Centro di Documentazione Giuridica: Ancora una volta muta l’orientamento della Cassazione sulla sottoposizione ad un tetto di reddito per la pensione non reversibile dei non vedenti, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione civile, sezione sesta, con la sentenza n. 24004 dell’11 Novembre 2014 di cui segue breve commento e riproduzione integrale del testo in calce.
La decisione della Suprema Corte si uniforma alla precedente sentenza n. 24192/2013 secondo cui “La pensione non reversibile per i ciechi civili assoluti di cui all’art. 7 legge 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiario dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’art. 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 di conversione del d.l. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’art. 68 della legge 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’INPS, sia l’art. 8, comma 1 bis, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in legge 12 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione INPS in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi di norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica.”
La Sezione Sesta della Suprema Corte ritorna su una vexata questio ribadendo che lo stato di bisogno va inteso quale requisito indispensabile per l’ottenimento e la conservazione della pensione per i ciechi civili totali o parziali di cui all’art. 7 della legge n. 62 del 1966.
Ribadisce la Corte tra l’altro che l’attribuzione di una pensione di previdenza o di assistenza sociale ha presupposti e finalità differenti, sebbene la categoria da tutelare sia la stessa (nel caso di specie, persone affette da cecità congenita o sopravvenuta).
Per tale motivo, la Suprema Corte, data la natura specifica ed eccezionale della normativa conferma come non sia possibile estendere per analogia la normativa inerente i trattamenti assistenziali a una situazione che prevede invece la revoca dei benefici di tipo previdenziale (come nel caso della ricorrente).
Distingue dunque la Corte la finalità propria della pensione assistenziale da quella della pensione previdenziale.
La prima, dunque, concorre ad integrare il reddito del soggetto colpito da cecità – c.d. mancato guadagno – il quale deve versare in stato di bisogno per poterne beneficiare. Precisando che la quantificazione del bisogno economico (calcolato sulla base del reddito ai fini IRPEF) e il non superamento della soglia determinata per legge, è dunque requisito indispensabile per ottenere tale forma di pensione integrativa.
La seconda al contrario, (la pensione previdenziale) prescinde dall’eventuale recupero del mancato guadagno da parte del soggetto interessato, essendo anzi la sua finalità ultima quella di favorire l’inserimento – o il reinserimento – del cieco nel mondo del lavoro, “evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un connesso reddito consegua la perdita della pensione”.
Ancora una volta nonostante precise norme di legge, ossia gli artt.  68 l. 153/1969 e 8 del d.l. n. 463 del 1983, tuttora in vigore, prevedano espressamente che “le disposizioni di cui al secondo comma dell’articolo 10 del regio decreto-legge 14 aprile 1939 n.636 (secondo cui la pensione di invalidità viene soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore ai limiti previsti dalla legge), non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un’attività lavorativa”, e sebbene la S.C., con pronuncia a Sezioni Unite n. 3814/2005, abbia espressamente confermato la piena vigenza di tale eccezionale previsione, chiarendone, poi, limiti e portata normativa con la pronuncia n. 15646 del 18 settembre 2012, l’orientamento della Corte di Cassazione muta.
A due anni da tale favorevole pronuncia, la Suprema Corte è nuovamente intervenuta in consapevole dissenso con il richiamato precedente ritenendo che “la pensione non reversibile per i ciechi civili (assoluti o parziali) di cui agli arti 7 e 8 della L. 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiano dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’ari 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’ari 12 della L. 30 mano 1971, n. 118 di conversione del D.L. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’ari 68 della L. 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S., sia l’ari 8, comma 1 bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in L. 11 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione I.N.P.S. in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi dì norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’ari 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica”.
