Non è più il tempo delle rivoluzioni… o forse sì? Incontro con Arianna Colonello, di Valter Calò

Autore: Valter Calò

Ho conosciuto Arianna, virtualmente, solo pochi giorni fa, a causa di un suo articolo su Facebook, ed è stato subito un fitto scambio epistolare e comunanza di vedute.
Arianna ha quel sano e fresco idealismo che permea troppo poco il mondo contemporaneo, ma senza il quale il mondo non può evolversi.
Dai nostri scambi di e-mail è nata questa chiacchierata, perché semplicemente di questo si tratta. Arianna scrive di getto, come se riuscisse a fatica a tenere a freno il vulcano che c’è in lei. Non censura niente di quello che pensa: è un libro aperto e la sua visione della realtà è di quelle che magari molti condividono, ma pochi hanno il coraggio di esprimere.
Così, ecco Arianna.

M.: Arianna, qual è stato il tuo percorso di studi?

A.: Prima dell’università ho frequentato un istituto tecnico professionale, anche se avrei voluto fare il classico, ma per il mio problema di ipovisione ho scelto un professionale. Molti credevano che mi sarei stufata di studiare.
I professori delle superiori mi hanno molto sottovalutata: mi dicevano che per me giurisprudenza sarebbe stata troppo difficile. Dovevo fare lingue e letterature straniere, pur sapendo di non avere un futuro, perché i traduttori e gli interpreti mi passavano davanti per la loro preparazione.
All’università ho avuto difficoltà con i libri digitalizzati. Me li facevo fare da una libreria di Monza, ma arrivavano tardissimo rispetto alla data richiesta attraverso il formulario che compilavo, poi i libri digitalizzati erano pieni di errori. Compravo i libri originali, me li spaccavano in due, legandomeli poi con degli elastici. Che strazio vedere i libri ridotti così con quello che costavano!
Poi mi sono laureata in giurisprudenza ed ho ottenuto anche un diploma post laurea alla scuola professioni legali. Ho fatto anche un tirocinio al Parlamento Europeo.

M.: Raccontami in dettaglio di questo tirocinio.

A.: Ho partecipato ad un bando che ho trovato sul sito europa.eu, basta cercare in Google “tirocini istituzioni europee per laureati in giurisprudenza”. Una mia amica vedente era stata là prima di me a fare il tirocinio e me ne aveva parlato molto bene, così mi sono incuriosita ed ho cercato in google.
Non c’erano prove scritte: la selezione avveniva sulla base dei titoli di studio, dovevo compilare un form, una domanda dove ti chiedevano i titoli di studio e perché lo volevi fare. Ho superato una selezione molto dura (su 12.000 candidati ci hanno selezionati in 200).

M.: Di cosa ti sei occupata?

A.: Mi sono occupata di disabilità, in particolare ho organizzato un evento con il supporto dell’Europarlamentare italiano Alberto Cirio, che verteva sulla disabilità ed il lavoro.
Ho fatto una presentazione semplice, non molto tecnica, con PowerPoint, in cui ho descritto la situazione del mondo del lavoro in Italia e ho analizzato cosa dovrebbe fare il disabile per cambiare la situazione, per esempio arrangiarsi da sé a trovare lavoro, fare un curriculum, essere in grado di sostenere un colloquio di lavoro.
D’altro canto, ci vuole una legge più idonea che valuti le competenze, non solo ed esclusivamente la disabilità. Ho anche sottolineato la necessità di cambiare la burocrazia, snellire questo procedimento; le aziende non vogliono vedersi in capo l’obbligo di assumere un disabile, perché di obblighi ne hanno già tanti, non hanno voglia di sottostare a questi obblighi, non hanno voglia di vedersi invadere l’azienda con le verifiche. il disabile deve imparare a valorizzarsi, ma allo stesso tempo è necessario utilizzare concretamente l’istituto del collocamento mirato per aiutare i disabili a trovare lavoro da sé. Se il disabile avesse la possibilità e la voglia di trovarsi un lavoro da sé, non ci sarebbero tutti questi problemi.
Ho avuto molta difficoltà a trovare un eurodeputato che supportasse le mie idee. Questo fa riflettere: sono idee scomode? Li ho contattati tutti, finché ho trovato lui ed il suo assistente.
L’evento si è svolto il 16 febbraio 2016. Inizialmente sono andata a presentare le mie idee ai singoli europarlamentari. In cinque o sei hanno aderito, poi il pomeriggio c’è stato l’evento pubblico. Le riviste hanno festeggiato il successo dell’evento, una bella soddisfazione anche vedere il proprio nome presente sull’agenda parlamentare: non capita tutti i giorni.

