzo diamociunamano@lavoro.gov.it), nonché due aree specifiche, una che consente ai comuni, alle amministrazioni locali e alle associazioni del terzo settore di registrarsi e inserire i progetti di volontariato, mentre la seconda permette a tutti gli utenti di consultare i progetti attivati.
Il governo ha dato inoltre via libera alla copertura assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali dei beneficiari di ammortizzatori sociali, coinvolti in attività di volontariato e di utilità sociale a favore degli enti locali. Il premio speciale unitario costerà 258 euro su base annua. A stabilirlo il decreto 19 dicembre 2014 del Ministro del Lavoro, che approva la determina n. 351/2014 del presidente dell’Inail.
In pratica chi offrirà il proprio contributo alla collettività potrà contare su una certificazione delle competenze acquisite da sfruttare anche per la ricerca di una nuova opportunità lavorativa.
L’iniziativa si rivolge ai beneficiari di misure di sostegno al reddito, a coloro, cioè, che sono in cig, ai percettori di integrazione salariale e contributo a seguito di stipula di contratti di solidarietà, di indennità di mobilità, di prestazioni legate alla cessazione del rapporto di lavoro, o alla sospensione, o riduzione dell’attività lavorativa, anche a carico dei Fondi di solidarietà, nonché ai destinatari di altre prestazioni di natura assistenziale “finalizzate a rimuovere e superare condizioni di bisogno e di difficoltà della persona” disponibili a svolgere azioni di utilità sociale, nell’ambito di progetti realizzati congiuntamente da organizzazioni del terzo settore ed enti locali; incassata l’adesione, le Onlus possono richiedere all’Inail l’attivazione della copertura assicurativa, finanziata con risorse dell’apposito Fondo nazionale istituito presso il dicastero di via Veneto.
Secondo le stime contenute nella nota ministeriale a questa iniziativa potrebbero arrivare cinque milioni di giornate di volontariato all’anno per i prossimi due anni, soprattutto nell’ambito della tutela dei beni culturali e paesaggistici, quello educativo e quello dell’assistenza socio-assistenziale.
Nella pratica, coloro che ricevono una misura di sostegno al reddito saranno invitati a svolgere un’attività volontaria di utilità sociale in favore della propria comunità di appartenenza. I progetti, che possono essere già in corso di realizzazione o del tutto nuovi, sono proposti e promossi da enti del terzo settore (o anche dai comuni stessi), mentre l’ente locale ha il compito di “convalidarne” l’utilità sociale, dunque di attestare che un determinato progetto porta un beneficio per quella determinata comunità. Le organizzazioni di volontariato e di terzo settore prendono in carico i cittadini, inviano la richiesta di attivazione dell’assicurazione per via telematica all’Inail che risponde attivando la copertura assicurativa in favore del soggetto per il periodo dichiarato.
Il costo dell’assicurazione è a carico di un apposito Fondo istituito al ministero del Lavoro e che può contare su 4 milioni 900 mila euro per ciascuno dei due anni della sperimentazione. Si stima che ad essere coinvolti potranno essere circa 19 mila soggetti all’anno.
Nel sito del ministero ci sarà un’apposita sezione per la registrazione degli enti che vogliono partecipare.

a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

Tripletta di sentenze del Tar Lazio boccia il nuovo Isee 2015, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio ha accolto, in parte tre ricorsi presentati contro il Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) 159/13 e cioè il Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) appena entrato in ore ( lo è dal 1 gennaio u.s.).
Le tre Sentenze (Sezione Prima del TAR del Lazio, n. 2454/15, 2458/15 e n. 2459/15) hanno di fatto modificato parzialmente l’impianto per il calcolo dell’Indicatore della Situazione Reddituale (ISR).
Il TAR, nello specifico, ha accolto soltanto il ricorso sull’illegittimità del regolamento dell’ISEE nella parte in cui considera come reddito disponibile anche i proventi legati alla disabilità (pensione e accompagnamento con la sentenza 2458). E nella sentenza 2459 ha ritenuto illegittima la franchigia prevista per i maggiorenni con disabilità e quella più alta per i minorenni con disabilità.
Riguardo al ricorso conclusosi con la sentenza 2458, la prima sezione del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (Tar) ha accolto infatti solo il sesto dei nove motivi formulati dai ricorrenti.
Il Tar, richiamando i fondamentali principi della Costituzione enunciati negli artt. 3, 32 e 38, dichiara che la pensione di invalidità e le indennità di accompagnamento non devono essere inseriti tra i redditi disponibili. Il loro inserimento, costituirebbe infatti una penalizzazione nei confronti delle fasce sociali più deboli.
Per questo motivo, il nuovo Isee, adottato dopo interminabili lavori parlamentari ed entrato in vigore solo lo scorso 1° gennaio, è stato giudicato illegittimo dal Giudice Amministrativo nelle parti dove è previsto che nel reddito complessivo venga conteggiata anche la pensione e l’indennità ricevuta dal soggetto, accertato disabile.
Come già detto l’accoglimento del Tar è limitato solo una delle istanze presentate, nelle quali si lamentava la vaghezza e indeterminatezza dell’intero provvedimento, la sua approvazione fuori tempo massimo, la presenza di criteri “alternativi” su base regionale, il conteggio sull’intero nucleo familiare anche in caso di ricovero del disabile in strutture residenziali diurne o continuative, l’impossibilità di limitare al nucleo ai soli figli conviventi, l’utilizzo del valore catastale Imu per valutare il patrimonio immobiliare, la mancata previsione di una revisione e un aggiornamento delle franchigie e delle detrazioni.
Il giudice amministrativo ha decretato illegittimo invece solo in parte l’indicatore della situazione economica equivalente e limitatamente a ciò che concerne la valutazione delle condizioni di chi fa richiesta di servizi di pubblica utilità o di prestazioni agevolate.
Infatti, la richiesta è stata accolta nell’ottica di respingere l’errore di includere, come reddito disponibile, l’indennità e la pensione ricevuta dal soggetto che, tuttavia, si trova in una situazione di svantaggio, pure economico, che si allarga impropriamente anche alla sua famiglia.
Segue la motivazione con cui il Tar ha accolto il sesto motivo del ricorso integralmente stralciata dalla sentenza appena commentata.
“Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 d.l. cit. rispetto agli artt. 3, 32 e 38 Cost., ad opinione del Collegio, comporta che la disposizione la quale prevede di “…adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale…valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all’estero…” debba essere nel senso per cui la volontà del legislatore coincideva con la necessità di eliminare precedenti situazioni ove si rappresentavano privi di reddito soggetti in realtà dotati di risorse, anche cospicue, ma non sottoponibili a dichiarazione IRPEF.
A tale scopo possono essere richiamati i redditi prodotti e tassati all’estero (ed ecco il richiamo alla componente patrimoniale sita all’estero di cui all’art. 5 cit.), le pensioni estere non tassate in Italia, i lavoratori di stato estero (Città del Vaticano), i lavoratori frontalieri con franchigia esente IRPEF, il coniuge divorziato che percepisce assegno di mantenimento di figli. Più che da un risparmio di spesa, tale impostazione normativa era orientata a rispettare un principio di uguaglianza e proporzionalità, ai fini del rispetto dell’art. 38 Cost., legato all’”emersione” di situazioni solo apparentemente equivalenti ad assenza di reddito effettivo.
Il d.p.c.m., quindi, per non incorrere nella violazione di legge e nella ancor più diretta violazione delle norme costituzionali sopra richiamate, avrebbe dovuto dare luogo a disposizione orientate in tale senso, approfondendo le situazioni in questione ed aprendo il ventaglio delle possibilità di sottoporre la componente di reddito ai fini ISEE a situazioni di effettiva “ricchezza”.
Con la disposizione di cui all’art. 4, comma 2, lett. f), d.p.c.m. cit., invece, la Presidenza del Consiglio ha disposto che “Il reddito di ciascun componente il nucleo familiare è ottenuto sommando le seguenti componenti…f) trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, laddove non siano già inclusi nel reddito complessivo di cui alla lettera a);”, vale a dire nel reddito complessivo IRPEF.
Ebbene, la genericità e ampiezza del richiamo a trattamenti “assistenziali, previdenziali e indennitari” comporta indubbiamente che nella definizione di “reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l. cit. sono stati considerati tutti i proventi che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie. Non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di “disabilità”, quali le indennità di accompagnamento, le pensioni INPS alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico, gli indennizzi da danno biologico invalidante, di carattere risarcitorio, gli assegni mensili da indennizzo ex ll. nn. 210/92 e 229/05.
Tali somme, e tutte le altre che possono identificarsi a tale titolo, non possono costituire “reddito” in senso lato né possono essere comprensive della nozione di “reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l. cit., che proprio ai fini di revisione dell’ISEE e della tutela della “disabilità”, è stato adottato.
Né può convenirsi con l’osservazione secondo cui tale estensione della nozione di “reddito disponibile” sarebbe in qualche modo temperata o bilanciata dall’introduzione nello stesso d.p.c.m. di deduzioni e detrazioni che ridurrebbero l’indicatore in questione a vantaggio delle persone con disabilità nella nuova disciplina.
Tale tesi non tiene conto dell’effettiva volontà del legislatore, costituzionalmente orientata e tesa a riequilibrare situazioni di carenza fittizia di reddito e non ad introdurre specifiche detrazioni e franchigie su un concetto di “reddito” (impropriamente) allargato.
Non è dimostrato, in sostanza, che le compensazioni di cui allo stesso art. 4 d.p.c.m. siano idonee a mitigare l’ampliamento della base di reddito disponibile introdotta né che le stesse possano essere considerate equivalenti alla funzione sociale cui danno luogo i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche per situazioni di accertata “disabilità”.
Alla luce di quanto detto, quindi, il d.p.c.m. impugnato si palesa illegittimo laddove prevede al richiamato art. 4, comma 2, lett. f), una nozione di “reddito disponibile” eccessivamente allargata e in discrepanza interpretativa con la “ratio” dell’art. 5 d.l. cit. L’Amministrazione dovrà quindi provvedere a rimodulare tale nozione valutando attentamente la funzione sociale di ogni singolo trattamento assistenziale, previdenziale e indennitario e orientandosi anche nell’esaminare situazione di reddito esistente ma, per varie ragioni, non sottoposto a tassazione IRPEF.”
I tre dispositivi del Tar Lazio vanno comunque letti in modo combinato per quel che concerne gli effetti di illegittimità che produrranno sull’ISEE.
Innanzitutto le sentenze determinano l’esclusione dal computo dell’Indicatore della Situazione Reddituale i «trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche» (articolo 4, comma 2 lettera f); ossia tutte le pensioni, assegni, indennità per minorazioni civili, assegni sociali, indennità per invalidità sul lavoro, assegni di cura, contributi vita indipendente ecc.;
e annullano il DPCM 159/13 nella parte in cui prevede un incremento delle franchigie per i soli minorenni (articolo 4, lettera d, nn. 1, 2, 3).
Riguardo il regime delle franchigie va ricordato che il DPCM 159/13 prevede una franchigia forfettaria così differenziata:
1. persone con disabilità media: per ciascuna di esse, una franchigia pari a 4.000 euro, incrementati a 5.500 se minorenni;

2. persone con disabilità grave: per ciascuna di esse, una franchigia pari a 5.500 euro, incrementati a 7.500 se minorenni;

3. persone non autosufficienti: per ciascuna di esse, una franchigia pari a 7.000 euro, incrementati a 9.500 se minorenni.
Poiché il G.A. non è stato esplicito non si può ritenere che le stesse franchigie previste per i minori siano ora da applicare anche ai maggiorenni.
Inoltre nella sentenza 2459 poiché nelle motivazioni, ma non nel dispositivo, si censura la disposizione che prevede che l’opportunità di ricorrere all’ISEE ridotto (personale o proprio e del coniuge) sia riservata ai soli disabili maggiorenni e non invece anche ai minorenni, si crea una evidente disparità di trattamento che solo nuovi interventi potranno ovviare.
Si legge infatti «L’Amministrazione dovrà quindi provvedere a rimodulare tale nozione valutando attentamente la funzione sociale di ogni singolo trattamento assistenziale, previdenziale e indennitario e orientandosi anche nell’esaminare situazione di reddito esistente ma, per varie ragioni, non sottoposto a tassazione IRPEF».
Va inoltre evidenziato che nelle sentenze viene pure dichiarata la liceità di ricorrere al computo dei redditi dei familiari civilmente obbligati, nel caso di anziani ai fini del ricovero in RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali), istituti, case di riposo.