Malgrado nella commentata sentenza la Corte abbia escluso la devoluzione della materia alle Sezioni Unite in quanto la decisione è in linea e non in contrasto con quella precedente (Cass. Sezioni Unite del n.3814 del 2005) si auspica che una nuova pronuncia a Sezioni Unite possa, al più presto, ribadire le statuizioni della sentenza del 2005 e creare una situazione di certezza interpretativa delle norme.
a cura di Paolo Colombo (coordinatore del Centro di Documentazione Giuridica)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ESENTE
SESTA SEZIONE CIVILE –
Composta dagli Ill.mi Sigg.n Magistrati:
Dott. PIETRO CURZIO – Presidente –
Dott. ROSA ARIENZO – Consigliere –
Dott. DANIEJ4A BLASUTTO – Consigliere –
Dott. FABRIZIA GARRI – Consigliere –
Dott. CATERINA MAROTI’A – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 174-2013 proposto da:
SD (X ), elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA FILIPPO NICOLAI N. 70, presso lo studio dell’avvocato LUCA GABRIELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato PIERA SOMMOVIGO giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (X ), in persona dei legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE
BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 624/2012 della CORTE D’APPELLO di GENOVA del 25/05/2012, depositata il 26/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’08/10/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MARO’ITA;
udito l’Avvocato PIERA SOMMOVIGO difensore della ricorrente che si riporta ai motivi;
udito l’Avvocato MAURO RICCI difensore del controricorrente che si riporta ai motivi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello, giudice del lavoro di Genova, decidendo sull’appello proposto da DS nei confronti dell’I.N.P.S., confermava la decisione del Tribunale della stessa sede che aveva respinto la domanda della S diretta ad ottenere il ripristino della pensione di invalidità civile per i ciechi che era stata sospesa per il superamento dei limiti di reddito. Riteneva la Corre genovese che la L. n. 638 del 1983, art. 8, comma I bis, riguardante una prestazione previdenziale, non potesse essere applicata anche al caso di specie avente ad oggetto una diversa prestazione (assistenziale).
Per la cassazione di tale sentenza DS propone ricorso affidato ad un motivo.
L’I.N.P.S. resiste con controricorso illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo la ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 68 della L. n. 153 del 1969, dell’art 10 del RD. n. 636 del 1939 come novellato dall’art. 8 del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella L. n. 638 del 1983”. Sostiene che, pur posta l’incompatibilità con i benefici di tipo assistenziale della disciplina derogatoria di cui all’art. 68 della legge n. 153/1969, la stessa si applicherebbe alle prestazioni di carattere sociale ovvero a quelle aventi per finalità il reinserimento dell’invalido cieco nella comunità. Invoca il precedente di questa Corte del 18 settembre 2012, n. 15646 che ha affermato il seguente principio di diritto: “La particolare disciplina prevista dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68 – che, derogando alla generale normativa posta dal R.D.L 14 aprile 1939, n. 636, art. 10 (secondo cui la pensione di invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato non è più inferiore ai minimi di legge), persegue la finalità di favorire il reinserimento sociale dell’invalido, non distogliendolo dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa – va letta in senso costituzionalmente orientato (arti. 2, 3, 4 c 38 Cost.), sicché la stessa esclude che la pensione di invalidità già riconosciuta all’assicurato in ragione della sua cecità possa essergli revocata qualora siano mutati i suoi redditi per effetto del conseguimento di una nuova occupazione”.
2. Il ricorso non è fondato.
Questa Corte valuta di conformarsi alla decisione n. 24192/2013 che, in consapevole dissenso con il precedente contrario costituito dalla citata sentenza n. 15646/2012 (che fa riferimento alla prestazione assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, ma applica i principi relativi alla prestazione previdenziale di cui alla L. n. 153 del 1969 ed al D.L. n. 463 del 1993, art. 8, come si evince anche dal richiamo, contenuto nel principio di diritto, all’”assicurato” in luogo dell’assistito), ha ritenuto
che non sia possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale previsto dalla L. n. 66 del 1962 (e, dunque, tanto alla pensione per ciechi assoluti quanto a quella per ciechi parziali), il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale
– si veda anche in senso conforme Cass. n. 8752/2014-.