M.: Eri pagata per questo tirocinio? Come hai fatto a trovare alloggio per quel periodo?

A.: Si, ero pagata. Avevo un rimborso spese col quale mi sono mantenuta per cinque mesi. Ho vissuto in un residence per stagisti delle istituzioni europee. L’alloggio me l’ha trovato l’ufficio Stage di Lussemburgo del Parlamento Europeo, un alloggio molto caro, ma con i soldi che mi davano riuscivo ad affrontare le spese necessarie al mantenimento.
Andavo al lavoro in metropolitana, ma purtroppo le sintesi vocali a volte non funzionavano e quindi ho fatto una petizione al Parlamento Europeo dicendo che la metro non era pienamente accessibile.

M.: Attualmente di cosa ti occupi?

A.: Sono membro del network Vita indipendente (ENIL network), sono coordinatore del progetto Echangeability project per l’Erasmus network, che ha l’obiettivo di aumentare la mobilità internazionale degli studenti disabili che vogliono studiare all’estero per un certo periodo di tempo, come fanno tutti i loro coetanei.
Per il resto, alla fine sono disoccupata; una brutta etichetta attaccata che mi porto dietro, perché sono ipovedente, ma nessuno è venuto da me dicendo che il mio curriculum vale non solo a parole, ma anche nei fatti. Ti dicono: “bel curriculum”, ma tutto finisce lì. Non c’è posto in Italia, non esiste meritocrazia, ma solo raccomandazione vista in modo negativo, cioè le associazioni disabili preferiscono assumere un non disabile che di disabilità non sa nulla, viene assunto solo in quanto parente del dirigente del capo.
Una cosa ancora più sconcertante, che spero che nella mia vita non mi capiti mai e che non auguro a nessuno, è di essere formalmente assunta, ma in sostanza non fare nulla, non portare innovazione all’interno dell’associazione o dell’ente.

M.: Ecco, riguardo al progetto Echangeability Project, una curiosità: quanti sono gli studenti disabili che fanno un periodo di studio all’estero?

A.: Solo l’1%.

M.: Perché sono così pochi secondo te?

A.: Sono così pochi perché ci sono dei fattori anattrattivi, per esempio il fattore economico: non ci sono borse di studio prima di partire, puoi chiedere il supplemento di borsa di studio, ma ti viene dato quando tu sei alla fine del periodo di stage o del periodo di Erasmus.
Un altro fattore anattrattivo è la paura, l’iperprotezionismo delle famiglie; i soggetti disabili non conoscono le proprie competenze perché sono oscurati dall’approccio assistenzialista e dalla mania di controllo che esercitano le famiglie su di loro.
Il terzo fattore anattrattivo è il rischio di perdere i benefici economici che ti vengono dati nel paese di origine.
Poi c’è il problema della carenza della capacità di mobilità ed orientamento. Tanti non riescono a trovare un alloggio accessibile, gli edifici delle università non sono accessibili, i supporti dati dall’università ospitante non sono gli stessi dell’Università che frequenti in Italia.
Un altro problema è la mancanza di informazione: i disabili trovano all’università dove vorrebbero studiare uno scenario diverso, servizi diversi, di cui non erano a conoscenza e tanti rinunciano perché non si trovano assistenti alla persona o accompagnatori per non vedenti.
Esiste anche un problema di procedura: quando tu organizzi il viaggio devi fare il preventivo del budget e la procedura è molto complicata per i ragazzi disabili.
Infine c’è anche un fattore di paura della lontananza dalla famiglia e c’è una mancanza della cultura che sta alla base. Molti disabili non credono che l’Erasmus o un programma di studio all’estero faccia veramente per loro.