Cosa accadrà ora? Difficile da dire, le possibilità sono sostanzialmente due.
Il Governo dovrà correggere la norma per adeguare il sistema a quanto stabilito dal TAR, a meno che l’Esecutivo non decida di presentare ricorso contro le decisioni. Ma comunque, anche in questo caso, l’esecutività delle sentenze non verrà meno e nella pratica le problematiche maggiori le dovranno affrontare i Comuni e le Regioni. Saranno loro a dover risolvere, concretamente, i problemi che derivati dal mutato scenario in quanto Enti erogatori delle prestazioni sociali agevolate.
In allegato testi integrali delle sentenze commentate.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)
N. 02459/2015 REG.PROV.COLL.
N. 03683/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3683 del 2014, proposto da:
-OMISSIS-, -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore del minore -OMISSIS-, -OMISSIS-, in
proprio e nella qualità di genitore del minore -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore della
minore -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in
proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella
qualità di tutore di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno
di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e
nella qualità di genitore e tutore di -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore del minore
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in
proprio e nella qualità di amministratore di sostegno del marito -OMISSIS-, in proprio e in qualità
di genitore del minore -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di
sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore del minore -OMISSIS-, in proprio e
nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di
genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore e
amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in qualità di amministratore di sostegno del fratello
-OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore del minore -OMISSIS-, in proprio e in qualità di
genitore del minore -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore e amministratore di sostegno di
-OMISSIS-, nonché, giusta procure speciali notarili, da -OMISSIS-, nella qualità di genitore e
amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitore e amministratore di
sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in
proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella
qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore
e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore
di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in
proprio e nella qualità di genitori della figlia minore -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di
genitore e amministratore di sostegno del figlio -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e
amministratore di sostegno di -OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e tutore di
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno del figlio
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno del figlio
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno del figlio
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di genitore e amministratore di sostegno della figlia
-OMISSIS-, in qualità di presidente del consiglio direttivo e legale rappresentante dell’associazione
Strada Facendo Onlus, tutti rappresentati e difesi dall’avv. prof. Federico Sorrentino, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Lungotevere delle Navi, 30; contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano in Roma, Via dei Portoghesi, 12; per l’annullamento del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 159 del 5 dicembre 2013, recante il Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 19 del 24 gennaio 2014, nonché di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenti.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 22 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, comma 8;
Relatore nell’udienza pubblica del 19 novembre 2014 il dott. Ivo Correale e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, i soggetti in epigrafe, tutti disabili medi o gravi o non autosufficienti o loro familiari conviventi -oltre ad Associazione con scopo statutario di tutela dei diritti e interessi delle persone disabili -che percepiscono trattamenti assistenziali, indennitari o assistenziali, ovvero appartengono a nuclei familiari del quale fanno parte disabili che usufruiscono di dette provvidenze, lamentavano le nuove modalità di determinazione dell’ISEE di cui al d.p.c.m. in epigrafe, recante, appunto, il Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione di tale “indicatore”, ai sensi dell’art. 5 d.l. n. 201/2011, conv. in l. n. 214/2011.
In particolare i ricorrenti lamentavano, in sintesi, quanto segue.
“I. Illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 5 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, con riferimento agli artt. 87 e 95 Cost.”.
Riproponendo il “nucleo” dell’art. 5 d.l. cit., i ricorrenti evidenziavano che il regolamento di attuazione ex art. 17, comma 1, l. n. 400/1988 in questione, se poteva derogare alle regole procedimentali di cui all’art. 17 cit., non poteva omettere la previsione della deliberazione del Consiglio dei Ministri né demandare l’emanazione del regolamento stesso ad altri che al Presidente della Repubblica, in quanto è l’art. 87 Cost. – e non l’art. 17 l. n. 400/1988 – ad attribuire solo a tale organo il potere di emanare i regolamenti, potere estraneo alle prerogative del Presidente del Consiglio ai sensi dell’art. 95 Cost.
Se pure si volesse ritenere il dpcm in questione alla stregua di un decreto ministeriale, esso era illegittimo perché non rientra nelle competenze amministrative del Presidente del Consiglio dei Ministri la materia dell’ISEE, propria del Ministro del Lavoro e del Ministro dell’Economia.
“II. Illegittimità dell’art. 4, comma 2, lettera f) del d.P.C.M. n. 159/2013. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni nella legge 22 dicembre 2011, n. 214. Eccesso di potere per irragionevolezza e manifesta
ingiustizia. In via subordinata, illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., dell’art. 5 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni nella legge 22 dicembre 2011, n. 214”
L’art. 5 d.l. cit., nel determinare che si sarebbe dovuta “…adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale”, doveva interpretarsi da parte dell’Autorità emanante nel senso di eliminare le lacune della precedente regolamentazione, ove era considerato privo di reddito chi, pur disponendo di cespiti anche cospicui, non era soggetto a relativa dichiarazione IRPEF (ad es: redditi tassati all’estero, pensioni estere non tassate in Italia, dipendenti stati esteri, quali Città del Vaticano, lavoratori frontalieri con franchigia IRPEF, coniugi divorziati percipienti assegno di mantenimento per i figli), come confermato dal contesto integrale dello stesso art. 5 che prevedeva una maggiore valorizzazione della componente patrimoniale ed il rafforzamento del sistema dei controlli, anche al fine principale del risparmio di spesa mediante sostanziale “emersione” di situazioni di “povertà fittizia”.
In concreto, però, il dpcm in esame era andato oltre le intenzioni del legislatore, includendo tra i redditi tutti i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari a qualunque titolo percepiti, anche in ragione proprio della accertata invalidità.
Quest’ultima costituisce in realtà una oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, e i trattamenti assistenziali previdenziali e indennitari sono tutti volti ad attenuare tale svantaggio, tendendo all’attuazione del principio di uguaglianza, senza alcun intento “speculativo” proprio delle fonti di reddito “ordinario”.
La stessa giurisprudenza consolidata ha evidenziato la natura indennitaria del grave disagio economico ed esistenziale delle indennità di accompagnamento – pure ricomprese ai sensi della richiamata lett. f) – cui possono assimilarsi in tal senso i contributi erogati a titolo di rimborso (sia pure parziale) delle spese per le necessità quotidiane del disabile e del suo nucleo familiare, le pensioni e gli assegni erogati dall’INPS ai disabili in stato di bisogno economico, gli indennizzi INAIL del danno biologico subito nello svolgimento di attività lavorativa (di carattere risarcitorio), gli assegni mensili per indennizzo dei danni da vaccino, emotrasfusioni e da emoderivati.
In via subordinata, quindi, i ricorrenti evidenziavano una questione di costituzionalità per violazione degli artt. 3, commi 1 e 2, e 38 Cost. qualora fosse ritenuta condivisibile l’interpretazione dell’art. 5 cit. sotto il profilo dedotto, non potendo rilevare l’eccezionalità della situazione economica statale contingente ai fini di deroga del principio di uguaglianza.
“III. Illegittimità dell’art. 4, comma 3, lettera c, e comma 4, lettere b), c) e d) del d.P.C.M. n. 159/2013. Eccesso di potere per erroneità dei presupposti, irragionevolezza e manifesta ingiustizia”.
Le detrazioni e le franchigie previste dalla norma in rubrica non erano comunque sufficienti a garantire uno standard di vita accettabile.
Il riferimento alla necessità di presenza di tali spese nella dichiarazione dei redditi IRPEF non considerava la possibilità di esenzione dalla dichiarazione in questione o di avvalimento di regimi fiscali agevolati che non consentono deduzioni o detrazioni di spese mediche e sanitarie.
Se è pure prevista la possibilità di presentare comunque tale dichiarazione, i ricorrenti evidenziavano che, per il primo anno di entrata in vigore del nuovo ISEE, era probabile la mancata conservazione della documentazione a comprova delle spese in tal senso sostenute e che, per gli anni successivi, si dava comunque luogo ad un adempimento fiscale vessatorio, cui il contribuente in linea generale non era tenuto.
Inoltre, il tetto massimo di euro 5.000,00 per le spese mediche e sanitarie era troppo basso in ipotesi di presenza di malattie gravi con necessità di terapie continue, spesso non rimborsate dal SSN, e/o di assistenza infermieristica a domicilio.
Irrazionale era poi la possibilità di sottrarre per i disabili gravi non autosufficienti le spese sostenute inclusive dei contributi INPS versati per collaboratori domestici e addetti all’assistenza personale solo fino all’ammontare dei trattamenti assistenziali, indennitari o previdenziali percepiti a qualsiasi titolo, al netto di una franchigia del 20% (max 1.000,00 euro), perché discriminatoria nei confronti dei disabili che ricevono minori sussidi pur avendo disabilità gravissime e che risiedono in regioni e comuni eroganti provvidenze minori rispetto ad alte realtà territoriali a parità di disabilità.
Analoga considerazione i ricorrenti proponevano per le franchigie introdotte, chiaramente insufficienti e non consideranti la realtà dei costi effettivi che i disabile e le loro famiglie devono sostenere.
Irrazionali erano infine, la differenziazione delle franchigie in esame, di cui alla lett. d), tra disabili minorenni e maggiorenni, come se al compimento della maggiore età si desse luogo ad una automatica diminuzione di spese connesse alla situazione di invalidità, nonché la mancata previsione di una indicizzazione delle spese e delle franchigie stesse.
“IV. Illegittimità dell’art. 6, comma 3, del d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159”.
La normativa in questione presupponeva erroneamente l’esistenza di un obbligo generalizzato dei figli di integrare i redditi dei genitori versando loro una quota della loro ricchezza, obbligo che però non è previsto dall’ordinamento se non per i genitori in stato di bisogno e non in grado di provvedere al proprio mantenimento (obbligo alimentare) che espressamente lo richiedono.
Pure incoerente si palesava, infine, la previsione per la quale la norma ritiene che il figlio corrisponda al genitore non la somma ai sensi dell’art. 438 c.c. ma una quota del suo reddito determinata con le modalità previste dall’Allegato 2 al decreto, quota che può essere maggiore dello stesso assegno alimentare. Inoltre, mentre al reddito del disabile che intende usufruire delle prestazioni di cui all’art. 6 dpcm cit. viene aggiunta la quota qui contestata, relativa alla presenza di eventuali figli maggiorenni facenti parte di un diverso nucleo familiare, questi ultimi non possono giovarsi invece della corrispondente detrazione ai fini del calcolo del proprio ISEE.
Si costituivano in giudizio le Amministrazioni in epigrafe, illustrando le proprie tesi, orientate alla reiezione del ricorso, in nota allegata. In successiva memoria per l’udienza pubblica le Amministrazioni costituite evidenziavano preliminarmente anche l’inammissibilità del ricorso per carenza di lesione effettiva, in assenza di atto applicativo delle norme regolamentari contestate, e per carenza di interesse al ricorso al momento della proposizione in quanto il nuovo ISEE sarebbe diventato operativo entro trenta giorni dall’approvazione del modello DSU, a sua volta da adottare entro novanta giorni dall’entrata in vigore dell’impugnato dpcm avvenuta in data 8 febbraio 2014.
In prossimità della pubblica udienza anche i ricorrenti depositavano un’ulteriore memoria illustrativa delle proprie ragioni.
In data 19 novembre 2014 la causa era trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il Collegio, preliminarmente, non rileva l’inammissibilità del ricorso sotto i profili dedotti dall’Amministrazione resistente, in quanto il d.p.c.m. impugnato, pur quale atto generale, contiene determinazioni precettive direttamente applicabili ai fini del lamentato innalzamento dell’ISEE sotto i profili dedotti dai ricorrenti e anche ai fini delle conseguenze indirette subito percepibili in campo sociale.
Passando all’esame del ricorso, il Collegio rileva l’infondatezza del primo motivo.
Sul punto concorda, infatti, con le tesi delle Amministrazioni resistenti, evidenziando la natura regolamentare del d.p.c.m. impugnato, come riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 297/12 che ha esaminato proprio l’art. 5 d.l. n. 201/77, conv. in l. n. 214/11, sia pure sotto diverso profilo.
Inoltre, si richiama anche la pronuncia della Sezione Consultiva Atti Normativi del Consiglio di Stato (n. 5486/12) su tale decreto, ove è evidenziata come legittima la scelta di adottare un unico regolamento con la forma del d.p.c.m., in virtù della previsione anche del sistema di rafforzamento dei controlli di cui all’art. 5 d.l. cit. da demandare a separato d.m. rispetto alla riforma dell’indicatore e dei suoi campi di applicazione. Il d.p.c.m. e il d.m. costituiscono fonti di rango “pari ordinato” e il primo si distingue, inoltre, per le maggiori garanzie date dall’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri oltre ai Ministri proponenti e/o concertanti, nel caso di specie coincidenti, evitando anche vuoti normativi connessi all’effetto abrogativo di precedente disciplina a anche di rango primario.
Il secondo motivo di ricorso si palesa invece fondato.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 d.l. cit. rispetto agli artt. 3, 32 e 38 Cost., ad opinione del Collegio, comporta che la disposizione la quale prevede di “…adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale…valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all’estero…” debba essere nel senso prospettato dai ricorrenti. La volontà del legislatore
coincideva con la necessità di eliminare precedenti situazioni ove si rappresentavano privi di reddito soggetti in realtà dotati di risorse, anche cospicue, ma non sottoponibili a dichiarazione IRPEF.
Correttamente i ricorrenti richiamano i redditi prodotti e tassati all’estero (ed ecco il richiamo alla componente patrimoniale sita all’estero di cui all’art. 5 cit.), le pensioni estere non tassate in Italia, i lavoratori di stato estero (Città del Vaticano), i lavoratori frontalieri con franchigia esente IRPEF, il coniuge divorziato che percepisce assegno di mantenimento di figli.
Più che da un risparmio di spesa – come osservato criticamente dall’Amministrazione resistente secondo l’osservazione dei ricorrenti – il Collegio ritiene che tale impostazione normativa era orientata a rispettare un principio di uguaglianza e proporzionalità, ai fini del rispetto dell’art. 38 Cost., legata all’”emersione” di situazioni solo apparentemente equivalenti ad assenza di reddito effettivo.
Il d.p.c.m., quindi, per non incorrere nella violazione di legge e nella ancor più diretta violazione delle norme costituzionali sopra richiamate avrebbe dovuto dare luogo a disposizione orientate in tale senso, approfondendo le situazioni in questione ed aprendo il ventaglio delle possibilità di sottoporre la componente di reddito ai fini ISEE a situazioni di effettiva “ricchezza”.
Con la disposizione di cui all’art. 4, comma 2, lett. f), d.p.c.m. cit., invece, la Presidenza del Consiglio ha disposto che “Il reddito di ciascun componente il nucleo familiare è ottenuto sommando le seguenti componenti…f) trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, laddove non siano già inclusi nel reddito complessivo di cui alla lettera a);”, vale a dire nel reddito complessivo IRPEF.
Ebbene, la genericità e ampiezza del richiamo a trattamenti “assistenziali, previdenziali e indennitari” comporta indubbiamente che nella definizione di “reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l. cit. sono stati considerati tutti i proventi che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie.
Non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di “disabilità”, quali, le indennità di accompagnamento, le pensioni INPS alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico, gli indennizzi da danno biologico invalidante, di carattere risarcitorio, gli assegni mensili da indennizzo ex ll. nn. 210/92 e 229/05.
Tali somme, e tutte le altre che possono identificarsi a tale titolo, non possono costituire “reddito” in senso lato né possono essere comprensive della nozione di “reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l. cit., che proprio ai fini di revisione dell’ISEE e della tutela della “disabilità” è stato adottato.
Né può convenirsi sul punto con le difese delle Amministrazioni costituite, secondo cui tale estensione della nozione di “reddito disponibile”, di cui non si nega l’esistenza nel d.p.c.m., sarebbe in qualche modo temperata o bilanciata dall’introduzione nello stesso d.p.c.m. di deduzioni e detrazioni che “in gran parte dei casi” ridurrebbero l’indicatore in questione a vantaggio delle persone con disabilità nella nuova disciplina.
In primo luogo, il riferimento alla “gran parte dei casi”, attesta che ciò non avviene in tutti i casi e tale conclusione, per un atto normativo di carattere generale, non appare razionale.
In secondo luogo, manca completamente il richiamo e l’approfondimento sull’effettiva volontà del legislatore, tesa a riequilibrare situazioni di carenza fittizia di reddito e non ad introdurre specifiche
detrazioni e franchigie su un concetto di “reddito” (impropriamente) allargato.
Non è dimostrato, in sostanza, che le compensazioni di cui allo stesso art. 4 dp.c.m. siano idonee a mitigare l’ampliamento della base di reddito disponibile introdotta né che le stesse possano essere considerate equivalenti alla funzione sociale cui danno luogo i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche per situazioni di accertata “disabilità”.
Alla luce di quanto detto, quindi, il d.p.c.m. impugnato si palesa illegittimo laddove prevede al richiamato art. 4, comma 2, lett. f), una nozione di “reddito disponibile” eccessivamente allargata e in discrepanza interpretativa con la “ratio” dell’art. 5 d.l. cit.
L’Amministrazione dovrà quindi provvedere a rimodulare tale nozione valutando attentamente la funzione sociale di ogni singolo trattamento assistenziale, previdenziale e indennitario e orientandosi anche nell’esaminare situazione di reddito esistente ma, per varie ragioni, non sottoposto a tassazione IRPEF.
Per completezza espositiva e poiché gli ulteriori motivi riguardavano diverse determinazioni del d,p.c.m. in questione, il Collegio deve esaminare anche la restante parte del gravame.
Infondato solo in parte è il terzo motivo di ricorso.
il Collegio rileva che la disposizione di cui all’art. 4, comma 3, lett. c), d.p.c.m. cit. – sotto il primo profilo dedotto dai ricorrenti – non appare illegittima.
In primo luogo, l’affermazione per cui le detrazioni e le franchigie previste dalla norma in rubrica non sarebbero comunque sufficienti a garantire uno standard di vita accettabile appare generica e indimostrata per ciascuno dei ricorrenti.
Per quel che riguarda le detrazioni fiscali, il Collegio osserva che, come è noto, la dichiarazione dei redditi “forfetaria” non impedisce comunque la presentazione di una dichiarazione “integrale” e/o di allegare la documentazione di spesa sanitaria.
E’ una scelta del contribuente quella di provvedere alla prima forma, per cui ben può in futuro essere necessaria la dichiarazione nella seconda forma ai fini di ottenere le detrazioni previste.
Analogamente, la previsione di un tetto massimo di detrazione, se correlata alla rideterminazione del reddito secondo i parametri evidenziati nell’esaminare il secondo motivo di ricorso, non appare illogica o penalizzante nel senso prospettato dai ricorrenti, in quanto la stessa Amministrazione, nella nota allegata in atti, chiarisce che il limite massimo previsto va applicato a ciascuna persona del nucleo che detrae, quale sottrazione al suo reddito personale, mentre in precedenza nessuna detrazione di spesa per la “disabilità” era prevista, con la conseguenza che tale conformazione è coerente con la disposizione legislativa di cui all’art. 5 d.l. n. 201/11 cit., secondo cui con il d.p.c.m. sono individuate le agevolazioni fiscali che a partire dal 1 gennaio 2013 non possono più essere riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia individuata con il decreto stesso.
Profili di fondatezza si rinvengono invece per la residua parte del motivo.
Non è dato comprendere, infatti, per quale ragione le detrazioni previste all’art. 4, comma 4, lett. d), nn. 1), 2) e 3), siano incrementate per i minorenni, non individuandosi una ragione per la quale
al compimento della maggiore età, una persona con disabilità, sostenga automaticamente minori spese ed essa correlate. Né è convincente sotto tale profilo la tesi della difesa erariale, secondo cui i minori con disabilità non possono costituire nucleo a sé, gravando l’obbligo del mantenimento in capo ai genitori, e per i maggiorenni è relativamente più facile ridurre sostanzialmente l’ISEE, se non azzerarlo, potendosi non considerare il reddito dei genitori.
Tale conclusione non appare sostenuta da elementi specifici, almeno statistici, che dimostrino il grado di incidenza sulla popolazione dei disabili dei maggiorenni costituenti “nucleo a sé” rispetto a quelli che non possono farlo mentre il decreto impugnato, per le sue caratteristiche di generalità e astrattezza, impone direttamente e indistintamente la detrazione considerata, senza legarla alla effettiva situazione familiare del disabile maggiorenne.
Sotto tale profilo, quindi, le norme di cui ai richiamati nn. 1), 2) e 3) devono essere annullate per la parte in cui introducono una indistinta differenziazione tra disabili maggiorenni e minorenni, consentendo un incremento di franchigia solo per quest’ultimi, senza considerare l’effettiva situazione familiare del disabile maggiorenne.
L’Amministrazione dovrà quindi provvedere a rimodulare anche tale disposizione nel senso ora evidenziato.
Infondato è infine il quarto motivo di ricorso.
Il Collegio trova condivisibili le tesi dell’Amministrazione, secondo cui la previsione dell’art. 6, comma 3, d.p.c.m. cit. tutela la necessità di differenziare la condizione economica del beneficiario che ha figli in grado di aiutarlo, se tenuti alla corresponsione di alimenti e secondo i propri carichi familiari diretti, rispetto a quella di coloro che non hanno alcun sostegno al fine delle spese di ricovero. Il limite alle sole prestazioni residenziali è poi coerente con i principi propri della giurisprudenza più recente (C. Cost. n. 296/12 e Cons. Stato, 14.1.14, n. 99), secondo cui in sostanza, la normativa di riferimento “…individua l’insieme dei soggetti cui sono posti i doveri di solidarietà e di assistenza verso il disabile, connessi ai restanti compiti propri del nucleo familiare di appartenenza, dal momento che, come la Corte costituzionale ha sottolineato nella sentenza n. 296 del 19.12.2012, la previsione di una compartecipazione ai costi delle prestazioni di tipo residenziale, da parte dei familiari, può costituire un incentivo indiretto che contribuisce a favorire la permanenza dell’anziano presso il nucleo familiare ed è, comunque, espressiva di un dovere di solidarietà che, prima ancora che sulla collettività, grava anzitutto sui prossimi congiunti”.
C’è da osservare, infine, che anche nel precedente regime non vi era una considerazione del reddito del solo “assistito” per tutte le spese ma solo per quelle per prestazioni sociali agevolate assicurate nell’ambito di percorsi integrati di natura sociosanitaria e che la definizione di “prestazioni agevolate di natura sociosanitaria” di cui all’art. 1, comma 1, lett. f), d.p.c.m. cit. può includere anche prestazioni strumentali e accessorie oltre che interventi economici.
Per quanto dedotto, quindi, il ricorso deve essere accolto solo in parte.
Le spese del giudizio possono eccezionalmente compensarsi per la novità della fattispecie.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla l’art. 4, comma 2, lett. f), e comma 4, lett. d), n. 1), 2) e 3) -nella parte in cui prevedono indistintamente un incremento delle franchigie per i soli minorenni -del d.p.c.m. n. 159/2013 impugnato. Salve ulteriori determinazioni dell’Amministrazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti ricorrenti e dei soggetti di cui si dichiarano genitori, tutori o amministratori di sostegno o di persone comunque citate nel provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 19 novembre 2014 con l’intervento dei magistrati:
Raffaello Sestini, Presidente FF
Anna Bottiglieri, Consigliere
Ivo Correale, Consigliere, Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/02/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

