Alcuni giorni fa ho letto questa sconcertante notizia: “VIBO VALENTIA. Va a scuola da otto anni e nessuno dei suoi insegnanti di sostegno conosceva o conosce l’unico sistema di lettura e scrittura che può usare, il Braille.”, e mi sono venute spontanee alcune considerazioni.
Ormai sono pochi coloro che ricordano come si è venuto evolvendo il processo di istruzione dei disabili visivi : ripercorriamone brevemente i momenti principali.
Il processo di scolarizzazione dei disabili visivi è diventato “istituzionale”, ossia i programmi di insegnamento sono stati definiti a livello nazionale, a partire dalla riforma Gentile del 1923 che come noto ha interessato l’intero sistema scolastico e che , con specifica normativa del 1925, si è anche occupata dell’istruzione degli alunni con disabilità visiva e, come vedremo, non in modo emarginante, bensì attraverso un modello formativo “integrato “ante litteram” nelle scuole comuni dei ragazzi non vedenti.
La normativa del 1925 prevedeva che i bambini con disabilità visiva frequentassero nelle scuole elementari speciali, operanti negli istituti per ciechi, solo il primo ciclo della scuola elementare (fino alla terza), mentre dalla quarta elementare i ragazzi proseguivano gli studi prima nelle scuole elementari prossime all’istituto, poi nelle scuole medie della città e così fino al termine della scuola superiore.
In tal modo negli anni Trenta e Quaranta centinaia di giovani disabili visivi hanno frequentato con successo le scuole di tutti, senza la presenza di nessun insegnante di sostegno. I ragazzi con disabilità visiva, verranno poi “costretti” alla frequenza fino in quinta elementare delle scuole speciali, a partire dal 1953 dalla legge che aveva statalizzato le scuole elementari per ciechi e nel 1963, con l’avvento della scuola media unica, grazie ad una interpretazione surrettizia della legge, si trovarono “obbligati” a frequentare la nuova scuola media unica speciale, nata dalla trasformazione delle preesistenti scuole speciali di avviamento professionale annesse agli Istituti per ciechi.
Fu questo il “momento buio” del processo di scolarizzazione dei ragazzi con disabilità visiva, un momento che, senza alcuna motivazione pedagogica, vide protrarsi la loro “chiusura” nelle scuole speciali, dagli iniziali tre anni, per tutti gli otto anni dell’obbligo scolastico e fino alla soglia della scuola superiore. Da questa situazione è partito nel ’68 il movimento dei genitori per il recupero del diritto all’inclusione scolastica dei disabili visivi, un diritto che era stato “scippato” ai loro figli da provvedimenti che erano stati ispirati più dalla necessità di salvaguardare le istituzioni scolastiche, che dalla riflessione tiflopedagogica. Fu così che, un anno prima della legge 517 , nel ’76 con la legge 360, i disabili visivi vinsero la battaglia e “recuperarono” il diritto all’inclusione scolastica nella scuola di tutti.
Un altro momento da analizzare per comprendere l’evoluzione del processo di scolarizzazione dei nostri ragazzi è ciò che avviene in seguito all’emanazione nel 1977 della legge 517. Questa introduce come “strumento” primario per l’integrazione dei ragazzi con disabilità la figura di “sostegno”: un docente che doveva supportare il consiglio di classe nella programmazione didattica inclusiva , figura che, ovviamente, venne richiesta anche là dove vi erano alunni con disabilità visiva , ma a condizionare l’evoluzione del modello di inclusione di qui in poi sarà il “focus” della legge, mirato all’integrazione degli alunni con disabilità intellettiva e ritardi di apprendimento. A questo fine viene organizzata la formazione dei docenti di sostegno , dapprima in modo confuso e disomogeneo, ma, grazie alla presenza nella stragrande maggioranza dei casi di disabili con ritardi di apprendimento, via, via , negli anni ’80 , si veniva affermando una formazione, sì sulle tematiche relative alla disabilità, ma con una impostazione sempre più “generalista” e sempre meno attenta ai bisogni specifici derivanti dalle diverse tipologie di disabilità . E’ così che a fianco dei nostri ragazzi troviamo, sempre più spesso, insegnanti che poco o nulla sanno di tiflopedagogia e tiflodidattica e la cui opera, ispirata ad un “buonismo” protettivo, a volte favorirà addirittura l’isolamento dell’alunno dal contesto della classe.