M.: Cosa si può fare per incentivare la mobilità internazionale degli studenti disabili?

A.: Io voglio sollecitare l’Italia ad adottare la carta internazionale della disabilità, la disability card, che permette a chi lo desidera di andare all’estero per lavorare e studiare, portandosi dietro i benefici acquisiti nel paese di origine. La disabilità non cambia se una persona cambia paese.
Oltre a questo, si dovrebbe applicare in concreto la Convenzione ONU sui disabili. Poi sarebbero necessari più percorsi di autonomia, per esempio facendo corsi di cucina e in generale di autonomia domestica gratuiti per non vedenti.
Per aumentare la mobilità internazionale dobbiamo ampliare il progetto MEp!, che ha creato l’Erasmus Network. È una rete di cui adesso fanno parte solo 300 università.
Una persona secondo me deve scegliere l’università più adatta alle sue esigenze e il MEP! è un progetto che segnala la maggiore o minore accessibilità delle università, per esempio viene segnalato se e dove ci sono libri anche in braille e sono inseriti gli indirizzi e le localizzazioni dei palazzi per poterne valutare l’accessibilità.
Un altro esempio: le università ospitanti potrebbero provvedere borse di studio per i disabili, che hanno più spese degli altri, provvedere dei supporti tecnologici e prevedere una figura di informatico esperto in accessibilità per le tecnologie assistive, che manca dappertutto.
Bisognerebbe fare incontri informativi con i disabili che sono riusciti ad andare all’estero, per far capire che si può fare, magari presentare la propria università, i propri problemi per dare un’idea agli studenti su come scegliere, magari si potrebbe anche fare una app che metta in contatto ex studenti disabili che hanno studiato all’estero e studenti che vorrebbero fare questa esperienza, per avere consigli, mettere in contatto gli studenti disabili con ragazzi dell’università dove andranno a studiare, così da poter essere indirizzati all’ufficio giusto .

M.: Cosa diresti alle istituzioni?