02454/2015 REG.PROV.COLL.

N. 05119/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5119 del 2014, proposto da:
-OMISSIS-, in proprio e in qualità di presidente dell’Associazione Coordinamento Sociosanitario
per le Persone con Disabilità, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, quale amministratore di
sostegno di -OMISSIS-, quale tutore di -OMISSIS-e in qualità di presidente di Arpa Associazione
Italiana Ricerca Psicosi e Autismo, -OMISSIS-, in qualità di tutore di -OMISSIS-, in qualità di
genitore del minore -OMISSIS-in qualità di amministratore di sostegno di -OMISSIS-e di
presidente dell’Associazione “Il Vento Sulla Vela Onlus”, -OMISSIS-, in qualità di amministratore
di sostegno di -OMISSIS-, nella qualità di presidente dell’Associazione Co.Fa.As. Clelia,
-OMISSIS-, nella qualità di genitore di -OMISSIS-, nella qualità di madre di -OMISSIS-, nella
qualità di padre -OMISSIS-, nella qualità di madre di -OMISSIS-, nella qualità di amministratore di
sostegno di -OMISSIS-, nella qualità di amministratore di sostegno di -OMISSIS-, nella qualità di
madre di -OMISSIS-, nella qualità di padre di -OMISSIS-, nella qualità di tutore di -OMISSISnonché
di presidente dell’Ente Morale Istituto -OMISSIS-, nella qualità di zio di -OMISSIS-, nella
qualità di madre di -OMISSIS-, nella qualità di padre di di -OMISSIS-, nella qualità di padre di
-OMISSIS-in qualità di presidente di ODV La Lampada dei Desideri, -OMISSIS-, nella qualità di
amministratore di sostegno di -OMISSIS-, nella qualità di presidente di ODV -OMISSIS-, nella
qualità di tutore di -OMISSIS-, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Liliana -OMISSIS-, con
domicilio eletto presso i medesimi in Roma, Piazzale delle Belle Arti, 1;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Ministero
dell’Economia e Finanze, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato,
presso cui domiciliano in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per l’annullamento
del d.p.c.m. 05/12/2013 n. 159 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale serie generale n. 19 del
24.01.2014 avente ad oggetto: “Regolamento concernente la revisione delle modalità di
determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente
(ISEE)” con particolare riferimento all’art. 4, comma 2, lett. f), all’art. 4, comma 3, lett. c); all’art.
5, comma 2; all’art. 6; all’art. 2, comma 1, all’art. 2, comma 2, all’art. 3 nonché di qualsiasi atro atto
presupposto connesso o comunque consequenziale.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero dell’Economia, con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 22 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, comma 8;
Relatore nell’udienza pubblica del 19 novembre 2014 il dott. Ivo Correale e uditi per le parti i
difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, i soggetti in epigrafe – tutti
associazioni specificamente costituite e operanti per il riconoscimento e la tutela dei diritti dei
disabili nonchè persone fisiche con disabilità ovvero genitori o tutori o amministratori di persone
con disabilità ovvero ancora genitori conviventi di persone maggiorenni con disabilità evidenziavano
che, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 5 d.l. n. 201/2011 (recante “Introduzione
dell’ISEE per la concessione di agevolazioni fiscali e benefici assistenziali, con destinazione dei
relativi risparmi a favore delle famiglie), era emanato il d.p.c.m. n. 159/2013 che dava luogo ad una
nuova regolamentazione complessiva del c.d. “ISEE” (Indicatore della situazione economica
equivalente.
Soffermandosi sull’art. 4, comma 2, lett. f), e comma 3, lett. c), nonché sugli artt. 5, comma 2, 6, 2,
comma 1 e comma 2, e 3 del d.p.c.m. cit., i soggetti in epigrafe lamentavano che le nuove modalità
di calcolo dell’ISEE si traducevano in un ingiusto svantaggio ai danni dei disabili e delle famiglie in
cui era presente una persona con disabilità e quindi, in sintesi, deducevano quanto segue.
“I. Illegittimità dell’art. 4 comma 2 lett. f) (che include nel reddito disponibile le provvidenze
pubbliche per i disabili) per violazione e falsa applicazione dell’art. 5 comma 2 della legge
214/2012 nonchè dei principi costituzionali degli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost. e della Convenzione delle
Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13.12.2006 ratificata con la legge 18/2009.
Eccesso di potere per illogicità manifesta, disparità di trattamento, manifesta ingiustizia”.
Il d.p.c.m. in questione, nella disposizione in rubrica, prevedeva che dovevano essere considerate
componenti del reddito disponibile anche i “trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari,
incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, laddove non
siano già inclusi nel reddito complessivo di cui alla lett. a) (reddito complessivo ai fini IRPEF).
Risultavano considerati a tali fini, quindi, anche tutte le provvidenze economiche per prestazioni
sociali e sociosanitarie agevolate concesse ai disabili al mero fine di recuperare lo svantaggio in cui
si trovano e per assicurare la realizzazione di diritti costituzionalmente riconosciuti. Ciò creava un
evidente ulteriore svantaggio per le famiglie già gravate dalla presenza di persone con disabilità e si
poneva in contraddizione con la natura di tali provvidenze, svolgenti funzione non di incremento
del reddito ma di contrappeso allo stato di bisogno e allo svantaggio sociale, senza tradursi in un
arricchimento del nucleo familiare ma avendo destinazione di ausilio e compensazione al fine di
ottenere prestazioni sociali o agevolazioni fiscali collegate.
Per i disabili e le loro famiglie, quindi, veder dipendere il proprio diritto all’accesso alle prestazioni
sociali o il livello di compartecipazione al costo delle indennità già concesse per la disabilità stessa
equivaleva a dare ingresso nell’ordinamento ad un ingiusto limite a tale accesso, con violazione dei
principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost.
Tale conclusione contrastava con la stessa legge n. 214/2012, che stabiliva di tenere conto dei
disabili a carico delle famiglie ma con l’intento di agevolarle e non di svantaggiarle, e con l’art. 4
della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
“II. Illegittimità dell’art. 4 comma 3 lett. c) del dpcm 159/2009 (che fissa un limite massimo di
detrazione delle spese sanitarie documentate per i disabili) per i medesimi vizi dedotti sub I”

La disposizione in esame era illegittima perché consentiva la detrazione dall’ammontare del reddito
utile ai fini ISEE delle specifiche spese indicate solo se evidenziate nella dichiarazione dei redditi,
senza considerare però che nelle dichiarazioni “forfetarie”non è prevista la specifica indicazione
delle spese detraibili.
In secondo luogo, essa era anche illegittima laddove fissava un tetto massimo (euro 5.000,00) per
tale tipologia di detrazione, non considerando che la quota ulteriore andava ad incrementare il
reddito pur se fondata su spese necessarie per assicurare i diritti fondamentali e incomprimibili a
tutela della disabilità.
“III. Illegittimità dell’art. 5 comma 2 del dpcm 159/2009 (che conteggia nel patrimonio
immobiliare anche la prima casa in base alla rendita catastale) per i medesimi profili dedotti sub I”
La norma in questione, richiamando il valore dei fabbricati definiti ai fini IMU, non teneva conto
della disomogeneità sul territorio nazionale, con conseguente incisione sull’accesso alle prestazioni
sociali e sul livello di contribuzione.
“IV, Illegittimità dell’art. 6 del dpcm 159/2009 (che ai fini delle prestazioni socio-assistenziali
considera solo il maggiorenne disabile non coniugato come nucleo familiare a se stante) per i
medesimi profili dedotti sub I”
Definendo il “nucleo familiare” come quello corrispondente alla famiglia anagrafica alla data di
presentazione della DSU, la norma in rubrica estendeva illogicamente la nozione a tutti coloro che
coabitano in quanto parenti, affini ovvero legati da vincoli di mutua assistenza, comprendendo
anche i coniugi non conviventi (salvo separazione giudiziale, esclusione di potestà sui figli,
domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio) ed i figli maggiorenni non conviventi ma
a carico dei genitori a fini IRPEF e sottraendo solo i disabili maggiorenni per le sole prestazioni
sociali agevolate di natura socio sanitaria.
Si creava così un indubbio svantaggio per il disabile coniugato con figli rispetto al disabile
maggiorenne convivente con i genitori e che non abbia famiglia propria.
Risultava così scoraggiato il diritto a formare una famiglia, tutelato dall’art. 23 della Convenzione
ONU, e si creava anche disparità tra soggetti con la medesima disabilità maggiorenni o minorenni
in quanto questi ultimi vedevano conteggiato ai fini ISEE anche il reddito dei genitori pur non
conviventi, rischiando di non accedere alle prestazioni di cui necessitano.
Sotto altro profilo, emergeva l’illegittimità dell’art. 6 cit. laddove sottraeva dal “nucleo familiare
allargato” i disabili maggiorenni esclusivamente per le prestazioni socio sanitarie agevolate e non
anche per le altre prestazioni sociali, laddove la precedente legislazione considerava il reddito del
solo assistito e non dell’intero nucleo familiare e tutelava il peso che gravava su quest’ultimo per
tutte le attività di assistenza alla disabilità.
La diversa valutazione di cui al d.p.c.m. impugnato, quindi, introducendo il principio per cui il
calcolo dell’ISEE si applica non più al reddito del solo beneficiario ma a quello dell’intero nucleo
familiare si pone in violazione degli artt. 2, 3 e 38 Cost.
“V. Illegittimità dell’art. 2 comma 1 del dpcm 159/2009 (che attribuisce agli enti erogatori la
facoltà di introdurre ulteriori criteri di concessione delle prestazioni sociali) per i medesimi profili
dedotti sub I”
La norma in rubrica era illegittima laddove prevedeva la possibilità per gli enti erogatori di
prevedere, accanto all’ISEE, ulteriori criteri di selezione volti ad identificare specifiche platee di
beneficiari, con potenziale rischio di disparità tra vari Comuni nonchè violazione della l. n. 214/11,
che prevede il solo ISEE come strumento di misurazione dell’accesso alle prestazioni sociali, e
dell’art. 117 Cost.
“VI. Questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 214/2011 di conversione del
decreto-legge 201/2011”.
I ricorrenti evidenziavano che la norma in rubrica aveva mancato di tenere nella dovuta
considerazione il diritto delle persone con disabilità non autosufficienti ad avere servizi
sociosanitari adeguati ad assicurare loro pari opportunità di vita, come sancito dagli artt. 2, 3, 32 e
38 Cost., violando anche gli obblighi assunti dall’Italia con l’adesione alla Convenzione ONU
ratificata con la l. n. 18/2009, con conseguente violazione anche dell’art. 10, comma 1, Cost. in
relazione alla mancata individuazione di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati, dato
che i diritti dei disabili sono ora considerati non più indipendentemente dal nucleo familiare di
appartenenza.
Si costituivano in giudizio le Amministrazioni in epigrafe, illustrando le proprie tesi, orientate alla
reiezione del ricorso, in nota allegata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in cui era
evidenziata preliminarmente anche l’inammissibilità del ricorso per carenza di lesione effettiva, in
assenza di atto applicativo delle norme regolamentari contestate, e per carenza di interesse al ricorso
al momento della proposizione, in quanto il nuovo ISEE sarebbe diventato operativo entro trenta
giorni dall’approvazione del modello DSU, a sua volta da adottare entro novanta giorni dall’entrata
in vigore dell’impugnato dpcm avvenuta in data 8 febbraio 2014.
In prossimità della pubblica udienza i ricorrenti depositavano memoria illustrativa delle proprie
ragioni.
In data 19 novembre 2014 la causa era trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il Collegio, preliminarmente, non rileva l’inammissibilità del ricorso sotto i profili dedotti
dall’Amministrazione resistente, in quanto il d.p.c.m. impugnato, pur quale atto generale, contiene
determinazioni precettive direttamente applicabili ai fini del lamentato innalzamento dell’ISEE
sotto i profili dedotti dai ricorrenti e anche ai fini delle conseguenze indirette subito percepibili in
campo sociale.
Il Collegio rileva la fondatezza del primo motivo di ricorso.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 d.l. cit. rispetto agli artt. 3, 32 e 38 Cost.,
ad opinione del Collegio, comporta che la disposizione la quale prevede di “…adottare una
definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da
imposizione fiscale…valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia
sia all’estero…” debba essere nel senso per cui la volontà del legislatore coincideva con la necessità
di eliminare precedenti situazioni ove si rappresentavano privi di reddito soggetti in realtà dotati di
risorse, anche cospicue, ma non sottoponibili a dichiarazione IRPEF.
A tale scopo possono essere richiamati i redditi prodotti e tassati all’estero (ed ecco il richiamo alla
componente patrimoniale sita all’estero di cui all’art. 5 cit.), le pensioni estere non tassate in Italia, i
lavoratori di stato estero (Città del Vaticano), i lavoratori frontalieri con franchigia esente IRPEF, il
coniuge divorziato che percepisce assegno di mantenimento di figli.
Più che da un risparmio di spesa, tale impostazione normativa era orientata a rispettare un principio
di uguaglianza e proporzionalità, ai fini del rispetto dell’art. 38 Cost., legato all’”emersione” di
situazioni solo apparentemente equivalenti ad assenza di reddito effettivo.
Il d.p.c.m., quindi, per non incorrere nella violazione di legge e nella ancor più diretta violazione
delle norme costituzionali sopra richiamate avrebbe dovuto dare luogo a disposizione orientate in
tale senso, approfondendo le situazioni in questione ed aprendo il ventaglio delle possibilità di
sottoporre la componente di reddito ai fini ISEE a situazioni di effettiva “ricchezza”.
Con la disposizione di cui all’art. 4, comma 2, lett. f), d.p.c.m. cit., invece, la Presidenza del
Consiglio ha disposto che “Il reddito di ciascun componente il nucleo familiare è ottenuto
sommando le seguenti componenti…f) trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse
carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, laddove non siano già
inclusi nel reddito complessivo di cui alla lettera a);”, vale a dire nel reddito complessivo IRPEF.
Ebbene, la genericità e ampiezza del richiamo a trattamenti “assistenziali, previdenziali e
indennitari” comporta indubbiamente che nella definizione di “reddito disponibile” di cui all’art. 5