Come è noto, la pensione (non reversibile) per i ciechi (assoluti o parziali) è stata istituita dalla L. 10 febbraio 1962, n. 66 “Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili”. L’art 7 di tale legge così prevede: “Ogni cittadino affetto da cecità congenita o contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul lavoro o in servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile qualora versi in stato di bisogno”. I1 successivo art. 8 aggiunge: “Tutti coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18” anno di età”. La misura della prestazione è stata modificata dalla L. 27 maggio 1970, n. 382, art. 1 (quest’ultima regolamenta la materia ancora oggi). Essa è, dunque, concessa ai maggiorenni ciechi assoluti o ai soggetti di ogni età ciechi parziali che si trovino in stato di bisogno economico. Tale stato di bisogno è stato inizialmente indicato con riferimento alla non iscrizione nei moli per l’imposta complementare sui redditi (L. n. 382 del 1970, art 5) e, dopo l’abrogazione di tale tipo di imposta, identificato nel possesso di redditi assoggettabili ad IRPEF dì un ammontare inferiore ad un certo limite (v. DL. n. 30 del 1974, art. 6, conv. in L. n 114 del 1974 e DL. n. 663
del 1979, art. 14 septies, conv. in L. 29 febbraio 1980, n. 33) – cfr. Cass. 5 agosto 2000, n. 10335; id. 21 giugno 1991, n. 6982; 12 aprile 1990, n 3110; 22 novembre 2001, n. 14811). I1 limite di reddito da tenere in considerazione è, dunque, il medesimo stabilito per la pensione di invalidità di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 12, essendo unica la disciplina contenuta nel citato D.L. n. 663 delm 1979, ari 14 septies.
Nello specifico, la pensione di invalidità civile per i ciechi, già a suo tempo concessa, era stata poi revocata, per superamento da parte della beneficiaria dei limiti reddituali.
Orbene, la prestazione dì cui è richiesto il ripristino ha natura di prestazione assistenziale di invalidità civile, sicuramente integrativa del presunto mancato guadagno derivante dalla condizione di minorità dovuta alla patologia.
Non può, invero, ritenersi che la disposizione di cui alla citata L. n. 66 del 1962, ari 8, sia stata superata dalla previsione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, ari 68, che stabilisce che “le disposizioni di cui al RD.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2, il quale, a sua volta, stabilisce che la pensione di invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore a determinati limiti, non si applicano nei confronti dei ciechi che esercitano un’attività lavorativa. Le pensioni revocate ai sensi della norma precitata sono ripristinate con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge”. La disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, ari 68 (come, del resto, quella di cui al RD.L. 14 aprile 1939, n. 636, ari 10, comma 2) è dettata per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. ed a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, presupponente un rapporto contributivo (in particolare il R.D.L. n. 636 del 1939, art. 9, fa riferimento alla pensione riconosciuta all’invalido a qualsiasi età quando siano maturati determinati requisita contributivi).
La questione è innanzitutto se tali disposizioni, non espressamente dettate per le prestazioni assistenziali di invalidità civile, possano essere applicate anche a queste ultime, costituendo un principio generale di irrilevanza dei redditi per i ciechi che beneficiano di pensioni, o non si pongano piuttosto come nonne eccezionali.