A.: Non ritengo giusto che in Italia ci siano persone veramente insoddisfatte, prigioniere di un paese che non offre nulla, sia in termini di valorizzazione delle alte qualifiche e delle capacità professionali (molte persone non riescono ad andare al di là del classico lavoro di centralinista o fisioterapista), sia in termini di inclusione sociale perché in Italia molti disabili sono istituzionalizzati dalle famiglie stesse, che gestiscono in tutto e per tutto anche la vita delle persone capaci di intendere e di volere, oppure dallo Stato, che spende molti più soldi sbattendoli in istituto, di quanti ne spenderebbe per renderli autonomi.
Faccio un caldo appello al legislatore nazionale e comunitario, affinché “ la Convenzione sui diritti dei disabili non resti un testo vuoto, visto che vengono loro negati i diritti umani. Questo non lo dico solo io, ma anche autorevoli studiosi della materia, come Gerard Quinn e Anna Lawson.
Infatti non basta ratificarla, bisogna anche attuare i principi in essa contenuti, tra cui il diritto al lavoro. Purtroppo lo Stato italiano, in questo caso il legislatore, non fa niente per garantire l’accesso al lavoro dei disabili. L’unica cosa che ha fatto è stata quella di emanare una legge, entrata in vigore dal 1 gennaio 2018, che è simile alla precedente legge 68 del 1999. Purtroppo dietro a questa legge c’è il solito assistenzialismo all’italiana, c’è il solito pregiudizio del disabile che non è in grado di fare niente. Continuiamo a chiedere alle aziende di fare beneficienza imponendo loro l’obbligo di assumere i disabili, mettendo in vetrina solo la disabilità, senza tenere conto e valorizzare la singola persona e le sue qualità.
Io mi associo alla protesta fatta da molte associazioni rappresentative dei disabili dopo l’entrata in vigore di questa legge, infatti il loro timore, e anche il mio, è quello del solito contentino: “ti assumo perché sono obbligato, non perché vali, poi ti accantono a fare nulla, perché io azienda lo vivo come obbligo, non come potenzialità”.
Io mi appello al legislatore, sia a livello nazionale, sia a livello comunitario affinché emani un provvedimento che faccia sì che i disabili siano messi in condizione di essere assunti come gli altri, che possano andare direttamente dalle aziende a presentare il proprio curriculum, la propria esperienza e capacità, come fanno tutti, senza sottostare ad intermediari ed a burocrazie estenuanti da ambedue le parti, lavoratore e datore di lavoro. Inoltre mi sembra scandaloso che il legislatore nazionale obblighi i cittadini a sottostare ad un sistema delle assunzioni degradante e dequalificante.
Altro punto debole: il legislatore comunitario non dà delle linee guida ai legislatori nazionali, i quali in questa materia dovrebbero emanare norme più uniformi e conformi alla Convenzione ONU.
Inoltre colgo l’occasione per appellarmi al legislatore comunitario e nazionale affinché prevedano uno stipendio dignitoso per i disabili attivisti, a livello comunitario, che come me si battono non solo per i propri diritti, ma anche per chi non può tutelarsi, in quanto non esperto in materia o semplicemente non informato.
Un’altra cosa che il legislatore dovrebbe fare è rispettare il principio di autodeterminazione dei disabili, assegnando o facilitando l’assegnazione di poteri decisionali a persone con disabilità, trattandole quindi come risorsa e non come peso. Solo così si può attuare una vera rivoluzione fatta di fatti e non di parole.
Ci sono “ cervelli in fuga disabili” che come me vogliono fuggire da un paese che non offre nulla a livello lavorativo di progressione in carriera. In altri paesi la situazione è molto migliore, perché la mentalità è molto più aperta, rispetto all’Italia. Basterebbe solo che il nostro paese accettasse i propri limiti e agisse per lottare per cambiare le cose, non nascondere la testa sotto la sabbia e far finta che il problema non esiste. Infatti dei cervelli in fuga con disabilità non se ne parla mai: si parla solo dei cervelli in fuga normodotati, anche questo fa molto riflettere e si capisce che dietro c’è un approccio sbagliato sulla disabilità.

M.: Cosa ti piacerebbe fare per il futuro?