d.l. cit. sono stati considerati tutti i proventi che l’ordinamento pone a compensazione della
oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie.
Non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che dovrebbe riferirsi a
incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento,
sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o
risarcitorio a favore delle situazioni di “disabilità”, quali le indennità di accompagnamento, le
pensioni INPS alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico, gli indennizzi da
danno biologico invalidante, di carattere risarcitorio, gli assegni mensili da indennizzo ex ll. nn.
210/92 e 229/05.
Tali somme, e tutte le altre che possono identificarsi a tale titolo, non possono costituire “reddito” in
senso lato né possono essere comprensive della nozione di “reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l.
cit., che proprio ai fini di revisione dell’ISEE e della tutela della “disabilità”, è stato adottato.
Né può convenirsi con l’osservazione secondo cui tale estensione della nozione di “reddito
disponibile” sarebbe in qualche modo temperata o bilanciata dall’introduzione nello stesso d.p.c.m.
di deduzioni e detrazioni che ridurrebbero l’indicatore in questione a vantaggio delle persone con
disabilità nella nuova disciplina.
Tale tesi non tiene conto dell’effettiva volontà del legislatore, costituzionalmente orientata e tesa a
riequilibrare situazioni di carenza fittizia di reddito e non ad introdurre specifiche detrazioni e
franchigie su un concetto di “reddito” (impropriamente) allargato.
Non è dimostrato, in sostanza, che le compensazioni di cui allo stesso art. 4 dp.c.m. siano idonee a mitigare l’ampliamento della base di reddito disponibile introdotta né che le stesse possano essere
considerate equivalenti alla funzione sociale cui danno luogo i trattamenti assistenziali,
previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni
pubbliche per situazioni di accertata “disabilità”.
Alla luce di quanto detto, quindi, il d.p.c.m. impugnato si palesa illegittimo laddove prevede al
richiamato art. 4, comma 2, lett. f), una nozione di “reddito disponibile” eccessivamente allargata e
in discrepanza interpretativa con la “ratio” dell’art. 5 d.l. cit.
L’Amministrazione dovrà quindi provvedere a rimodulare tale nozione valutando attentamente la
funzione sociale di ogni singolo trattamento assistenziale, previdenziale e indennitario e
orientandosi anche nell’esaminare situazione di reddito esistente ma, per varie ragioni, non
sottoposto a tassazione IRPEF.
Per completezza di esposizione e poiché gli ulteriori motivi riguardavano diverse determinazioni del
d,p.c.m. in questione, il Collegio deve esaminare anche la restante parte del gravame.
Per quel che riguarda il secondo motivo, il Collegio rileva che la disposizione di cui all’art. 4,
comma 3, lett. c), d.p.c.m. cit. – sotto il primo profilo dedotto dai ricorrenti – non appare illegittima.
Come è noto la dichiarazione dei redditi “forfetaria” non impedisce comunque la presentazione di
una dichiarazione “integrale” e/o di allegare la documentazione di spesa sanitaria.
E’ una scelta del contribuente quella di provvedere alla prima forma, per cui ben può in futuro
essere necessaria la dichiarazione nella seconda forma ai fini di ottenere le detrazioni previste.
Analogamente, la previsione di un tetto massimo di detrazione, se correlata alla rideterminazione
del reddito secondo i parametri evidenziati nell’esaminare il primo motivo di ricorso, non appare
illogica o penalizzante nel senso prospettato dai ricorrenti, in quanto la stessa Amministrazione,
nella nota allegata in atti chiarisce che il limite massimo previsto va applicato a ciascuna persona
del nucleo che detrae, quale sottrazione al suo reddito personale, mentre in precedenza nessuna
detrazione di spesa per la “disabilità” era prevista, con la conseguenza che tale conformazione è
coerente con la disposizione legislativa di cui all’art. 5 d.l. n. 201/11 cit., secondo cui con il d.p.c.m.
sono individuate le agevolazioni fiscali che a partire dal 1 gennaio 2013 non possono più essere
riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia individuata con il decreto
stesso.
Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, in quanto la Presidenza del Consiglio dei Ministri non
ha potuto che tenere conto dell’aggiornamento complessivo della normativa fiscale e catastale
(quest’ultima in via di definizione esecutiva) vigente nell’ordinamento. Risultano comunque delle
valutazioni “temperate”, in ordine alla valutazione dei solo 2/3 dell’abitazione principale, nel
rispetto dell’impulso di cui all’art. 5 d.l. n. 201/2011 a valorizzare “in misura maggiore” la
componente patrimoniale, sia in Italia che all’estero, pur con l’attenuazione dovuta
dall’identificazione di agevolazioni fiscali.
Né può farsi una raffronto con la situazione precedente e il calcolo del patrimonio immobiliare su
base ICI, non essendo più in vigore e non più invocabile tale regime per la generalità dei cittadini.
Per quel che riguarda il quarto motivo di ricorso, il Collegio osserva che nel nuovo assetto sono
considerati i figli minorenni o maggiorenni a carico a fini IRPEF della persona disabile
maggiorenne e la loro inclusione nel nucleo familiare, in quanto privi di reddito sostanziale, riduce
l’ISEE, favorendo così il disabile con figli a carico rispetto al disabile senza prole, secondo la scala
di equivalenza di cui all’Allegato 1 al decreto richiamato dal relativo art. 1, comma 1, lett. c).
Analoghe osservazioni possono farsi in relazione all’inserimento del coniuge, che, se con reddito,
risponde a ragioni di equità sostanziale.
Altrettanto priva di illogicità e irrazionalità valutabili nella presente sede è la circostanza per la
quale i disabili minorenni non sono considerati “nucleo a sé” rispetto ai genitori, anche per
l’obbligo di solidarietà sociale familiare rimarcato dalla corte Costituzionale nella sentenza n.
297/12, ferma restando la previsione, all’uopo, di una specifica franchigia.
Per qual che riguarda, poi, la considerazione del reddito familiare e non del solo assistito il Collegio
pure richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale (n. 296/12) nonché del Consiglio di Stato
(Sex. III, 14.1.14, n. 99) secondo cui, in sostanza, la normativa di riferimento “…individua l’insieme dei soggetti cui sono posti i doveri di solidarietà e di assistenza verso il disabile, connessi
ai restanti compiti propri del nucleo familiare di appartenenza, dal momento che, come la Corte
costituzionale ha sottolineato nella sentenza n. 296 del 19.12.2012, la previsione di una
compartecipazione ai costi delle prestazioni di tipo residenziale, da parte dei familiari, può
costituire un incentivo indiretto che contribuisce a favorire la permanenza dell’anziano presso il
nucleo familiare ed è, comunque, espressiva di un dovere di solidarietà che, prima ancora che sulla
collettività, grava anzitutto sui prossimi congiunti”.
C’è da osservare, infine, che anche nel precedente regime non vi era una considerazione del reddito
del solo “assistito” per tutte le spese ma solo per quelle per prestazioni sociali agevolate assicurate
nell’ambito di percorsi integrati di natura sociosanitaria e che la definizione di “prestazioni
agevolate di natura sociosanitaria” di cui all’art. 1, comma 1, lett. f), d.p.c.m. cit. può includere
anche prestazioni strumentali e accessorie oltre che interventi economici, come riconosciuto nella
stessa nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali allegata in atti dall’Amministrazione
costituita.
Infondato è poi il quinto motivo di ricorso.
Nella suddetta sentenza n. 297/2012, la Corte Costituzionale ha precisato che “…la competenza
statale alla quale va ricondotta la normativa impugnata, concernente la determinazione di livelli
essenziali delle prestazioni, non attiene ad una «materia» in senso stretto, ma costituisce una
competenza esclusiva e “trasversale”, idonea a investire una pluralità di materie (sentenze n. 203 del
2012; n. 232 del 2011; n. 10 del 2010; n. 322 del 2009; n. 168 e n. 50 del 2008; n. 162 e n. 94 del
2007; n. 282 del 2002). Detta peculiare competenza comporta «una forte incidenza sull’esercizio
delle competenze legislative ed amministrative delle regioni» (sentenza n. 8 del 2011; n. 88 del
2003), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra
Stato e Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e n. 121 del 2010; n. 322 e n. 124 del 2009;

n. 162 del 2007; n. 134 del 2006; n. 88 del 2003), salvo che ricorrano ipotesi eccezionali (nella
specie non sussistenti) in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) «non
permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità […] di protezione delle situazioni di estrema
debolezza della persona umana», tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni
assistenziali, senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza n. 10 del 2010, a
proposito della social card, ricondotta ai LEP e messa in connessione con gli artt. 2 e 3, secondo
comma, Cost.). Proprio in ragione di tale impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore
statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha
spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni (nella forma dell’«intesa») a
salvaguardia delle competenze di queste. Nella specie, non è dubbio che la determinazione
dell’ISEE, delle tipologie di prestazioni agevolate, delle soglie reddituali di accesso alle prestazioni
e, quindi, dei LIVEAS incide in modo significativo sulla competenza residuale regionale in materia
di «servizi sociali» e, almeno potenzialmente, sulle finanze della Regione, che sopporta l’onere
economico di tali servizi. È, dunque, evidente che la suddetta determinazione dell’ISEE richiede la
ricognizione delle situazioni locali e la valutazione di sostenibilità finanziaria, tramite acquisizione
di dati di cui gli enti erogatori delle prestazioni dispongono in via prioritaria.
Sulla base di tali premesse (che, nel caso di specie, rinvenivano la necessità della leale
collaborazione Stato/Regione nell’attuazione dell’art. 5 cit.) deve leggersi il contesto in cui è
inserito l’art. 2 richiamato dai ricorrenti.
Tale norma deve essere interpretata sotto tale profilo, laddove prevede e “fa salve” le competenze
regionali in materia di formazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e sociosanitarie
e “le prerogative dei comuni”. La norma di cui a tale art. 2, poi, specifica con attenzione
che “…In relazione a tipologie di prestazioni che per la loro natura lo rendano necessario e ove non
diversamente disciplinato in sede di definizione dei livelli essenziali relativi alle medesime tipologie
di prestazioni, gli enti erogatori possono prevedere, accanto all’ISEE, criteri ulteriori di selezione
volti ad identificare specifiche platee di beneficiari, tenuto conto delle disposizioni regionali in
materia e delle attribuzioni regionali specificamente dettate in tema di servizi sociali e sociosanitari.
E’ comunque fatta salva la valutazione della condizione economica complessiva del nucleo
familiare attraverso l’ISEE.”
Da ciò ne consegue che l’ISEE oggetto dell’art. 5 cit. è ben differenziato e identificato nella sua
sostanza ed è prevista per gli enti regolatori – nell’ambito della ricognizione delle “situazioni locali”
anche di ordine finanziario – solo la possibilità di prevedere criteri “ulteriori” – e non integrativi –
di selezione unicamente della platea dei beneficiari e ciò in relazione alle attribuzioni regionali
specificamente previste in materia di assistenza socio-sanitaria, secondo il su ricordato riparto di cui
alla sentenza della Corte Costituzionale n. 297/12.
Non è, dunque, prevista alcuna elaborazione di criteri “paralleli” o “alternativi” all’ISEE, come
ritenuto dai ricorrenti, ma unicamente la possibilità di allargare la platea dei beneficiari mediante
criteri ulteriori, che non si sovrappongono o sostituiscono l’ISEE, ma lo integrano secondo le
attribuzioni regionali specifiche e facendo comunque salva – come ribadito esplicitamente dal
ricordato art. 2 – la “valutazione della condizione economica complessiva del nucleo familiare
attraverso l’ISEE”, a conferma della circostanza per la quale è comunque l’ISEE il nucleo
valutativo imposto per determinare la condizione economica di riferimento.
Per quel che riguarda, infine, la questione di costituzionalità posta con il sesto motivo di ricorso, il
Collegio, oltre che evidenziarne la sostanziale genericità, rileva che un’interpretazione
costituzionalmente orientata impone le conclusioni, favorevoli ai ricorrenti, di cui al primo motivo
di ricorso, per cui se ne deduce l’irrilevanza in questa sede.
Per quanto attiene alla Convenzione ONU, il Collegio richiama la circostanza per la quale il
Consiglio di Stato (n. 99/14 cit.), con argomentazioni che il Collegio richiama facendole proprie, ha
precisato che tale Convenzione “…non esclude che alla relativa spesa partecipi, foss’anche per una
piccola frazione, pure l’assistito o chi per lui” (Cons. St., sez. III, 3.7.2013, n. 3574). Né ciò
comporta, ha osservato la Sezione, alcun vulnus alla dignità dell’assistito, giacché la di lui
situazione di intrinseca debolezza va salvaguardata anche, per quanto sia possibile e secondo quanto
afferma la stessa Corte costituzionale, con il favorire la permanenza di questi presso il nucleo
familiare. In ogni caso ritiene il Collegio che la considerazione del reddito dei familiari ai fini ISEE
non si ponga in contrasto con il complessivo significato delle disposizioni della Convenzione di
New York del 13 dicembre 2006 e, in particolare, con gli artt. 3, 9 e 19, laddove essi valorizzano la
posizione individuale del disabile anche indipendentemente dal proprio nucleo familiare. Al
riguardo non può sottacersi che il dovere di solidarietà familiare costituisce una ulteriore
guarentigia, per il malato, che si affianca al dovere di solidarietà sociale e che tale fondamentale e
primario dovere di solidarietà familiare si esprime anche nella considerazione, da parte
dell’ordinamento dei singoli Stati, del reddito dei parenti prossimi al fine di determinare la quota
assistenziale di compartecipazione dell’assistito al mantenimento presso una struttura sociosanitaria.
Tale è del resto l’orientamento del più recente legislatore nazionale che, con l’art. 5 del d.l.
201/2011, convertito in l. 214/2011, ha previsto che, nel fissare il nuovo indicatore della situazione
economica equivalente (ISEE), occorra adottare una definizione di reddito disponibile che includa
la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di
patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi familiari,
in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico.”.
Per quanto dedotto, quindi, il ricorso deve essere accolto solo in parte.
Le spese del giudizio possono eccezionalmente compensarsi per la novità della fattispecie.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando
sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte nei sensi di cui in motivazione e, per
l’effetto, annulla l’art. 4, comma 2, lett. f), d.p.c.m. n. 159/2013 impugnato. Salve ulteriori
determinazioni dell’Amministrazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del provvedimento,
all’oscuramento delle generalità nonchè di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle

parti ricorrenti e dei soggetti di cui si dichiarano genitori, tutori o amministratori di sostegno o di
persone comunque citate nel provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 19 novembre 2014 con l’intervento dei
magistrati:
Raffaello Sestini, Presidente FF
Anna Bottiglieri, Consigliere
Ivo Correale, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/02/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

