Presentazione candidatura, di Antonio Quatraro

Autore: Antonio Quatraro

Mi presento:

sono diversamente giovane (1946). Ho studiato al S. Alessio di Roma, dove ho conseguito il diploma di pianoforte e la maturità classica. A Firenze mi sono laureato in storia e filosofia, e ho iniziato a lavorare come insegnante di musica presso l’istituto di Firenze. Poi sono stato insegnante di sostegno agli inizi dell’integrazione. Poi ho insegnato tiflologia nei vari corsi di specializzazione per insegnanti di sostegno pubblici e privati, e ancora oggi tengo laboratori nell’ambito dei corsi universitari di specializzazione.

Da giovane ho avuto la possibilità di imparare l’inglese, il francese ed il tedesco, trascorrendo qualche mese ogni anno presso istituzioni o famiglie dei rispettivi Paesi. Poi ho iniziato lo studio del russo e cinese, a suo tempo, utilizzando l’optacon, quel marchingegno che converte in segnali tattili, lettere e segni grafici.

Fin da ragazzo mi piaceva giocare con il meccano e tutto ciò che è tecnologia continua ad affascinarmi.

Subito dopo il mio arrivo a Firenze (1967) ho conosciuto i dirigenti locali della nostra unione, Vincenzo Ventura, Luigi Borrani, Matteo Allocco, e Giuseppe Fucà.

Ho avuto anche piccoli incarichi, tra cui ricordo con nostalgia la rivista “Sonorama”, mensile di informazione registrato su nastro magnetico. Poi “il portavoce”, sia su nastro che su audiocassette.

Nel 1975, in collaborazione con Paolo Graziani del CNR, con l’ECAP, una agenzia formativa di derivazione sindacale, abbiamo realizzato il primo corso per programmatori ciechi, dove si studiava il linguaggio Fortran ed il linguaggio Cobol.

In quegli anni ho potuto visitare i principali centri europei: Gran Bretagna, Germania, ecc..

Ho partecipato attivamente al movimento del 68, entrando in confronto dialettico con i dirigenti di allora. Il punto che ci divideva era l’integrazione scolastica, ed è comprensibile, considerando il fatto che a Firenze c’era l’Istituto nazionale dei ciechi, quello fondato da Nicolodi.

Ho preso parte attivamente al passaggio dei compiti e del patrimonio dell’Istituto di Firenze agli Enti Locali. Fu una pagina di storia molto appassionata, per usare un eufemismo. A beneficio dei più giovani debbo precisare che – siamo alla fine degli Anni Settanta – tutto il personale dipendente dell’istituto fu favorevole al passaggio al comune di Firenze, in quanto le finanze dell’Istituto erano in sofferenza, mentre la prospettiva di uno stipendio sicuro risultò preferibile.

In quegli anni, insieme al prof. Eliseo Ventura, figlio del preside Vincenzo Ventura, andavamo a visitare le famiglie e le scuole in quasi tutta la Toscana, con lo spirito dei pionieri, per  promuovere, con consigli e con la testimonianza, l’idea che si potesse evitare il ricovero in istituto, ottenendo comunque buoni risultati.

A Firenze avevamo alcuni ottimi esempi di successo: Il prof. Carlo Monti, docente di filosofia presso un liceo fiorentino, non aveva mai messo piede in un istituto per ciechi. E non era l’unico esempio che portavamo a conferma delle nostre idee.

Poi entrai nel consiglio direttivo della sezione di Firenze e lì organizzamo i primi stages, invernali ed estivi, rivolti ai nostri ragazzi e, in alcuni casi, con la presenza dei genitori.

Sempre negli Anni ’80 ho collaborato con Paolo Graziani alla realizzazione del programma Italbra, oggi adottato dai principali centri di trascrizione. Un programma allora davvero all’avanguardia, pensato per ottenere trascrizioni in Braille professionali, ossia rispettose delle potenzialità e dei limiti connessi con la lettura tattile. Non è quindi un semplice copiatore, né un traduttore automatico, ma è uno strumento che facilita il lavoro di scrittura e di adattamento tiflologico svolto dal trascrittore qualificato, in funzione delle caratteristiche del Braille, che, in questo caso, va considerato non solo come un codice, ma come un vero linguaggio, nel senso che ha questo termine in espressioni come “il linguaggio del cinema”, “il linguaggio della TV”, e simili.

A partire dagli Anni 2000, per conto della sezione di Firenze, o della Biblioteca di Monza,  ho partecipato con vari ruoli alla progettazione europea, in settori di nostro interesse. Promozione di pari opportunità nel lavoro, sui diritti di cittadinanza attiva, scambi giovanilli, progetto LAMBDA per la matematica, vari progetti per rendere accessibili spartiti musicali, fra cui Play2, Contrapunctus, music4vip, per lo studio delle lingue con formazione a distanza.