A.: Mi piacerebbe combattere per i diritti dei disabili, lavorare per un’organizzazione non governativa che sia veramente influente a livello comunitario e lavori seriamente per la protezione dei nostri diritti, coinvolgendo ai vertici i disabili stessi.
I disabili qualificati sono lasciati a casa a sé stessi senza lavoro, invece di essere messi al vertice in posizioni di prestigio come vorrebbe il buon senso e la meritocrazia. Le organizzazioni di disabili nascono come funghi, ma ai vertici non si trovano disabili ma solo abili. In generale i normodotati non sanno nulla di disabilità, salvo che siano vicini ad un parente o ad un amico disabile. Molto spesso lo fanno per arrivare a fine mese, non per passione. Queste cariche le lascerei in mano a disabili volenterosi, che vogliano veramente cambiare la società e battersi contro l’assistenzialismo.
Per far questo bisogna organizzare campagne di sensibilizzazione, facendo capire che noi possiamo, i nostri titoli e qualifiche li abbiamo acquisiti con sacrifici a volte anche doppi rispetto ai non disabili, in quanto abbiamo delle difficoltà in più dovute al pregiudizio ed alle barriere materiali e culturali che dobbiamo affrontare ogni giorno.
In Italia è presente una cultura sbagliata della disabilità, che crea ulteriori barriere di qualunque tipo. Sono fermamente convinta che per una persona come me, che si è sempre data da fare, non c’è futuro in Italia, anche perché io aspiro a posti di rilievo e un’aspirazione del genere non è compatibile con la cultura assistenzialista presente nel nostro paese.
Io vorrei lavorare a livello comunitario, perché le mie capacità in quell’ambito sono valorizzate. Al contrario, a livello nazionale in vetrina ci sarà sempre la mia disabilità, non la mia persona. Io non ci sto ad essere trattata da cittadina di serie B. Purtroppo molti disabili non ammettono di essere trattati così, o ancor peggio molti lo accettano e si accontentano, buttano all’aria le loro ambizioni, perché si rendono conto di abitare in uno Stato che li vuole pecore, non persone, uno Stato che li vuole annientare, in quanto disabili.
Mi piacerebbe entrare in un organizzazione non governativa sui diritti dei disabili, mi piacerebbe coordinare progetti, apportare le mie innovazioni ed idee, mi piacerebbe anche entrare in politica, ma mi rendo conto che le mie idee sono scomode, e poi, detto terra terra, di politica non si vive, per lo meno a basso livello e anche questo è molto deludente e demotivante anche per i più volenterosi come me. Io ho molti progetti innovativi in mente che possono migliorare il mondo dei disabili, ma ci si scontra con l’assenza di risorse economiche.
In conclusione credo fermamente che se il legislatore italiano adottasse una legge sul lavoro più adeguata ai nostri tempi e alle normative comunitarie sarebbe di profitto anche per lo Stato stesso. Il governo, invece di dare pensioni e fare assistenzialismo, dovrebbe abolire il collocamento mirato così com’è concepito e dare lavoro ai disabili non perché disabili, ma perché capaci e lasciare le pensioni agli inabili al lavoro ed alle loro famiglie che li assistono, spesso smarriti ed abbandonati a sé stessi.
Per questo credo che fare rete, nella nostra fattispecie, tra i non vedenti, ovunque si trovino, sia davvero molto importante. Io faccio informazione attraverso una radio condotta da un ragazzo non vedente, che si chiama Giuseppe Cesena, per seguire le trasmissioni è sufficiente scaricare la App “Giuseppe Cesena”.
Io credo che per cambiare realmente, non in modo apparente, la situazione, sia necessario avere contatti con persone influenti, io vorrei fare l’opinionista televisiva e radiofonica, per media a livello nazionale ed anche comunitario connessi con esponenti politici ed i vari organi di governo, per far sì che le nostre istanze siano ascoltate e per mettere a conoscenza le persone dei nostri disagi e delle nostre proposte per risolverli. Ovviamente deve trattarsi di emittenti radio e televisive serie, non perditempo, che accettino di invitare un opinionista che dica le cose come stanno senza troppi buonismi ed ipocrisie, altrimenti si torna da capo.
Di disabilità se ne parla troppo poco ed in modo non inclusivo, con la tendenza a categorizzare i disabili come categoria separata rispetto al resto del mondo.

M.: Ma la responsabilità di questa cultura non inclusiva non è anche un po’ nostra?