N. 02458/2015 REG.PROV.COLL.
N. 04823/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4823 del 2014, proposto da:

U.T.I.M. -Unione per la Tutela delle Persone con Disabilità Intellettiva e
Associazione “Promozione Sociale”, in persona dei rispettivi legali rappresentanti

p.t., rappresentate e difese dagli avv.ti Annamaria Torrani Cerenzia e Mario Motta,
con domicilio eletto presso Antonia De Angelis in Roma, Via Portuense, 104;

contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentata e difesa per legge
dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domicilia in Roma, Via dei
Portoghesi, 12;

per l’annullamento, previa sospensione,
del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 5 dicembre 2013 n. 159
“Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi
di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)”
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24.1.2014 n. 19;

nonché di ogni altro atto preparatorio, presupposto, conseguente e comunque
connesso con gli atti impugnati.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 19 novembre 2014 il dott. Ivo Correale e uditi per
le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, i soggetti in
epigrafe evidenziavano che, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 5 d.l. n. 201/2011
(recante “Introduzione dell’ISEE per la concessione di agevolazioni fiscali e benefici

assistenziali, con destinazione dei relativi risparmi a favore delle famiglie), era
emanato il d.p.c.m. n. 159/2013 che dava luogo ad una nuova regolamentazione

complessiva del c.d. “ISEE” (Indicatore della situazione economica equivalente e di
cui chiedevano l’annullamento in parte, previa sospensione.
Soffermandosi principalmente sulle prestazioni agevolate di cui all’art. 1, lett. f),
d.p.c.m. cit. (prestazioni agevolate di natura sociosanitaria rivolte a persone con
disabilità e limitazioni dell’autonomia) e sulla rispettiva legittimazione a ricorrere, in

quanto portatori di posizioni a tutela di interessi diffusi e del gruppo sociale da loro
rappresentato, i soggetti in epigrafe lamentavano, in sintesi, quanto segue.

“1) Eccezione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.
5 del DL 201/2011 convertito con la legge 214/2011”.

Risultava la violazione della Carta costituzionale (artt. 70, 76 e 77) in quanto la fonte

normativa di legge delegava alla PCM l’emanazione di un regolamento, senza però
stabilire “norme regolatrici della materia”, ai sensi dell’art. 17, comma 2, l. n.
400/1988, limitandosi l’art. 5 d.l. cit. a contenere generali e vaghe linee
programmatiche che si prestano alle più varie interpretazioni e concedendo in

sostanza una “delega in bianco” alla PCM per disciplinare una materia riservata alla
esclusiva competenza del legislatore statale ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m),
Cost.

“2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del DL 201/2011 convertito con la legge
214/2011 sotto il profilo della violazione del termine stabilito per l’emanazione del Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri”.
Il d.p.c.m. impugnato risultava pubblicato il 24 gennaio 2014, ben oltre il termine

del 31 maggio 2012 previsto dall’art. 5 d.l. n. 201/2011 cit., termine da considerare
perentorio in quanto legato all’emanazione di un regolamento attuativo e non
meramente esecutivo.
“3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 117 lettera m) della Costituzione”.
Ricordando il nuovo regime di competenze delineato dall’art. 5 d.l. n. 201/2011 cit.
-anche ai sensi della pronuncia della Corte Costituzionale n. 297/2012 che lo
riguardava – per il quale le soglie di accesso alle agevolazioni vengono fissate dal
Presidente del Consiglio dei Ministri e non più da ciascun ente erogatore, risultava
illegittimo l’art. 2 del d.p.c.m. impugnato laddove prevedeva invece che gli enti
erogatori potevano individuare, accanto all’ISEE, altri criteri di ulteriore di selezione

volte ad identificare specifiche platee di beneficiari ed esercitando così una
competenza riservata allo Stato ai sensi del ricordato art. 117, lett. m), Cost.

“4) Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del DL 201/2011 convertito con la legge
214/2011, dell’art. 38 I comma della Costituzione, dell’art. 32 I comma della Costituzione
dell’art. 23 della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone

con disabilità stipulata a New York il 13.12.2006 e ratificata dalla Repubblica Italiana con la

legge 18/2009”.
Gli artt. 2, 3 e 6 d.p.c.m. cit. violavano la norma costituzionale, di cui al relativo art.
38, e la ricordata Convenzione di New York in quanto conteggiavano l’ISEE, anche
nel caso di disabili non autosufficienti, considerando l’intero nucleo familiare e

imponendo, in caso di ricovero in strutture assistenziali di disabili privi di ingenti

risorse proprie, il contributo economico all’intero nucleo in questione.

Ciò andava a ledere, nello specifico, il diritto e la dignità del disabile che si vedeva
ora costretto a chiedere aiuto alla famiglia di appartenenza, la quale doveva essere
invece oggetto di tutela da parte dello Stato secondo quanto impresso nella
Convenzione di New York.

Risultava, inoltre, la violazione dell’art. 32 Cost. in quanto risultava così precluso
l’effetto di garanzia di cure gratuite a persone in stato di indigenza, soprattutto se
colpite da patologie gravemente invalidanti e da non autosufficienza e destinatarie,
in quanto tali, del diritto di esigere direttamente prestazioni sanitarie e sociosanitarie,
ex art 3, comma 3, l..n. 833/1978 e art. 54 l. n. 289/2002, quali livello essenziale di
assistenza.
Tali disposizioni del d.p.c.m. impugnato non erano comunque coerenti con (o

autorizzate da)la delega di cui all’art. 5 d.l.n. 201/2011, in quanto il richiamo in tale

norma di rango legislativo alla necessità di tenere conto delle quote di patrimonio e
di reddito dei diversi componenti della famiglia non poteva che essere considerato
in contraddizione con la precedente normativa, con i principi costituzionali e la
Convenzione di New York sopra richiamati, che espressamente prevedono la

necessità di valutare il reddito del solo assistito, a meno di considerare l’art. 5 cit.

quale norma in contrasto con la Carta costituzionale per quanto sopra richiamato.

I soggetti ricorrenti lamentavano, infine, anche la violazione dell’art. 23 Cost.
laddove il d.p.c.m. impugnato imponeva una prestazione patrimoniale senza
autorizzazione legislativa.
3 Cost.
laddove il d.p.c.m. impugnato imponeva una prestazione patrimoniale senza
autorizzazione legislativa.

5) Ulteriore profilo del motivo di impugnazione sopra dedotto. Eccesso di potere sotto i profili della
irragionevolezza, della ingiustizia minifesta e dello sviamento dalla causa tipica”.

L’art. 6, comma 3, d.p.c.m. cit. considerava che l’ISEE doveva tenere conto anche

dei figli non conviventi nel caso di prestazioni agevolate di natura socio-sanitaria
erogate in ambiente residenziale a ciclo continuativo (salvi casi di estraneità accertati
in sede giurisdizionale e dalla pubblica autorità competente) ma tale fattispecie non

era in alcun modo autorizzata dall’art. 5 d.l. cit. e causava una abnorme estensione
della nozione di “nucleo familiare”.

Anche la su ricordata deroga appariva illogica, in quanto si escludevano dal carico
del naturale obbligo di solidarietà i figli di cui non è riconosciuto il rapporto affettivo

o la prestazione di aiuti economici, con relativa prova a carico degli interessati,
tramite autorità giurisdizionali o amministrative, ben difficile da individuare e
definire.
“6) Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del DL 201/2011 convertito con la legge
214/2011. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge 18/1980 e dell’art. 1 della
legge 508/1998.”

L’art. 4, comma 2, lett. f) d.p.c.m. cit. risultava illegittimo laddove includeva nel

computo ISEE i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di
debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, ricomprendendo
quindi indebitamente anche indennità finalizzate a fornire al disabile risorse
occorrenti per sostenere le maggiori spese in ragione della propria disabilità. Tra i
trattamenti considerati rientrerebbe, quindi, anche l’indennità di accompagnamento
di cui all’art. 1 l. 18/1980, posta a carico di persone che hanno subito gravi patologie

invalidanti e che è necessaria per le attività continue di assistenza di cui hanno
bisogno tali soggetti e non per incrementare il reddito personale. bisogno tali soggetti e non per incrementare il reddito personale.

“7) Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del DL 201/2011 convertito con la legge
214/2011. Eccesso di potere per irragionevolezza e disparità di trattamento”.

L’art. 5, comma 2, d.p.c.m. cit. si palesava illegittimo laddove utilizzava il valore
catastale ai fini IMU per determinare il valore reddituale dell’abitazione di proprietà.

La determinazione, in tal senso, appariva contraddittoria con il regime di detrazione,
pressoché integrale, del canone di locazione previsto invece nel precedente art. 4 e
comunque non sostenuta da alcuna disciplina nella fonte primaria.
In rapporto alla precedente regolamentazione, di cui al d.lgs. n. 109/1998, che
prevedeva il valore catastale ai fini ICI, l’attuale base di calcolo sul valore catastale

IMU si rilevava nettamente superiore, come da simulazione che i ricorrenti
illustravano in dettaglio.

“8) Violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 315 bis c.c.”

Il d.p.c.m. impugnato, nel non prevedere apposite detrazioni, non considerava che
il disabile grave, l’anziano malato cronico non autosufficiente e la persona colpita
da demenza senile richiedenti le prestazioni potevano dover far fronte talvolta

all’obbligo di mantenimento nei confronti del coniuge e dei figli sprovvisti di redditi

propri.

“9) Violazione dell’art. 38 I comma della Costituzione sotto il profilo della mancata previsione
dell’adeguamento delle franchigie al costo della vita. Eccesso di potere per irragionevolezza ed
ingiustizia manifesta”.
Le franchigie previste all’art 4 del d.p.c.m. cit., non considerando alcun
adeguamento al costo della vita, contrastavano con l’art. 38 Cost. e con il principio,

ormai generalizzato nel nostro ordinamento, della rivalutazione automatica delle
somme destinate ad assicurare l’effettiva realizzazione di esigenze sociali.

Si costitutiva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, illustrando le
proprie tesi, orientate alla reiezione del ricorso, in note allegate da Uffici del M.E.F.
Alla camera di consiglio cautelare era disposto rinvio alla trattazione del merito.
In prossimità della pubblica udienza, le parti ricorrenti depositavano una memoria
ad ulteriore illustrazione delle proprie tesi, con riferimento ai motivi n. 4, 5 e 7.
Alla pubblica udienza del 19 novembre 2014 la causa era trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il Collegio rileva l’infondatezza del primo motivo di ricorso.
L’art. 5 del d.l. n. 201/2011, nel testo derivante dalla legge di conversione n.
214/2011 e dal successivo d.l. n. 95/2012, conv. in l. n. 135/2012, recita
testualmente quanto segue: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta
del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle
finanze, da emanare, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, entro il 31 maggio
2012, sono rivisti le modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della
situazione economica equivalente (ISEE) al fine di: adottare una definizione di reddito disponibile
che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle
quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi
familiari, in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico; migliorare la
capacità selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita
sia in Italia sia all’estero, al netto del debito residuo per l’acquisto della stessa e tenuto conto delle
imposte relative; permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di
prestazioni. Con il medesimo decreto sono individuate le agevolazioni fiscali e tariffarie nonché le
provvidenze di natura assistenziale che, a decorrere dal 1° gennaio 2013, non possono essere più
riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia individuata con il decreto stesso.
A far data dai trenta giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni di approvazione del nuovo
modello di dichiarazione sostitutiva unica concernente le informazioni necessarie per la

determinazione dell’ISEE, attuative del decreto di cui al periodo precedente, sono abrogati il decreto

legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 maggio
1999, n. 221. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro 1999, n. 221. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro

dell’economia e delle finanze, sono definite le modalità con cui viene rafforzato il sistema dei controlli
dell’ISEE, anche attraverso la condivisione degli archivi cui accedono la pubblica amministrazione
e gli enti pubblici e prevedendo la costituzione di una banca dati delle prestazioni sociali agevolate,

condizionate all’ISEE, attraverso l’invio telematico all’INPS, da parte degli enti erogatori, nel

rispetto delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, delle informazioni sui beneficiari e sulle prestazioni concesse.
Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica. I risparmi derivanti dall’applicazione del presente articolo a favore del bilancio
dello Stato e degli enti nazionali di previdenza e di assistenza sono versati all’entrata del bilancio
dello Stato per essere riassegnati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l’attuazione di
politiche sociali e assistenziali. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, si provvede a determinare le modalità attuative di tale
rassegnazione. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del

lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare,

previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, entro il 31 maggio 2012, sono rivisti le

modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica

equivalente (ISEE) al fine di: adottare una definizione di reddito disponibile che includa la
percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di
patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi familiari,
in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico; migliorare la capacità

selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in
Italia sia all’estero, al netto del debito residuo per l’acquisto della stessa e tenuto conto delle imposte
relative; permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di prestazioni. Con

il medesimo decreto sono individuate le agevolazioni fiscali e tariffarie nonché le provvidenze di
natura assistenziale che, a decorrere dal 1° gennaio 2013, non possono essere più riconosciute ai

soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia individuata con il decreto stesso. A far data
dai trenta giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni di approvazione del nuovo modello di
dichiarazione sostitutiva unica concernente le informazioni necessarie per la determinazione
dell’ISEE, attuative del decreto di cui al periodo precedente, sono abrogati il decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 109, e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 maggio 1999, n. 221.
dai trenta giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni di approvazione del nuovo modello di
dichiarazione sostitutiva unica concernente le informazioni necessarie per la determinazione
dell’ISEE, attuative del decreto di cui al periodo precedente, sono abrogati il decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 109, e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 maggio 1999, n. 221.

Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia
e delle finanze, sono definite le modalità con cui viene rafforzato il sistema dei controlli dell’ISEE,

anche attraverso la condivisione degli archivi cui accedono la pubblica amministrazione e gli enti
pubblici e prevedendo la costituzione di una banca dati delle prestazioni sociali agevolate,
condizionate all’ISEE, attraverso l’invio telematico all’INPS, da parte degli enti erogatori, nel
rispetto delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, delle informazioni sui beneficiari e sulle prestazioni concesse.
Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica. I risparmi derivanti dall’applicazione del presente articolo a favore del bilancio
dello Stato e degli enti nazionali di previdenza e di assistenza sono versati all’entrata del bilancio
dello Stato per essere riassegnati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l’attuazione di

politiche sociali e assistenziali. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, si provvede a determinare le modalità attuative di tale
riassegnazione”.
Ebbene, dall’articolato testo ora riportato non emerge la vaghezza e
l’indeterminatezza lamentate dai soggetti ricorrenti, atteso che il legislatore ha

chiaramente indirizzato il Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con i
Ministri evidenziati, a rivedere le modalità di determinazione e i campi di

applicazione dell’ISEE fondandoli essenzialmente sulla (ri)definizione di “reddito
disponibile” tale da includere somme e quote patrimoniali e di reddito di soggetti
familiari determinati, valorizzando la componente patrimoniale anche estera,
considerando le tipologie diverse di prestazioni.