Non può invero sostenersi (e sul punto pare concordare la stessa ricorrente) che tale applicabilità troverebbe fondamento nella sentenza 3814/2005 che questa Corte ha emanato a Sezioni Unite. In realtà alla L. ti. 153 del 1969, n. 68, ha fatto seguito il D.L. 12 settembre 1983, ti. 463, art. 8, comma i bis, conv. in L. 12 novembre 1983, ti. 638, secondo il quale “Resta ferma la disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, indipendentemente dal reddito percepito dal pensionato”. Tale norma, dunque, stabilisce che il riacquisto della capacità di guadagno nonché da un reddito da lavoro da parte del cieco non comporta la perdita della pensione. Secondo una prima interpretazione, fatta propria da Cass. 30 luglio 1999, ti. 8310; Id. 8 marzo 2001, n. 3359; 19 luglio 2002, n. 10609; 19 maggio 2003, ti. 7833 e da ultimo in qualche modo ripresa dalla sopra citata Cass. 2012/15646, la norma avrebbe sancito un principio generale di irrilevanza del reddito del beneficiano anche ai fini del riconoscimento dei trattamenti di assistenza in favore dei ciechi. Altro orientamento, cui questa Corte ritiene di aderire, – Cass. 26 settembre 1988, n. 5252; Id. 23 marzo 1998, n. 3027; Cass. Sez. Un. 24 febbraio 2005, n. 3814; Cass. 26 marzo 2009, n. 7308 oltre alla già citate Cass. n. 15646/2012 – sostiene, invece, la finalità limitata dell’art. 68, inteso solamente a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un connesso reddito consegua la perdita della pensione. Invero, nella predetta decisione a Sezioni unite è stato precisato: “la previsione, in favore dei ciechi, della conservazione del trattamento pensionistico nonostante la carenza sopravvenuta di uno dei presupposti, e in particolare del requisito reddituale, persegue la finalità di favorire il loro reinserimento sociale, non distogliendo l’invalido dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa, senza che da tale finalità possa desumersi, in contrasto con il dato letterale delle richiamate disposizioni, l’espressione di un generale principio di irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di invalidità dei ciechi, con conseguente estensione a questi ultimi della integrazione al minimo della pensione” si veda anche Cass. n. 7308 del 26/03/2009 -. Va, peraltro, considerato che le pronunce da ultimo citate sono state emanate in una materia diversa da quella per cui è causa e cioè nella materia di integrazione al minimo dei trattamenti pensionistici riservati ai minorati della vista. Questa Corte ha in tale sede ritenuto che sia possibile la conservazione della pensione da parte di un soggetto cieco anche dopo l’inizio di una attività lavorativa, con connessa acquisizione di un reddito anche elevato, poiché tale trattamento economico risponde alla specifica finalità di inserire i soggetti non vedenti nelle attività produttive. Ha anche sottolineato che detto principio si basa sul disposto di due norme definite “specialissime e di stretta interpretazione”: il D.L. 12 settembre 1983, n. 4631, art. 8, comma I bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e la L. 30 aprile 1996, n. 1532, art. 68. Per effetto del combinato disposto delle norme suddette, l’acquisizione da parte del cieco di una capacità lavorativa e del reddito da essa derivante non comporta la perdita della pensione, che, se revocata per questo solo motivo, deve essere ripristinata interamente. E questo perché la finalità specifica della provvidenza economica è intesa a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro, evitando che al reperimento di un’attività lavorativa (e del reddito connesso) consegua la perdita della pensione. La deroga in favore dei ciechi al generale divieto di cumulare la pensione di invalidità con reddito da lavoro si spiega, come è stato precisato, anche con la necessità di tutelare “l’affidamento riposto dal cittadino cieco nell’ammontare del beneficio previdenziale su cui egli ha costruito il proprio tenore di vita e coltiva i propri progetti”. Tale indirizzo, dunque, espresso con riferimento ad una prestazione pensionistica conseguita nel regime dell’assicurazione obbligatoria I.N.P.S. (l’integrazione al minimo è istituto proprio del regime generale previdenziale), non è automaticamente estensibile, proprio in ragione della affermata specialità del D.L. 12 settembre 1983, n. 4631, art. 8, comma I bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e della L. 30 aprile 1996, art. 68, norme ritenute di “stretta interpretazione” e non è, perciò, invocabile con riguardo alle pensioni per cecità civile di cui alla ridetta L. 10 febbraio 1962, n. 66. Sebbene nella citata sentenza resa da questa Corte a Sezioni unite si faccia riferimento alla pensione di invalidità civile laddove invece la fattispecie esaminata concerneva una pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. prima dell’attribuzione allo stesso delle competenze in materia di benefici assistenziali, e quindi una pensione certamente disciplinata dalla L. n. 153 del 1969, art. 68 e DL. n. 463 del 1983, art. 8, stame l’affermato carattere eccezionale delle disposizioni di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 68 e D.L. n. 463 del 1983, aia. 8, non è possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, il beneficio riconosciuto a favore di chi gode di trattamento previdenziale. Del resto l’attribuita rilevanza del reddito ai fini del riconoscimento della “integrazione al minimo” e cioè di quella maggiorazione che non trova corrispondenza nei contributi versati ma soccorre a garantire il minimo vitale (gravando sul bilancio dello Stato) è significativa del fatto che il principio della irrilevanza del reddito non potesse che essere stato riferito alla sola pensione maturata nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria e non anche a quella di invalidità civile (assistenziale). Se, infatti, il reddito rileva quando lo Stato partecipa al sostegno della previdenza (nei limiti di una maggiorazione integrativa), a maggior ragione deve ritenersi tale rilevanza quando è l’intero trattamento ad essere a carico dell’erario.