A.: Io credo che la responsabilità sia anche dei disabili che non si ribellano a questo tipo di approccio, perché fa comodo stare a casa con la pensione senza fare nulla. Ma non far nulla vuol dire sentirsi inutili. Infatti così facendo resteremo sempre ai margini della società, non saremmo mai parte attiva. Quindi la responsabilità è di chi si fa condizionare, di chi si fa comandare dalla famiglia che gli fa fare una vita che non sentono loro, solo in quanto disabili si fanno annientare.
D’altro canto, però, ribadisco che la responsabilità è dovuta all’assenza delle istituzioni, incluso il legislatore sia a livello nazionale, sia a livello comunitario che dovrebbe conformarsi all’approccio sulla disabilità voluto dalla convenzione dei diritti dei disabili, cosa che il legislatore italiano non fa.
Purtroppo molti politici italiani al Parlamento ci reputano un peso, solo che non lo dicono apertamente. Ovviamente questo è un ostacolo al benessere della società. La convenzione non approva un modello medico sociale sulla disabilità, dove il disabile viene considerato un malato, anzi richiede agli Stati di attuare un modello inclusivo, cosa che non è avvenuta con la legge sul lavoro del 2018, che non ha fatto altro che alzare le sanzioni per le mancate assunzioni dei disabili invece di fare in modo che le aziende imparino a vederci come risorsa utile per loro.
Tra l’altro molti datori di lavoro sicuramente troveranno scuse per non assumere disabili, cercheranno di evitare di provvedere agli accomodamenti ragionevoli perché troppo costosi, per paura del pregiudizio, partono con il concetto sbagliato che tanto i disabili non fanno nulla o più di tanto non possono fare nonostante questa pratica sia discriminatoria. Gli italiani sono il popolo della trasgressione: fatta la legge, trovato l’inganno.

M.: Mi dicevi che sei stata invitata a Nemo Nessuno Escluso su rai 2. Raccontami com’è avvenuto questo contatto .

A.: Il contatto con Nemo è avvenuto su consiglio di un mio amico normodotato. Ho provato, ma ho avuto solo promesse e niente fatti. Forse è per le mie idee troppo scomode per questo paese. Loro non hanno mai trattato il tema della disabilità.
Questo è accaduto l’estate scorsa: era inizialmente una promessa con il punto di domanda, vincolata al fatto se avessero prodotto una seconda edizione del programma o meno. Ad inizio dell’inverno ho scoperto che la seconda edizione stava andando in onda; ho chiesto nuovamente, rinnovando la proposta che mi era stata fatta, loro come risposta mi hanno detto che si sarebbero fatti sentire, ma così non è stato.

M.: Mi dicevi anche che hai fatto parte di una lista civica a Brescia. Raccontami qualcosa di più.

A.: Sono stata membro di una lista civica chiamata “Brescia con la gente” nel 2013, mi sono occupata di disabilità. Sono stata ingaggiata da un amico, ma poi ho lasciato perché non c’era concretezza e soprattutto, come ho già detto, le persone che fanno politica a basso livello non hanno nemmeno i soldi per vivere, invece chi la fa ad alti livelli guadagna milioni di euro.
Comunque il risultato che ho ottenuto è che sono riuscita a far riprendere i lavori per la ricostruzione degli ascensori nella stazione dei treni di Brescia, per fortuna i lavori sono ultimati ed ora persone disabili e non ne possono usufruire. Ho fatto pressione mediatica, o fatto segnalazioni su segnalazioni, rimarcando che la vita delle persone era in pericolo per queste lacune. Finalmente l’hanno capito, così ce l’ho fatta. Questa è una delle mie vittorie personali: essere stata utile agli altri. A seguito di questo importante risultato mi è stata conferita la seconda edizione del premio delle donne che ce l’anno fatta, nel 2013, da parte della Consigliera delle pari Opportunità del Comune di Brescia.

M.: Consiglieresti quindi ai non vedenti o ai disabili in generale di fare esperienze all’estero? e a chi volesse restare in Italia cosa diresti?