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 297/2012, ha inoltre evidenziato
che “Il denunciato art. 5 del decreto-legge n. 201 del 2011, in particolare, ha affidato,
come visto, al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di determinare con
proprio decreto quei peculiari LIVEAS afferenti a prestazioni o servizi sociali o
assistenziali che sono effettuati a richiesta dell’interessato, non sono destinati alla
generalità dei soggetti e sono, comunque, collegati nella misura o nel costo a
determinate situazioni economiche. La norma, infatti, prevede che il suddetto
decreto: a) determini il nuovo indicatore del reddito (ISEE) che gli enti erogatori
debbono prendere in considerazione per consentire l’accesso a servizi agevolati; b)
introduca indicatori diversi in ragione delle varie tipologie di prestazione sociale; c)
fissi la soglia di reddito richiesta agli interessati per ottenere l’accesso alle varie
tipologie di prestazioni sociali agevolate. La predisposizione di indicatori
differenziati, proprio perché correlata alla contestuale individuazione di una gamma
diversificata di tipologie di prestazioni assistenziali, implica la specifica
determinazione del livello essenziale di erogazione delle prestazioni medesime. Essa,
infatti, si risolve nella identificazione degli «standard strutturali e qualitativi delle
prestazioni, da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale in quanto
concernenti il soddisfacimento di diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione»,
che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte indicato come rientrante nella
competenza esclusiva dello Stato (sentenza n. 232 del 2011; nello stesso senso,
sentenze n. 296, n. 287 e n. 203 del 2012; n. 322 del 2009; n. 168 e n. 50 del 2008;
ziato
che “Il denunciato art. 5 del decreto-legge n. 201 del 2011, in particolare, ha affidato,
come visto, al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di determinare con
proprio decreto quei peculiari LIVEAS afferenti a prestazioni o servizi sociali o
assistenziali che sono effettuati a richiesta dell’interessato, non sono destinati alla
generalità dei soggetti e sono, comunque, collegati nella misura o nel costo a
determinate situazioni economiche. La norma, infatti, prevede che il suddetto
decreto: a) determini il nuovo indicatore del reddito (ISEE) che gli enti erogatori
debbono prendere in considerazione per consentire l’accesso a servizi agevolati; b)
introduca indicatori diversi in ragione delle varie tipologie di prestazione sociale; c)
fissi la soglia di reddito richiesta agli interessati per ottenere l’accesso alle varie
tipologie di prestazioni sociali agevolate. La predisposizione di indicatori
differenziati, proprio perché correlata alla contestuale individuazione di una gamma
diversificata di tipologie di prestazioni assistenziali, implica la specifica
determinazione del livello essenziale di erogazione delle prestazioni medesime. Essa,
infatti, si risolve nella identificazione degli «standard strutturali e qualitativi delle
prestazioni, da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale in quanto
concernenti il soddisfacimento di diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione»,
che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte indicato come rientrante nella
competenza esclusiva dello Stato (sentenza n. 232 del 2011; nello stesso senso,
sentenze n. 296, n. 287 e n. 203 del 2012; n. 322 del 2009; n. 168 e n. 50 del 2008;

n. 383 e n. 285 del 2005).La norma impugnata, pertanto, costituisce espressione
dell’esercizio della competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di LIVEAS,
ai sensi dell’art. 117, secondo comma lettera m), Cost.”.

Da tale ricostruzione appare evidente la completezza della struttura del testo
legislativo di delega e la conformità dell’operato del legislatore, sotto tale profilo,
all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.

Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Non si rileva infatti la perentorietà del termine del 31 maggio 2012 richiamato
nell’art. 5 cit.

Secondo i principi giurisprudenziali in argomento e sotto un profilo sostanziale, un

termine può definirsi “perentorio” quando dalla sua scadenza deriva l’impossibilità

di compiere, anche in epoca successiva, l’attività amministrativa correlata,
implicandosi così l’estinzione del potere alla scadenza del termine. Un termine,
viceversa, può dirsi “ordinatorio” allorché la sua scadenza non fa venir meno il

potere di agire, fermo restando che -salva la possibilità di proroga a mezzo della
stessa fonte che lo aveva stabilito e, altresì, prima della sua scadenza -il mancato
rispetto di detto genere di termine può esporre a responsabilità colui che, in difetto
di legittima proroga, non lo abbia rispettato, e consente ai soggetti interessati (e
quindi legittimati perchè portatori di un interesse legittimo al rispetto del termine) a
esperire in giudizio ogni azione idonea a costringere l’obbligato a svolgere l’attività
dovuta (C.G.R.S., 19.4.12, n. 396).
Nel caso di specie non vi era alcuna previsione di estinzione del potere né era
definito il termine stesso come perentorio né era prevista alcuna conseguenza
sostanziale sulla sua inosservanza, così che il medesimo può definirsi meramente

ordinatorio e il suo mancato rispetto non comporta l’illegittimità dell’intero d.p.c.m.

impugnato, come invece prospettato dai ricorrenti (Cons. Stato, Sez. VI, 27.2.12, n.
1084).
Al Collegio non appare fondato neanche il terzo motivo di ricorso.
Nella suddetta sentenza n. 297/2012, la Corte Costituzionale ha precisato che “…la
competenza statale alla quale va ricondotta la normativa impugnata, concernente la determinazione
di livelli essenziali delle prestazioni, non attiene ad una «materia» in senso stretto, ma costituisce
una competenza esclusiva e “trasversale”, idonea a investire una pluralità di materie (sentenze n.
203 del 2012; n. 232 del 2011; n. 10 del 2010; n. 322 del 2009; n. 168 e n. 50 del 2008; n.

162 e n. 94 del 2007; n. 282 del 2002). Detta peculiare competenza comporta «una forte
incidenza sull’esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni» (sentenza n. 8
del 2011; n. 88 del 2003), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale
collaborazione tra Stato e Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e n. 121 del 2010;
incidenza sull’esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni» (sentenza n. 8
del 2011; n. 88 del 2003), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale
collaborazione tra Stato e Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e n. 121 del 2010;

n. 322 e n. 124 del 2009; n. 162 del 2007; n. 134 del 2006; n. 88 del 2003), salvo che
ricorrano ipotesi eccezionali (nella specie non sussistenti) in cui la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni (LEP) «non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità […]
di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana», tanto da legittimare lo
Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di leale
collaborazione con le Regioni (sentenza n. 10 del 2010, a proposito della social card, ricondotta ai
LEP e messa in connessione con gli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost.). Proprio in ragione di tale
impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel determinare i livelli essenziali
delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento
delle Regioni (nella forma dell’«intesa») a salvaguardia delle competenze di queste. Nella specie,
non è dubbio che la determinazione dell’ISEE, delle tipologie di prestazioni agevolate, delle soglie
reddituali di accesso alle prestazioni e, quindi, dei LIVEAS incide in modo significativo sulla
competenza residuale regionale in materia di «servizi sociali» e, almeno potenzialmente, sulle
finanze della Regione, che sopporta l’onere economico di tali servizi. È, dunque, evidente che la
suddetta determinazione dell’ISEE richiede la ricognizione delle situazioni locali e la valutazione
di sostenibilità finanziaria, tramite acquisizione di dati di cui gli enti erogatori delle prestazioni
dispongono in via prioritaria.
Sulla base di tali premesse (che, nel caso di specie, rinvenivano la necessità della leale

collaborazione Stato/Regione nell’attuazione dell’art. 5 cit.) deve leggersi il contesto
in cui è inserito l’art. 2 richiamato dai ricorrenti.
Tale norma deve essere interpretata sotto tale profilo, laddove prevede e “fa salve”
le competenze regionali in materia di formazione, programmazione e gestione delle
politiche sociali e socio-sanitarie e “le prerogative dei comuni”. La norma di cui a

tale art. 2, poi, specifica con attenzione che “…In relazione a tipologie di prestazioni che
per la loro natura lo rendano necessario e ove non diversamente disciplinato in sede di definizione
dei livelli essenziali relativi alle medesime tipologie di prestazioni, gli enti erogatori possono
In relazione a tipologie di prestazioni che
per la loro natura lo rendano necessario e ove non diversamente disciplinato in sede di definizione
dei livelli essenziali relativi alle medesime tipologie di prestazioni, gli enti erogatori possono

prevedere, accanto all’ISEE, criteri ulteriori di selezione volti ad identificare specifiche platee di

beneficiari, tenuto conto delle disposizioni regionali in materia e delle attribuzioni regionali
specificamente dettate in tema di servizi sociali e socio-sanitari. E’ comunque fatta salva la
valutazione della condizione economica complessiva del nucleo familiare attraverso l’ISEE.”
Da ciò ne consegue che l’ISEE oggetto dell’art. 5 cit. è ben differenziato e
identificato nella sua sostanza ed è prevista per gli enti regolatori – nell’ambito della
ricognizione delle “situazioni locali” anche di ordine finanziario – solo la possibilità
di prevedere criteri “ulteriori” – e non integrativi – di selezione unicamente della
platea dei beneficiari e ciò in relazione alle attribuzioni regionali specificamente
previste in materia di assistenza socio-sanitaria, secondo il su ricordato riparto di cui
alla sentenza della Corte Costituzionale n. 297/12.
Non è, dunque, prevista alcuna elaborazione di criteri “paralleli” o “alternativi”
all’ISEE, come ritenuto dai ricorrenti, ma unicamente la possibilità di allargare la

platea dei beneficiari mediante criteri ulteriori, che non si sovrappongono o
sostituiscono l’ISEE, ma lo integrano secondo le attribuzioni regionali specifiche e
facendo comunque salva – come ribadito esplicitamente dal ricordato art. 2 – la
“valutazione della condizione economica complessiva del nucleo familiare
attraverso l’ISEE”, a conferma della circostanza per la quale è comunque l’ISEE il

nucleo valutativo imposto per determinare la condizione economica di riferimento.
Né è provato, comunque, che tali ulteriori criteri – ancora da adottare da parte degli
enti erogatori -siano già ora lesivi per i disabili rappresentati dai soggetti ricorrenti,
per cui emerge anche un profilo di carenza di interesse alla proposizione del motivo.

Infondato si palesa anche il quarto motivo di ricorso sulla circostanza di conteggiare
l’ISEE considerando l’intero nucleo familiare, anche in caso di ricovero del disabile
in strutture residenziali diurne o continuative.
Come evidenziato dal Consiglio di Stato (Sez. III, sent. 14.1.14, n. 99) la normativa
l’ISEE considerando l’intero nucleo familiare, anche in caso di ricovero del disabile
in strutture residenziali diurne o continuative.
Come evidenziato dal Consiglio di Stato (Sez. III, sent. 14.1.14, n. 99) la normativa

di riferimento “…individua l’insieme dei soggetti cui sono posti i doveri di

solidarietà e di assistenza verso il disabile, connessi ai restanti compiti propri del
nucleo familiare di appartenenza, dal momento che, come la Corte costituzionale ha
sottolineato nella sentenza n. 296 del 19.12.2012, la previsione di una
compartecipazione ai costi delle prestazioni di tipo residenziale, da parte dei
familiari, può costituire un incentivo indiretto che contribuisce a favorire la

permanenza dell’anziano presso il nucleo familiare ed è, comunque, espressiva di un

dovere di solidarietà che, prima ancora che sulla collettività, grava anzitutto sui

prossimi congiunti”.

Ebbene, in tal senso non si individua alcuna discriminazione nei confronti dei
disabili in quanto non risulta impedita nei confronti di costoro, se non
autosufficienti, l’accesso alle cure sanitarie, ai sensi degli artt. 32 e 38 Cost., in quanto
la disciplina in materia di ISEE comprende la componente sociale che non può

essere né scissa né oscurata da quella sanitaria, facendo di quest’ultima l’esclusivo

parametro di riferimento al quale ancorare, anche sul piano costituzionale, la
valutazione della normativa in materia (Cons. Stato, Sez. III, n. 99/14 cit.).
Né può invocarsi la violazione della Convenzione di New York del 13 dicembre
2006.
Sempre nella medesima sentenza n. 99/14 cit. il Consiglio di Stato, con
argomentazioni che il Collegio richiama facendole proprie, ha precisato che tale

Convenzione “…non esclude che alla relativa spesa partecipi, foss’anche per una
piccola frazione, pure l’assistito o chi per lui” (Cons. St., sez. III, 3.7.2013, n. 3574).
Né ciò comporta, ha osservato la Sezione, alcun vulnus alla dignità dell’assistito,

giacché la di lui situazione di intrinseca debolezza va salvaguardata anche, per
quanto sia possibile e secondo quanto afferma la stessa Corte costituzionale, con il
favorire la permanenza di questi presso il nucleo familiare. In ogni caso ritiene il
Collegio che la considerazione del reddito dei familiari ai fini ISEE non si ponga in
contrasto con il complessivo significato delle disposizioni della Convenzione di
New York del 13 dicembre 2006 e, in particolare, con gli artt. 3, 9 e 19, laddove essi
valorizzano la posizione individuale del disabile anche indipendentemente dal
proprio nucleo familiare. Al riguardo non può sottacersi che il dovere di solidarietà
familiare costituisce una ulteriore guarentigia, per il malato, che si affianca al dovere
di solidarietà sociale e che tale fondamentale e primario dovere di solidarietà
familiare si esprime anche nella considerazione, da parte dell’ordinamento dei singoli
Stati, del reddito dei parenti prossimi al fine di determinare la quota assistenziale di
quanto sia possibile e secondo quanto afferma la stessa Corte costituzionale, con il
favorire la permanenza di questi presso il nucleo familiare. In ogni caso ritiene il
Collegio che la considerazione del reddito dei familiari ai fini ISEE non si ponga in
contrasto con il complessivo significato delle disposizioni della Convenzione di
New York del 13 dicembre 2006 e, in particolare, con gli artt. 3, 9 e 19, laddove essi
valorizzano la posizione individuale del disabile anche indipendentemente dal
proprio nucleo familiare. Al riguardo non può sottacersi che il dovere di solidarietà
familiare costituisce una ulteriore guarentigia, per il malato, che si affianca al dovere
di solidarietà sociale e che tale fondamentale e primario dovere di solidarietà
familiare si esprime anche nella considerazione, da parte dell’ordinamento dei singoli
Stati, del reddito dei parenti prossimi al fine di determinare la quota assistenziale di

compartecipazione dell’assistito al mantenimento presso una struttura
sociosanitaria. Tale è del resto l’orientamento del più recente legislatore nazionale
che, con l’art. 5 del d.l. 201/2011, convertito in l. 214/2011, ha previsto che, nel

fissare il nuovo indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), occorra
adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme,
anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di patrimonio
e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi

familiari, in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico.”.
Non si rileva, infine, la violazione dell’art. 23 Cost, in quanto non risulta imposta

alcuna prestazione ma solo una rideterminazione della distribuzione sociale di
obblighi di solidarietà.
Gli argomenti di cui alla precedente trattazione portano anche a ritenere infondato
il quinto motivo di ricorso, in quanto il dovere di solidarietà familiare sopra
richiamato non può essere limitato ragionevolmente ai soli figli conviventi né pare
impossibile fornire la prova della deroga per estraneità del figlio in termini di

rapporti affettivi ed economici, visto l’esplicito richiamo alla pubblica autorità

competente e alla sede giurisdizionale, soggetti che operano in maniera idonea a
fornire ogni documentazione necessaria.
Per mera linearità espositiva, il Collegio ritiene di passare ad esaminare gli ulteriori

motivi di ricorso di cui riconosce l’infondatezza.

In particolare, per quel che riguarda il settimo motivo di ricorso, il Collegio ritiene
legittimo l’art. 5, comma 2, del d.p.c.m. impugnato laddove utilizza il valore catastale
IMU per valutare il patrimonio immobiliare.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri non ha potuto che tenere conto

dell’aggiornamento complessivo della normativa fiscale e catastale (quest’ultima in
via di definizione esecutiva) vigente nell’ordinamento. Risultano comunque dei
temperamenti, in ordine alla valutazione dei solo 2/3 dell’abitazione principale, nel
rispetto dell’impulso di cui all’art. 5 d.l. n. 201/2011 a valorizzare “in misura
maggiore” la componente patrimoniale, sia in Italia che all’estero, pur con
l’attenuazione dovuta dall’identificazione di agevolazioni fiscali.