Da tanto consegue che per la prestazione oggetto di causa, per la quale, si ribadisce, presupposto di legge imprescindibile è lo stato di bisogno di cui ai sopra citati art. 7 della L. a 66 del 1962 e vi. 5 della L. n. 382 del 1970, il requisito reddituale resta rilevante, considerato, peraltro, che la pensione ai ciechi civili è dovuta, a differenza di quella di invalidità civile ex lege n. 118 del 1971 e di quella di invalidità ex lege n. 222 del 1984, indipendentemente dalla incidenza dello stato di minorazione sulla capacità di lavoro, spettando anche oltre il raggiungimento dell’età pensionabile (v. Cass. 26 maggio 1999, n. 5138).
Si è, in sostanza, in presenza di differenti misure protettive dell’invalidità in cui diverse sono le modalità di finanziamento delle prestazioni: quelle previdenziali – che trovano fondamento nella previsione di cui all’ari 38 Cost., comma 2 – sono alimentate dai contributi gravanti sugli specifici soggetti obbligati ed i datori di lavoro; quelle assistenziali – che fanno capo all’ari 38 Cost., comma I – sono finanziate dallo Stato attraverso il ricorso alla fiscalità generale. Se pure è vero che lo Stato partecipa anche al sostegno della previdenza qualora i mezzi raccolti con i versamenti contributivi siano insufficienti (come nel caso della integrazione al minimo), i due territori rimangono concettualmente e giuridicamente ben distinti e questo giustifica trattamenti legislativi differenti in relazione ai quali va esclusa ogni violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Né può ravvisarsi una violazione dell’ari 2 della Cost. considerato che il legislatore ha previsto, in favore dei ciechi, specifiche prestazioni che prescindono dalla condizione reddituale (così l’indennità di accompagnamento per cecità assoluta di cui all’art. 1 della L. 28 marzo 1968, n. 406 e l’indennità speciale per ciechi parziali di cui all’ari 3 della L. 21 novembre 1988, ci. 508).
3. Alla luce delle considerazioni che precedono va ribadito il principio secondo cui la pensione non reversibile per i ciechi civili (assoluti o parziali) di cui agli arti 7 e 8 della L. 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiano dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’ari 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’ari 12 della L. 30 mano 1971, n. 118 di conversione del D.L. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’ari 68 della L. 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S., sia l’ari 8, comma 1 bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in L. 11 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione I.N.P.S. in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi dì norme di stretta interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’ari 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica; tale principio è da ritenersi, per i motivi sopra evidenziati, in linea (e non in contrasto) con quanto affermato da questa Corte nella decisione n. 3814/2005 così da escludere la necessità di una devoluzione della questione alle Sezioni unite.
4. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
5. La controvertibilità delle questioni trattate e l’esistenza di precedenti difformi di questa stessa Corte di legittimità giustificano la compensazione tra le pani delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma l’8 ottobre 2014.
Il Consigliere estensore Il Presidente