A.: Sì, io consiglio ai non vedenti e ai disabili in generale di andare all’estero, nei paesi in cui c’è un approccio sulla disabilità come risorsa e non come limite. Bisogna cambiare paese per essere valorizzati come persone e non considerati disabili.
Chi volesse restare in Italia, purtroppo deve accettare di essere trattato da oggetto da gestire, deve accettare l’assistenzialismo di un paese arretrato, deve accettare un paese che non valorizza le capacità, ma considera solo la condizione di disabilità, come si vede dalle leggi che emana, oltre che dal pregiudizio culturale strisciante tra la gente. Quando giri per strada si vede come ti guardano.
Consiglierei comunque di fare rete, di fare gli opinionisti in TV e radio, di dare informazioni sulla disabilità, aiutare gli altri nelle proprie possibilità, non annullarsi dietro alla voglia di controllo da parte dei non disabili.

M.: Quanto pesa secondo te la doppia discriminazione, donna e disabile?

A.: La doppia discriminazione ha un peso rilevante, perché se tu sei donna e sei disabile hai meno possibilità di lavoro.

M.: Cosa potrebbe fare secondo te un’associazione grandemente rappresentativa come l’UICI?

A.: Secondo me l’UICI dovrebbe coinvolgere di più i soci. Io sono stata nel Comitato Giovani dell’UICI di Udine, l’ho fatto quattro anni quando ero all’Università. Abbiamo provato a fare un questionario, ma purtroppo non c’è stata partecipazione: ognuno vede solo sé stesso. Ogni volta che facevamo riunioni, la gente non partecipava.
L’Unione ha quasi cent’anni di vita, però la mentalità è sempre vecchia; è passiva, c’è troppa burocrazia. Dovrebbe cambiare mentalità, creare nei fatti più professioni innovative al di là del centralino e del fisioterapista, ma non solo su carta. Dovrebbe battersi, invitare il legislatore ad interessarsi di più sul tema dell’ipovisione , dovrebbe avviare i cechi al lavoro non perché ciechi, lo ribadisco, ma perché persone capaci. Dovrebbe incentivare la società a dare posti al vertice ai cechi che hanno le competenze. Dovrebbe fare più campagne per insegnare ai disabili visivi a farsi un CV ed a gestire un colloquio di lavoro per trovarsi lavoro da soli. Dovrebbe usare il suo potere per far sì che gli esperti in disabilità non vedenti ed ipovedenti vadano in TV e radio per fare informazione sulla disabilità. Magari questo sarebbe un incentivo per far progredire nel lavoro i disabili che valgono.
L’UICI è molto influente: dovrebbe dare spazio alle idee e ai progetti dei soci ed usare i finanziamenti pubblici per creare innovazione, posti di lavoro adatti alle aspirazioni dei disabili, dovrebbe invitare il legislatore ad emanare nuove politiche sociali per favorire l’inserimento autonomo nel mercato del lavoro, abolire il mirato, che così com’è concepito non serve a nulla, dovrebbe ascoltare l’insoddisfazione dei soci laureati che non hanno lavoro, cercare delle soluzioni individuali più adatte al caso concreto, dovrebbe creare delle linee guida a livello etico per la protezione del candidato con disabilità, che valgano per tutto il rapporto di lavoro, dovrebbe fare rete con le altre associazioni di disabili per aiutare i pluriminorati a fare attività esterne diverse dal solito stare in casa. Dovrebbe creare delle commissioni sulla disabilità, con gente realmente motivata, pagarla dandogli uno stipendio mensile, che faccia da portavoce tra i ciechi e la politica.
Ci sono molte persone che non accettano il bastone e la disabilità in generale, penso che voi come UICI potreste fare di più, io proporrei una campagna chiamata ” bastone bianco: un amico prezioso”. Si potrebbero invitare psicologi, persone esperte, non vedenti che sono autonomi, io potrei partecipare e dire la mia esperienza. Per esempio anch’io tanti anni fa non accettavo il bastone bianco, ma non ero io che non l’accettavo: era la mia famiglia. L’UICI mi ha aiutato ad accettarlo e adesso non esco senza. Questa può essere una campagna per far conoscere ed accettare una mobilità autonoma e gratificante a tutti i non vedenti.

M.: Grazie Arianna. Che la tua lotta sia di tutti noi!