La complessa simulazione contenuta nel ricorso, quindi, non può rilevare sotto il
profilo di cui al presente motivo, perché richiama l’intera situazione personale legata
all’applicazione del nuovo indice “ISEE” e non contiene una rivalutazione

proporzionale con la situazione precedente e il calcolo del patrimonio immobiliare
su base ICI, comunque non più in vigore e non più invocabile.
Parimenti infondato è l’ottavo motivo di ricorso.
Il dovere di solidarietà familiare sopra richiamato non può che essere interpretato
unitariamente, così che la compartecipazione al calcolo reddituale per coniugi e figli
conviventi deve essere uniforme. Ciò nel rispetto dell’art. 5 d.l. n. 201/2011 cit. che
impone di tenere conto dei pesi dei carichi familiari e ferma restando la facoltà, pure

sopra ricordata, di cui all’art. 2 d.p.c.m. cit. di consentire agli enti erogatori criteri
ulteriori di selezione accanto all’ISEE.

Infondato è anche il nono motivo, in quanto l’esposizione normativa deve
intendersi allo stato attuale e non è prevista alcuna esclusione della possibilità di
revisione e aggiornamento delle franchigie e detrazioni, sia su impulso della stessa
Amministrazione che delle parti sociali interessate, al fine di renderle efficaci nel
tempo.
Premesso ciò, resta da esaminare il sesto motivo di ricorso, di cui il Collegio
riconosce invece la fondatezza.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 d.l. cit. rispetto agli artt.
3, 32 e 38 Cost., ad opinione del Collegio, comporta che la disposizione la quale
è anche il nono motivo, in quanto l’esposizione normativa deve
intendersi allo stato attuale e non è prevista alcuna esclusione della possibilità di
revisione e aggiornamento delle franchigie e detrazioni, sia su impulso della stessa
Amministrazione che delle parti sociali interessate, al fine di renderle efficaci nel
tempo.
Premesso ciò, resta da esaminare il sesto motivo di ricorso, di cui il Collegio
riconosce invece la fondatezza.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 5 d.l. cit. rispetto agli artt.
3, 32 e 38 Cost., ad opinione del Collegio, comporta che la disposizione la quale

prevede di “…adottare una definizione di reddito disponibile che includa la
percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale…valorizzando in
misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all’estero…” debba
essere nel senso per cui la volontà del legislatore coincideva con la necessità di
eliminare precedenti situazioni ove si rappresentavano privi di reddito soggetti in
realtà dotati di risorse, anche cospicue, ma non sottoponibili a dichiarazione IRPEF.

A tale scopo possono essere richiamati i redditi prodotti e tassati all’estero (ed ecco
il richiamo alla componente patrimoniale sita all’estero di cui all’art. 5 cit.), le

pensioni estere non tassate in Italia, i lavoratori di stato estero (Città del Vaticano),
i lavoratori frontalieri con franchigia esente IRPEF, il coniuge divorziato che
percepisce assegno di mantenimento di figli.
Più che da un risparmio di spesa, tale impostazione normativa era orientata a
rispettare un principio di uguaglianza e proporzionalità, ai fini del rispetto dell’art.
38 Cost., legato all’”emersione” di situazioni solo apparentemente equivalenti ad

assenza di reddito effettivo.
Il d.p.c.m., quindi, per non incorrere nella violazione di legge e nella ancor più diretta
violazione delle norme costituzionali sopra richiamate, avrebbe dovuto dare luogo
a disposizione orientate in tale senso, approfondendo le situazioni in questione ed

aprendo il ventaglio delle possibilità di sottoporre la componente di reddito ai fini elle possibilità di sottoporre la componente di reddito ai fini

ISEE a situazioni di effettiva “ricchezza”.
Con la disposizione di cui all’art. 4, comma 2, lett. f), d.p.c.m. cit., invece, la
Presidenza del Consiglio ha disposto che “Il reddito di ciascun componente il nucleo

familiare è ottenuto sommando le seguenti componenti…f) trattamenti assistenziali, previdenziali

e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche,
laddove non siano già inclusi nel reddito complessivo di cui alla lettera a);”, vale a dire nel

reddito complessivo IRPEF.

Ebbene, la genericità e ampiezza del richiamo a trattamenti “assistenziali,
previdenziali e indennitari” comporta indubbiamente che nella definizione di
“reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l. cit. sono stati considerati tutti i proventi che
l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche

economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie.
Non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che
dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla
componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti
riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle

situazioni di “disabilità”, quali le indennità di accompagnamento, le pensioni INPS

alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico, gli indennizzi
da danno biologico invalidante, di carattere risarcitorio, gli assegni mensili da
indennizzo ex ll. nn. 210/92 e 229/05.
Tali somme, e tutte le altre che possono identificarsi a tale titolo, non possono

costituire “reddito” in senso lato né possono essere comprensive della nozione di
“reddito disponibile” di cui all’art. 5 d.l. cit., che proprio ai fini di revisione dell’ISEE
e della tutela della “disabilità”, è stato adottato.
Né può convenirsi con l’osservazione secondo cui tale estensione della nozione di
“reddito disponibile” sarebbe in qualche modo temperata o bilanciata

dall’introduzione nello stesso d.p.c.m. di deduzioni e detrazioni che ridurrebbero
l’indicatore in questione a vantaggio delle persone con disabilità nella nuova
’introduzione nello stesso d.p.c.m. di deduzioni e detrazioni che ridurrebbero
l’indicatore in questione a vantaggio delle persone con disabilità nella nuova

disciplina.

Tale tesi non tiene conto dell’effettiva volontà del legislatore, costituzionalmente

orientata e tesa a riequilibrare situazioni di carenza fittizia di reddito e non ad

introdurre specifiche detrazioni e franchigie su un concetto di “reddito”

(impropriamente) allargato.
Non è dimostrato, in sostanza, che le compensazioni di cui allo stesso art. 4 d.p.c.m.
siano idonee a mitigare l’ampliamento della base di reddito disponibile introdotta né

che le stesse possano essere considerate equivalenti alla funzione sociale cui danno
luogo i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a
qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche per situazioni di accertata

“disabilità”.

Alla luce di quanto detto, quindi, il d.p.c.m. impugnato si palesa illegittimo laddove

prevede al richiamato art. 4, comma 2, lett. f), una nozione di “reddito disponibile”
eccessivamente allargata e in discrepanza interpretativa con la “ratio” dell’art. 5 d.l.

cit.
L’Amministrazione dovrà quindi provvedere a rimodulare tale nozione valutando
attentamente la funzione sociale di ogni singolo trattamento assistenziale,
previdenziale e indennitario e orientandosi anche nell’esaminare situazione di

reddito esistente ma, per varie ragioni, non sottoposto a tassazione IRPEF.
Per quanto dedotto, quindi, il ricorso deve essere accolto solo in parte.
Le spese del giudizio possono eccezionalmente compensarsi per la novità della
fattispecie.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente
pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte nei sensi
di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla l’art. 4, comma 2, lett. f), d.p.c.m. n.
159/2013 impugnato. Salve ulteriori determinazioni dell’Amministrazione. 159/2013 impugnato. Salve ulteriori determinazioni dell’Amministrazione.

Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 19 novembre 2014 con
l’intervento dei magistrati:
Raffaello Sestini, Presidente FF
Anna Bottiglieri, Consigliere
Ivo Correale, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/02/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Centro di Documentazione Giuridica: Ancora una volta muta l’orientamento della Cassazione sulla sottoposizione ad un tetto di reddito per la pensione non reversibile dei non vedenti, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione civile, sezione sesta, con la sentenza n. 24004 dell’11 Novembre 2014 di cui segue breve commento e riproduzione integrale del testo in calce.
La decisione della Suprema Corte si uniforma alla precedente sentenza n. 24192/2013 secondo cui “La pensione non reversibile per i ciechi civili assoluti di cui all’art. 7 legge 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiario dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’art. 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 di conversione del d.l. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’art. 68 della legge 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’INPS, sia l’art. 8, comma 1 bis, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in legge 12 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione INPS in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi di norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica.”
La Sezione Sesta della Suprema Corte ritorna su una vexata questio ribadendo che lo stato di bisogno va inteso quale requisito indispensabile per l’ottenimento e la conservazione della pensione per i ciechi civili totali o parziali di cui all’art. 7 della legge n. 62 del 1966.
Ribadisce la Corte tra l’altro che l’attribuzione di una pensione di previdenza o di assistenza sociale ha presupposti e finalità differenti, sebbene la categoria da tutelare sia la stessa (nel caso di specie, persone affette da cecità congenita o sopravvenuta).
Per tale motivo, la Suprema Corte, data la natura specifica ed eccezionale della normativa conferma come non sia possibile estendere per analogia la normativa inerente i trattamenti assistenziali a una situazione che prevede invece la revoca dei benefici di tipo previdenziale (come nel caso della ricorrente).
Distingue dunque la Corte la finalità propria della pensione assistenziale da quella della pensione previdenziale.
La prima, dunque, concorre ad integrare il reddito del soggetto colpito da cecità – c.d. mancato guadagno – il quale deve versare in stato di bisogno per poterne beneficiare. Precisando che la quantificazione del bisogno economico (calcolato sulla base del reddito ai fini IRPEF) e il non superamento della soglia determinata per legge, è dunque requisito indispensabile per ottenere tale forma di pensione integrativa.
La seconda al contrario, (la pensione previdenziale) prescinde dall’eventuale recupero del mancato guadagno da parte del soggetto interessato, essendo anzi la sua finalità ultima quella di favorire l’inserimento – o il reinserimento – del cieco nel mondo del lavoro, “evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un connesso reddito consegua la perdita della pensione”.
Ancora una volta nonostante precise norme di legge, ossia gli artt.  68 l. 153/1969 e 8 del d.l. n. 463 del 1983, tuttora in vigore, prevedano espressamente che “le disposizioni di cui al secondo comma dell’articolo 10 del regio decreto-legge 14 aprile 1939 n.636 (secondo cui la pensione di invalidità viene soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore ai limiti previsti dalla legge), non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un’attività lavorativa”, e sebbene la S.C., con pronuncia a Sezioni Unite n. 3814/2005, abbia espressamente confermato la piena vigenza di tale eccezionale previsione, chiarendone, poi, limiti e portata normativa con la pronuncia n. 15646 del 18 settembre 2012, l’orientamento della Corte di Cassazione muta.
A due anni da tale favorevole pronuncia, la Suprema Corte è nuovamente intervenuta in consapevole dissenso con il richiamato precedente ritenendo che “la pensione non reversibile per i ciechi civili (assoluti o parziali) di cui agli arti 7 e 8 della L. 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiano dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’ari 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’ari 12 della L. 30 mano 1971, n. 118 di conversione del D.L. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’ari 68 della L. 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S., sia l’ari 8, comma 1 bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in L. 11 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione I.N.P.S. in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi dì norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’ari 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica”.
Malgrado nella commentata sentenza la Corte abbia escluso la devoluzione della materia alle Sezioni Unite in quanto la decisione è in linea e non in contrasto con quella precedente (Cass. Sezioni Unite del n.3814 del 2005) si auspica che una nuova pronuncia a Sezioni Unite possa, al più presto, ribadire le statuizioni della sentenza del 2005 e creare una situazione di certezza interpretativa delle norme.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ESENTE
SESTA SEZIONE CIVILE –
Composta dagli Ill.mi Sigg.n Magistrati:
Dott. PIETRO CURZIO – Presidente –
Dott. ROSA ARIENZO – Consigliere –
Dott. DANIEJ4A BLASUTTO – Consigliere –
Dott. FABRIZIA GARRI – Consigliere –
Dott. CATERINA MAROTI’A – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 174-2013 proposto da:
SD (X ), elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO NICOLAI N. 70, presso lo studio dell’avvocato LUCA GABRIELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato PIERA SOMMOVIGO giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (X ), in persona dei legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE
BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 624/2012 della CORTE D’APPELLO di GENOVA del 25/05/2012, depositata il 26/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’08/10/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MARO’ITA;
udito l’Avvocato PIERA SOMMOVIGO difensore della ricorrente che si riporta ai motivi;
udito l’Avvocato MAURO RICCI difensore del controricorrente che si riporta ai motivi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello, giudice del lavoro di Genova, decidendo sull’appello proposto da DS nei confronti dell’I.N.P.S., confermava la decisione del Tribunale della stessa sede che aveva respinto la domanda della S diretta ad ottenere il ripristino della pensione di invalidità civile per i ciechi che era stata sospesa per il superamento dei limiti di reddito. Riteneva la Corre genovese che la L. n. 638 del 1983, art. 8, comma I bis, riguardante una prestazione previdenziale, non potesse essere applicata anche al caso di specie avente ad oggetto una diversa prestazione (assistenziale).
Per la cassazione di tale sentenza DS propone ricorso affidato ad un motivo.
L’I.N.P.S. resiste con controricorso illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo la ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 68 della L. n. 153 del 1969, dell’art 10 del RD. n. 636 del 1939 come novellato dall’art. 8 del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella L. n. 638 del 1983”. Sostiene che, pur posta l’incompatibilità con i benefici di tipo assistenziale della disciplina derogatoria di cui all’art. 68 della legge n. 153/1969, la stessa si applicherebbe alle prestazioni di carattere sociale ovvero a quelle aventi per finalità il reinserimento dell’invalido cieco nella comunità. Invoca il precedente di questa Corte del 18 settembre 2012, n. 15646 che ha affermato il seguente principio di diritto: “La particolare disciplina prevista dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68 – che, derogando alla generale normativa posta dal R.D.L 14 aprile 1939, n. 636, art. 10 (secondo cui la pensione di invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato non è più inferiore ai minimi di legge), persegue la finalità di favorire il reinserimento sociale dell’invalido, non distogliendolo dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa – va letta in senso costituzionalmente orientato (arti. 2, 3, 4 c 38 Cost.), sicché la stessa esclude che la pensione di invalidità già riconosciuta all’assicurato in ragione della sua cecità possa essergli revocata qualora siano mutati i suoi redditi per effetto del conseguimento di una nuova occupazione”.
2. Il ricorso non è fondato.
Questa Corte valuta di conformarsi alla decisione n. 24192/2013 che, in consapevole dissenso con il precedente contrario costituito dalla citata sentenza n. 15646/2012 (che fa riferimento alla prestazione assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, ma applica i principi relativi alla prestazione previdenziale di cui alla L. n. 153 del 1969 ed al D.L. n. 463 del 1993, art. 8, come si evince anche dal richiamo, contenuto nel principio di diritto, all’”assicurato” in luogo dell’assistito), ha ritenuto
che non sia possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale previsto dalla L. n. 66 del 1962 (e, dunque, tanto alla pensione per ciechi assoluti quanto a quella per ciechi parziali), il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale
– si veda anche in senso conforme Cass. n. 8752/2014-.
Come è noto, la pensione (non reversibile) per i ciechi (assoluti o parziali) è stata istituita dalla L. 10 febbraio 1962, n. 66 “Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili”. L’art 7 di tale legge così prevede: “Ogni cittadino affetto da cecità congenita o contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul lavoro o in servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile qualora versi in stato di bisogno”. I1 successivo art. 8 aggiunge: “Tutti coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18” anno di età”. La misura della prestazione è stata modificata dalla L. 27 maggio 1970, n. 382, art. 1 (quest’ultima regolamenta la materia ancora oggi). Essa è, dunque, concessa ai maggiorenni ciechi assoluti o ai soggetti di ogni età ciechi parziali che si trovino in stato di bisogno economico. Tale stato di bisogno è stato inizialmente indicato con riferimento alla non iscrizione nei moli per l’imposta complementare sui redditi (L. n. 382 del 1970, art 5) e, dopo l’abrogazione di tale tipo di imposta, identificato nel possesso di redditi assoggettabili ad IRPEF dì un ammontare inferiore ad un certo limite (v. DL. n. 30 del 1974, art. 6, conv. in L. n 114 del 1974 e DL. n. 663
del 1979, art. 14 septies, conv. in L. 29 febbraio 1980, n. 33) – cfr. Cass. 5 agosto 2000, n. 10335; id. 21 giugno 1991, n. 6982; 12 aprile 1990, n 3110; 22 novembre 2001, n. 14811). I1 limite di reddito da tenere in considerazione è, dunque, il medesimo stabilito per la pensione di invalidità di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 12, essendo unica la disciplina contenuta nel citato D.L. n. 663 delm 1979, ari 14 septies.
Nello specifico, la pensione di invalidità civile per i ciechi, già a suo tempo concessa, era stata poi revocata, per superamento da parte della beneficiaria dei limiti reddituali.
Orbene, la prestazione dì cui è richiesto il ripristino ha natura di prestazione assistenziale di invalidità civile, sicuramente integrativa del presunto mancato guadagno derivante dalla condizione di minorità dovuta alla patologia.
Non può, invero, ritenersi che la disposizione di cui alla citata L. n. 66 del 1962, ari 8, sia stata superata dalla previsione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, ari 68, che stabilisce che “le disposizioni di cui al RD.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2, il quale, a sua volta, stabilisce che la pensione di invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore a determinati limiti, non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un’attività lavorativa. Le pensioni revocate ai sensi della norma precitata sono ripristinate con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge”. La disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, ari 68 (come, del resto, quella di cui al RD.L. 14 aprile 1939, n. 636, ari 10, comma 2) è dettata per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. ed a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, presupponente un rapporto contributivo (in particolare il R.D.L. n. 636 del 1939, art. 9, fa riferimento alla pensione riconosciuta all’invalido a qualsiasi età quando siano maturati determinati requisita contributivi).
La questione è innanzitutto se tali disposizioni, non espressamente dettate per le prestazioni assistenziali di invalidità civile, possano essere applicate anche a queste ultime, costituendo un principio generale di irrilevanza dei redditi per i ciechi che beneficiano di pensioni, o non si pongano piuttosto come nonne eccezionali.
Non può invero sostenersi (e sul punto pare concordare la stessa ricorrente) che tale applicabilità troverebbe fondamento nella sentenza 3814/2005 che questa Corte ha emanato a Sezioni Unite. In realtà alla L. ti. 153 del 1969, n. 68, ha fatto seguito il D.L. 12 settembre 1983, ti. 463, art. 8, comma i bis, conv. in L. 12 novembre 1983, ti. 638, secondo il quale “Resta ferma la disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, indipendentemente dal reddito percepito dal pensionato”. Tale norma, dunque, stabilisce che il riacquisto della capacità di guadagno nonché da un reddito da lavoro da parte del cieco non comporta la perdita della pensione. Secondo una prima interpretazione, fatta propria da Cass. 30 luglio 1999, ti. 8310; Id. 8 marzo 2001, n. 3359; 19 luglio 2002, n. 10609; 19 maggio 2003, ti. 7833 e da ultimo in qualche modo ripresa dalla sopra citata Cass. 2012/15646, la norma avrebbe sancito un principio generale di irrilevanza del reddito del beneficiano anche ai fini del riconoscimento dei trattamenti di assistenza in favore dei ciechi. Altro orientamento, cui questa Corte ritiene di aderire, – Cass. 26 settembre 1988, n. 5252; Id. 23 marzo 1998, n. 3027; Cass. Sez. Un. 24 febbraio 2005, n. 3814; Cass. 26 marzo 2009, n. 7308 oltre alla già citate Cass. n. 15646/2012 – sostiene, invece, la finalità limitata dell’art. 68, inteso solamente a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un connesso reddito consegua la perdita della pensione. Invero, nella predetta decisione a Sezioni unite è stato precisato: “la previsione, in favore dei ciechi, della conservazione del trattamento pensionistico nonostante la carenza sopravvenuta di uno dei presupposti, e in particolare del requisito reddituale, persegue la finalità di favorire il loro reinserimento sociale, non distogliendo l’invalido dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa, senza che da tale finalità possa desumersi, in contrasto con il dato letterale delle richiamate disposizioni, l’espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità dei ciechi, con conseguente estensione a questi ultimi della integrazione al minimo della pensione” si veda anche Cass. n. 7308 del 26/03/2009 -. Va, peraltro, considerato che le pronunce da ultimo citate sono state emanate in una materia diversa da quella per cui è causa e cioè nella materia di integrazione al minimo dei trattamenti pensionistici riservati ai minorati della vista. Questa Corte ha in tale sede ritenuto che sia possibile la conservazione della pensione da parte di un soggetto cieco anche dopo l’inizio di una attività lavorativa, con connessa acquisizione di un reddito anche elevato, poiché tale trattamento economico risponde alla specifica finalità di inserire i soggetti non vedenti nelle attività produttive. Ha anche sottolineato che detto principio si basa sul disposto di due norme definite “specialissime e di stretta interpretazione”: il D.L. 12 settembre 1983, n. 4631, art. 8, comma I bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e la L. 30 aprile 1996, n. 1532, art. 68. Per effetto del combinato disposto delle norme suddette, l’acquisizione da parte del cieco di una capacità lavorativa e del reddito da essa derivante non comporta la perdita della pensione, che, se revocata per questo solo motivo, deve essere ripristinata interamente. E questo perché la finalità specifica della provvidenza economica è intesa a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro, evitando che al reperimento di un’attività lavorativa (e del reddito connesso) consegua la perdita della pensione. La deroga in favore dei ciechi al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità con reddito da lavoro si spiega, come è stato precisato, anche con la necessità di tutelare “l’affidamento riposto dal cittadino cieco nell’ammontare del beneficio previdenziale su cui egli ha costruito il proprio tenore di vita e coltiva i propri progetti”. Tale indirizzo, dunque, espresso con riferimento ad una prestazione pensionistica conseguita nel regime dell’assicurazione obbligatoria I.N.P.S. (l’integrazione al minimo è istituto proprio del regime generale previdenziale), non è automaticamente estensibile, proprio in ragione della affermata specialità del D.L. 12 settembre 1983, n. 4631, art. 8, comma I bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e della L. 30 aprile 1996, art. 68, norme ritenute di “stretta interpretazione” e non è, perciò, invocabile con riguardo alle pensioni per cecità civile di cui alla ridetta L. 10 febbraio 1962, n. 66. Sebbene nella citata sentenza resa da questa Corte a Sezioni unite si faccia riferimento alla pensione di invalidità civile laddove invece la fattispecie esaminata concerneva una pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. prima dell’attribuzione allo stesso delle competenze in materia di benefici assistenziali, e quindi una pensione certamente disciplinata dalla L. n. 153 del 1969, art. 68 e DL. n. 463 del 1983, art. 8, stame l’affermato carattere eccezionale delle disposizioni di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 68 e D.L. n. 463 del 1983, aia. 8, non è possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale. Del resto l’attribuita rilevanza del reddito ai fini del riconoscimento della “integrazione al minimo” e cioè di quella maggiorazione che non trova corrispondenza nei contributi versati ma soccorre a garantire il minimo vitale (gravando sul bilancio dello Stato) è significativa del fatto che il principio della irrilevanza del reddito non potesse che essere stato riferito alla sola pensione maturata nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria e non anche a quella di invalidità civile (assistenziale). Se, infatti, il reddito rileva quando lo Stato partecipa al sostegno della previdenza (nei limiti di una maggiorazione integrativa), a maggior ragione deve ritenersi tale rilevanza quando è l’intero trattamento ad essere a carico dell’erario.
Da tanto consegue che per la prestazione oggetto di causa, per la quale, si ribadisce, presupposto di legge imprescindibile è lo stato di bisogno di cui ai sopra citati art. 7 della L. a 66 del 1962 e vi. 5 della L. n. 382 del 1970, il requisito reddituale resta rilevante, considerato, peraltro, che la pensione ai ciechi civili è dovuta, a differenza di quella di invalidità civile ex lege n. 118 del 1971 e di quella di invalidità ex lege n. 222 del 1984, indipendentemente dalla incidenza dello stato di minorazione sulla capacità di lavoro, spettando anche oltre il raggiungimento dell’età pensionabile (v. Cass. 26 maggio 1999, n. 5138).
Si è, in sostanza, in presenza di differenti misure protettive dell’invalidità in cui diverse sono le modalità di finanziamento delle prestazioni: quelle previdenziali – che trovano fondamento nella previsione di cui all’ari 38 Cost., comma 2 – sono alimentate dai contributi gravanti sugli specifici soggetti obbligati ed i datori di lavoro; quelle assistenziali – che fanno capo all’ari 38 Cost., comma I – sono finanziate dallo Stato attraverso il ricorso alla fiscalità generale. Se pure è vero che lo Stato partecipa anche al sostegno della previdenza qualora i mezzi raccolti con i versamenti contributivi siano insufficienti (come nel caso della integrazione al minimo), i due territori rimangono concettualmente e giuridicamente ben distinti e questo giustifica trattamenti legislativi differenti in relazione ai quali va esclusa ogni violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Né può ravvisarsi una violazione dell’ari 2 della Cost. considerato che il legislatore ha previsto, in favore dei ciechi, specifiche prestazioni che prescindono dalla condizione reddituale (così l’indennità di accompagnamento per cecità assoluta di cui all’art. 1 della L. 28 marzo 1968, n. 406 e l’indennità speciale per ciechi parziali di cui all’ari 3 della L. 21 novembre 1988, ci. 508).
3. Alla luce delle considerazioni che precedono va ribadito il principio secondo cui la pensione non reversibile per i ciechi civili (assoluti o parziali) di cui agli arti 7 e 8 della L. 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiano dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’ari 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’ari 12 della L. 30 mano 1971, n. 118 di conversione del D.L. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’ari 68 della L. 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S., sia l’ari 8, comma 1 bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in L. 11 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione I.N.P.S. in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi dì norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’ari 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica; tale principio è da ritenersi, per i motivi sopra evidenziati, in linea (e non in contrasto) con quanto affermato da questa Corte nella decisione n. 3814/2005 così da escludere la necessità di una devoluzione della questione alle Sezioni unite.
4. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
5. La controvertibilità delle questioni trattate e l’esistenza di precedenti difformi di questa stessa Corte di legittimità giustificano la compensazione tra le pani delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma l’8 ottobre 2014.
Il Consigliere estensore Il Presidente

Messaggio 417/2015 dell’INPS: pensione anticipata piena dal 1 gennaio 2015

Autore: Avv. Paolo Colombo

L’INPS ha recepito quanto previsto dalla Legge di Stabilità 2015 e dall’1 gennaio 2015, ha eliminato la decurtazione dell’1% o 2% alla pensione anticipata prevista a decorrere da quest’anno per coloro che maturano il requisito contributivo pieno entro la fine del 2017. L’istituto previdenziale lo ha comunicato con il messaggio 417/2015, applicando quindi la novità introdotta dalla manovra in attesa che vengano diramate istruzioni operative.

Si rende operativa una modifica alla Riforma Fornero introdotta dalla Legge di Stabilità 2015, ovvero del comma 113 che prevede appunto che le pensioni anticipate decorrenti a partire dal 2015 non abbiano più la riduzione prevista dalla Legge Fornero (articolo 24, comma 10, Dl 201/2011), purchè maturino il requisito pieno di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017. Prima di questa disposizione, quindi fino allo scorso 31 dicembre 2014, la Riforma Fornero prevedeva un taglio dell’assegno previdenziale pari all’1% per ogni anno di anticipo rispetto all’età minima (62 anni), e del 2% per ogni anno prima dei 60 anni. La norma si applica solo a chi sceglie il pensionamento anticipato e si ritira prima dei 62 anni avendo però almeno 42 anni e sei mesi per gli uomini e 41 anni e sei mesi per le donne.

Lavoratori precoci

In realtà, c’era già una disposizione di legge, l’art. 6 comma 2 quater , del decreto –legge 216/2011, che toglieva questa decurtazione,  anche se non operava per tutti.  Esso  prevedeva di non applicare il taglio dell’1% o 2% ai cosiddetti lavoratori precoci, ovvero coloro che avevano tutti i contributi derivanti esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro. Si potevano conteggiare anche i periodi di maternità, infortunio, malattia, congedi parentali, permessi per assistere un parente in condizione di handicap grave, assolvimento degli obblighi di leva, cassa integrazione guadagni ordinaria, ma includeva  altre tipologie di contributi (ad esempio, il riscatto della laurea, o eventuali periodi di contribuzione volontaria).

Requisito contributivo viene ampliato

Con la Legge di Stabilità, invece, si estende la possibilità della pensione piena a tutti i lavoratori che maturano il requisito contributivo, indipendentemente dalla tipologia di contributi versati. Pertanto l’INPS, in attesa di più precise istruzioni operative, anche in ordine alla corretta interpretazione del coordinamento di tutte le regole sopra citate, ha deciso di applicare subito la modifica contenuta nella manovra, pagando quindi la pensione anticipata piena a chi si ritira con il requisito contributivo nel 2015.

Segue in calce il testo del messaggio dell’Istituto di Previdenza.

Caserta, 4 febbraio 2014.

Avv. Paolo Colombo

 

Messaggio Inps 417/2015

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 300 del 29 dicembre 2014, Supplemento ordinario n. 99, è stata pubblicata la legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)”.

L’articolo 1, comma 113, della citata legge così dispone: “Con effetto sui trattamenti pensionistici decorrenti dal 1º gennaio 2015, il secondo periodo del comma 2-quater dell’articolo 6 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: «Le disposizioni di cui all’articolo 24, comma 10, terzo e quarto periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di riduzione percentuale dei trattamenti pensionistici, non trovano applicazione limitatamente ai soggetti che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017»”.

Com’è noto, l’articolo 24, comma 10, terzo e quarto periodo, del decreto legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, ha stabilito che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, nei confronti dei soggetti che accedono alla pensione anticipata ad un’età inferiore a 62 anni si applica, sulla quota di trattamento pensionistico calcolata secondo il sistema retributivo, una riduzione pari ad 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni; tale percentuale annua è elevata a 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni. Nel caso in cui l’età al pensionamento non sia intera la riduzione percentuale è proporzionale al numero di mesi (vedi circolari n. 35, punto 2 e n. 37, punto 8, del 2012).

Inoltre, l’articolo 6, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, così come modificato dalla legge del 30 ottobre 2013, n. 125, di conversione del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101 e dalla legge 27 dicembre 2013 n. 147, ha stabilito che le disposizioni di cui al citato articolo 24, comma 10, terzo e quarto periodo, non trovano applicazione limitatamente ai soggetti che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva per il diritto alla pensione anticipata entro il 31 dicembre 2017, qualora la predetta anzianità contributiva derivi esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro, includendo i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per l’assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia e di cassa integrazione guadagni ordinaria, nonché per la donazione di sangue e di emocomponenti, come previsto dall’articolo 8, comma 1, della legge 21 ottobre 2005, n. 219, e per i congedi parentali di maternità e paternità previsti dal testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché i congedi e i permessi concessi ai sensi dell’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (vedi messaggi n. 219, punto 5, del 4 gennaio 2013 e n. 5280 dell’11 giugno 2014).

Ciò posto, in attesa che vengano diramate le istruzioni operative relative all’applicazione della norma in oggetto, con effetto sulle pensioni anticipate nel sistema misto decorrenti dal 1º gennaio 2015, limitatamente ai soggetti che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017, le Sedi avranno cura di non applicare le disposizioni in materia di riduzione percentuale della pensione anticipata di cui ai citati articolo 24, comma 10, terzo e quarto periodo, e articolo 6, comma 2-quater.