La legislazione italiana sulla disabilità, si sente dire spesso, è forse una delle più avanzate d’Europa per la specificità degli argomenti, a seconda delle patologie di cui si parla. Un titolo di benemerenza, dunque, se non si creassero contraddizioni nei modi di ottemperare agli obblighi che la legge impone.
Per riflettere insieme a voi sulla sindrome del “possono o devono”, ho scelto due articoli della legge 107 del 24 giugno 2010 che riconoscono la sordocecità come una disabilità specifica. L’articolo 4 della legge in questione che tratta di interventi per l’integrazione e il sostegno sociale delle persone sordocieche, chiude con la seguente affermazione: “devono tenere conto delle misure di sostegno specifico necessarie per la loro integrazione sociale”. Per le risorse finanziarie, per la realizzazione di progetti individuali per le persone sordocieche, il riferimento legislativo è la legge 328 del 2000, l’articolo 14. Ineccepibile è il legislatore che individua come offrire risposte individualizzate per questa disabilità.
Estrapoliamo per un attimo quel “devono” perché il significato di questa parola, “essere obbligati, tenuti a fare”, ci dà la misura di come il legislatore vuole che le istituzioni si comportino al cospetto di una persona sordocieca.
Fin qui tutto bene perché anche sulle risorse da destinare la legge è molto chiara.
Osserviamo ora come cambia la lettura dell’intero provvedimento quando passiamo all’articolo 5.
In questo caso, parlando del compito delle regioni, il legislatore afferma che: “le regioni possono individuare specifiche forme di assistenza individuale ai soggetti sordociechi, con particolare riferimento alla fornitura di sostegno personalizzato mediante guide-comunicatori e interpreti”.
Interessanti gli strumenti individuati per rispondere alle esigenze dei sordociechi ma, alla parola regioni, segue il verbo “possono”, facoltà di fare secondo la propria volontà.
Ecco il punto di rottura e di discriminazione che nella legislatura italiana campeggia molto spesso: offrire a un organismo dello Stato la facoltà di decidere se rispondere o meno ad esigenze particolari come nel caso delle persone affette da disabilità.
L’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti ha condotto numerose azioni rivendicative sin dalla sua nascita, il 26 ottobre 1920, per affermare i diritti delle persone cieche e, fino ad un certo punto della sua storia, le cose sono andate bene perché, oltre al diritto, si era costruita anche una sensibilità sociale in favore di questa categoria.
I tempi, poco alla volta, sono mutati e con essi, anche gli atteggiamenti di una parte della società e della politica le quali tendono sovente a scaricare sulle persone con disabilità le varie ondate di crisi, come quella globale del 2007. Appoggiate da una parte della stampa, queste teorie si sono consolidate in base al messaggio che una persona con minorazioni sarebbe da considerare privilegiata, perché godrebbe di una specifica indennità che inciderebbe in modo rilevante sul deficit della finanza pubblica.
Ritornando alla 107 del 2010, qualcuno si è mai chiesto cosa vuol dire vivere la propria vita solo grazie all’ausilio di guide, comunicatori o interpreti?
Evitando vittimismi, che non ci appartengono, non riusciamo a concepire come la dignità e la libertà di un minorato della vista, di un sordocieco o di una persona con disabilità in generale debba essere legata alla facoltà decisionale di enti territoriali. Di fatto si afferma che, le persone in difficoltà, devono superare un ulteriore giudizio, dopo quello della commissione medica e non solo, prima che venga loro riconosciuto il Diritto di vivere in modo dignitoso. Questo esame, che la legge impone alle regioni e agli enti territoriali, come criteri valutativi avrà la simpatia, il colore politico, la capacità di manifestare il bisogno o quella di alzare la voce.
Queste sottigliezze di sostituzione del verbo da un articolo all’altro di una legge, trasformano in maniera rilevante il valore e i benefìci della legge stessa.
Abbiamo preso come esempio la legge 107/2010 per riallacciarci alla prima giornata nazionale del sordocieco, ma in tante leggi che ci riguardano, l’uso dei verbi “possono” e “devono” è ugualmente presente ed è per questo che i processi di sviluppo, nella gestione della problematica delle disabilità, subiscono battute d’arresto che rallentano o annullano il beneficio per coloro che ne fanno legittima richiesta.
Il nostro impegno principale dovrà incentrarsi nel recupero dei ritardi creati dalla legislazione, allorquando demanda ad altri, e in particolare agli enti locali, la facoltà di decidere di noi.
Non accetteremo proclami perché partiamo dalla consapevolezza che anche noi dovremo fare la nostra parte per contribuire ad uno sviluppo più omogeneo della società.
Non saremo in posizione passiva ma pronti a rispondere con azioni adeguate per conquistare quel Diritto a partecipare alla costruzione di una nuova inclusione sociale e solidale.
Chiediamo di cambiare rotta sull’esercizio dei Diritti affinché, dal centro alla periferia, nelle leggi e nei comportamenti in favore delle persone con disabilità, non venga mai posta in discussione la pari dignità, per offrire a tutti, sempre, le pari opportunità.