Insieme al prof. Eliseo Ventura abbiamo scritto il testo “Il Braille: un altro modo di leggere e di scrivere”, che, se il tempo me lo consentirà, vorremmo aggiornare.

Agli inizi del ‘2000 ho curato, per conto della Biblioteca di Monza, alcune guide (per genitori, come si leggono le immagini tattili, informatica), e ho curato qualche traduzione dall’inglese di atti di importanti convegni internazionali sull’istruzione e l’educazione dei ciechi e degli ipovedenti.

Faccio parte del comitato di redazione della “Rivista di Tiflologia”, del consiglio di amministrazione del Club Italiano del Braille”, e del consiglio di amministrazione della Biblioteca Italiana dei ciechi di Monza.

Per 15 anni ho presieduto la sezione di Firenze e negli ultimi 5 anni il consiglio regionale Toscano; sono stato coordinatore della commissione studi musicali e ho curato la rubrica Musical-mente su Slashradio web; faccio parte anche della commissione nazionale per  l’accessibilità dei beni artistici e culturali, coordinata da Fernando Torrente.

Cosa penso di fare?

Più ci penso e più mi spavento! Perché il lavoro con i soci, pur con le sue frustrazioni, mi dava grande soddisfazioni, soprattutto quando mi salutavano per strada o, magari dopo tanto tempo che non ci vedevamo, ringraziandomi per un consiglio, o perché li avevo aiutati a trovare lavoro. Quello vale più di qualsiasi emolumento, vi assicuro.

Poi, nel consiglio regionale, sono diminuiti i contatti con i soci, ed aumentati a dismisura gli incontri nelle stanze del potere, dove si parlava dei massimi sistemi, si esponevano i nostri obiettivi ideali, e si tornava con tanti sì. Ma ti accorgevi che i mesi passavano, e questi sì rimanevano un ricordo. Poi capisci che non è sempre cattiva volontà, ma più spesso è la complessità dei suoni da accordare, delle norme che ti vincolano. Diciamo che i frutti sono più lenti da venire.

Un programma nasce da un sogno, ma richiede la fatica quotidiana di confrontarsi con la realtà.

Fare un programma significa comperare un debito!

Significa prepararsi alla frustrazione dei tempi lunghi, delle battute di arresto, ma anche scommettere che due e due, in matematica, fanno sempre quattro, ma nella vita, a volte fanno tre, ma possono fare anche cinque!

Significa partire da quello che si ha, valorizzarlo fino in fondo, e cercando le opportunità, che a volte sono anche superiori alle aspettative.

Per quello che mi riguarda, inizierò come apprendista, perché nessuno nasce imparato!

Quindi chiederò aiuto a quelli più anziani di servizio in questo incarico.

Il programma è già stato scritto e scritto chiaro dal presidente, e quindi io metterò a disposizione quello che posso fare per realizzarlo.

Mi farebbe piacere dare il mio contributo nel campo dell’istruzione, ivi compreso ovviamente gli studi musicali, perché ognuno ha un pallino, almeno uno!

E sull’istruzione penso che dovremmo valorizzare quello che abbiamo, che sono:

le decine di giovani formati bene, che lavorano con soddisfazione nei settori più vari e anche più impensati. Diceva S. Agostino “si iste et illa, cur non ego”?

cioè: se ce l’ha fatta tizio e caio, perché io no?

Pensate che i ragazzi che frequentano le scuole di tutti sono circa 3 mila. Avere 3 mila consigli di classe preparati a dovere è un sogno; avere 3 mila bravi insegnanti di sostegno, o meglio, 3 mila consigli di classe preparati, non è pensabile, fin quando la normativa sulle assegnazioni è quella che è.

Il prof. Schindele, che negli anni 70 fu fra i primi a pubblicare una ricerca sui vari modelli di scolarizzazione negli USA (ne individuò ben 12), diceva che l’insegnante di sostegno è un po’ come il medico: lo stretto necessario e il minimo indispensabile. Prima se ne può fare a meno e meglio è.

Valorizzare e potenziare i nostri centri di consulenza, che dovrebbero conoscere ogni singolo caso per essere di aiuto alla nostra rete (centri trascrizioni, centri per la riabilitazione visiva e simili, équipes per i campi estivi, o per l’intervento precoce), centri di alta specializzazione (Lega, Serafico ecc.), agli operatori del territorio (assistenti sociali, neuropsichiatri infantili, ecc.). Studiare i casi riusciti meglio, e mi riferisco a giovani non vedenti, ipovedenti e pluriminorati, che, grazie ad una costellazione di circostanze favorevoli (famiglia prima di tutto, operatori sensibili e preparati, servizi di supporto efficienti, e perché no un po’ di fortuna), ora lavorano con soddisfazione nei settori più diversi (ricerca, turismo, tecnologia, insegnamento, ecc.).

Valorizzare i campi estivi, ed estenderli ad altri periodi dell’anno, perché sono per molti ragazzi l’unico momento in cui possono condividere dubbi, trucchi e anche sotterfugi e scherzi, fra pari. Loro, a differenza di noi che abbiamo frequentato gli istituti, vivono la loro particolarità in solitudine, così come la vivono le loro famiglie.

Bene i corsi di aggiornamento di IRIFOR, i progetti sulla genitorialità, e ogni altra iniziativa volta a migliorare le abilità e le capacità nei vari settori (mobilità, tecnologie), ecc.

In estrema sintesi, quindi:

non possiamo pensare di avere sempre e comunque gli insegnanti adatti, ma, come siamo obbligati oggi con il covid19:

  • diffondere informazioni serie e realistiche sulle nostre necessità;
  • lavorare sui casi singoli, ossia sulle famiglie, sugli insegnanti, gli operatori del territorio, utilizzando anche la comunicazione a distanza, una sorta di Tiflo SOS, dove è utile;
  • organizzare momenti di aggiornamento rivolti alle varie figure che ci interessano maggiormente;
  • preparare materiale audiovisivo efficace e facilmente comprensibile, non come surrogato dei corsi, ma come opportunità di informazione e di aggiornamento;
  • predisporre un vero e proprio standard che fissi i parametri minimi per una istruzione accettabile, e su questo rivendicare dallo Stato i mezzi necessari, in termini di personale e/o di finanziamento.

Esempio: si stabilisce che per un bambino di anni xxx con minorazione visiva totale e senza altre minorazioni è importante avvalersi di personale con determinate competenze: se si trova meglio, ma se non si trova, finanziare la persona che svolga questo compito in accordo con la scuola.

Un discorso simile vale per i pluriminorati. Fare rete con centri specializzati di eccellenza che abbiamo; formare e aggiornare la scuola e gli operatori del territorio (assistenti sociali, neuropsichiatri infantili, ecc.), in modo da ridurre sempre più la necessità di recarsi presso centri lontani per periodi lunghi. Ovviamente, siccome l’Italia è varia, là dove è necessario, la famiglia deve poter usufruire dei servizi di alta specializzazione, che peraltro già lavorano in rete con il territorio.

La scuola dovrà anch’essa mettersi in rete con i centri del territorio là dove esistono, affinché l’educazione di questi nostri compagni meno fortunati, non sia né un parcheggio, né una pietosa ipocrisia, ma, come dovrebbe essere per tutti, un tempo di gioia e di serenità, e un tempo di crescita.

Io ho avuto la fortuna di conoscere direttamente più di una famiglia, e più di un caso di ragazzi con pluriminorazione, e da loro ho imparato che la vita è molto più varia di quello che noi possiamo immaginare,  e che quello che per noi è triste e spaventoso, può non esserlo per altri. Conosco ragazzi che, forse, nei nostri istituti, sarebbero rimasti al palo, e che invece suonano magnificamente. Conosco ragazzi che vanno ogni giorno presso centri di socializzazione, dove non si annoiano e dove fanno la loro strada.

Anche sul lavoro qualche parola:

con la legge 68/99 e con gli sviluppi delle tecnologie si stanno chiudendo molte porte per noi, ma si potrebbero aprire delle autostrade.

Pensiamo solo cosa potrebbe significare una tecnologia concepita secondo i principi della accessibilità per tutti, principi ben codificati, quindi non da inventare.

Proviamo ad applicare l’accessibilità a: trasporti, spazi interni (scuole, uffici pubblici), libri di testo…

E pensate a cosa potrebbe significare se certi buoni esempi (assunzione di soggetti autistici presso ditte ad alta specializzaziohne, non presso istituzioni caritative), potesse essere presa a modello.

Ancora si preferisce spendere milioni di euro in interventi assistenzialistici e risarcitori, mentre, investendo molto meno in denaro e molto più in cervello, le cose cambierebbero.

In conclusione quindi, penso che il motto di Nicolodi “uomini fra uominini”, oggi debba essere declinato “cittadini fra cittadini, in una società di pari”.

Questo è scritto nella Costituzione, questo dice la convenzione ONU. Questo è il sogno di tutti noi.

E chi meglio di noi è in grado di guidare la nostra comunità nazionale verso questa nuova era?

 Un’èra di civiltà, di umanità.

Io spesso dico che la forma più elevata di intelligenza è la solidarietà.

Grazie a chi è arrivato a leggere fino a qui.

Antonio Quatraro