Nella Scuola superiore , “chiusa” agli alunni con deficit di apprendimento, i nostri ragazzi in quegli anni continuavano a frequentare con successo le lezioni nelle classi comuni integrandosi sia sul piano scolastico, sia su quello della socializzazione, secondo il “vecchio” modello senza alcun docente di sostegno. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1988, che sanciva il diritto di inclusione scolastica di tutti i disabili in ogni ordine di scuola, anche qui si affermava il modello di inclusione “centrato” sul docente di sostegno e, conseguentemente, a partire dagli anni ’90 anche i disabili visivi iscritti nelle scuole superiori, cosa mai successa fino ad allora, si vedranno affiancare un docente di sostegno ed assisteremo ad una vera e propria “involuzione” del processo di inclusione.
Un’altra causa di involuzione è da ricercarsi anche nella “dispersione” delle competenze tiflopedagogiche e tiflodidattiche: l’istituto Romagnoli di Roma. Senza più il suo fondatore, il grande Augusto Romagnoli prematuramente scomparso nel 1948, è diventato sempre meno autorevole, incapace di continuare ad essere il punto di riferimento per sensibilizzare i “circoli culturali”, l’università e gli intellettuali sulle tematiche dell’educazione e dell’integrazione sociale dei disabili visivi , e dagli anni ’70 , incapace di “leggere il cambiamento”, inizia il suo declino con la progressiva perdita di prestigio, quale centro di ricerca tiflopedagogica, fino a giungere, negli anni ’90 alla sua chiusura di fatto.
Negli anni ’70 e ’80, mentre l’Unione Italiana dei Ciechi manteneva una posizione di “attesa” e contradditoria verso l’inclusione, la Federazione delle istituzioni pro ciechi, refrattaria al processo di integrazione, si era chiusa sempre più in se stessa diventando sempre più autoreferenziale, rimanendo anch’essa ai margini del movimento di rinnovamento culturale e scientifico della psicopedagogia che in quel periodo caratterizzava le università italiane.
Questa “assenza” della tiflologia nel dibattito psicopedagogico in corso e il numero proporzionalmente “insignificante” di disabili visivi in rapporto alla totalità dei disabili, inseriti nei vari ordini di scuola (circa il 2%), fa crescere l’idea della formazione polivalente e della necessità di superare le specializzazioni dei docenti di sostegno e sarà in questo clima culturale che verranno definiti i principi fondanti della legge quadro 104 del 1992, dove l’attenzione alle specificità per ciechi e sordi viene demandata all’“assistenza alla comunicazione”, senza però che venissero definiti né il profilo professionale , né il percorso formativo degli assistenti alla comunicazione con l’inevitabile conseguenza che anche questi ruoli furono affidati ad educatori privi di competenze specifiche.
Sarà solo nel Convegno di Taormina del 1992 che l’unione Italiana dei Ciechi, superati i precedenti tentennamenti, indicherà nel modello di inclusione la modalità di scolarizzazione dei disabili visivi e inviterà gli istituti a diventare centri erogatori di servizi a sostegno dell’integrazione scolastica. Fu questa una svolta importante anche se giunta in ritardo e se sarà realizzata in modo disomogeneo dalle varie realtà, perché significava prendere consapevolezza dell’importanza di recuperare l’esperienza tiflopedagogica delle nostre istituzioni per metterla a servizio del processo di inclusione.
Oggi, constatato il livello assolutamente insoddisfacente dell’inclusione scolastica dei ragazzi con disabilità visiva, partendo proprio da queste riflessioni sulla “nostra storia”, dobbiamo trovare il coraggio di andare oltre, il coraggio di dire che ai nostri ragazzi questo modello che è passato a fornire da meno di 13 ore medie settimanali dei primi anni ’90 , le attuali 25 ore medie settimanali di sostegno, e che, come tale ha degli elevatissimi costi, non è servito a garantire ai nostri ragazzi una positiva frequenza delle scuole, né a favorire una loro reale inclusione sociale. Dobbiamo trovare il coraggio di dire ai genitori che il rapporto uno a uno non serve a migliorare la qualità dell’inclusione dei propri figli e che è dimostrato che non è l’aumento delle ore di sostegno ad elevare il livello dell’inclusione. Dobbiamo trovare il coraggio di dire che dopo i primi anni della scuola primaria non serve un modello di inclusione imperniato sull’affiancamento di un insegnante di sostegno ma serve un modello incentrato su “servizi” di sostegno in grado di mettere i ragazzi nelle condizioni di seguire autonomamente le lezioni dei docenti titolari. Dobbiamo trovare il coraggio di proporre un modello che tenga presente che per garantire il successo scolastico di un alunno con disabilità visiva, non serve il docente di sostegno, ma serve un sostegno che non sottragga l’allievo all’insegnamento dei docenti titolari, ma fornisca loro le condizioni perché essi riescano ad interagire positivamente con lui. Dobbiamo trovare il coraggio di dire che per l’inclusione scolastica di un disabile visivo Serve un sostegno alla scuola che fornisca i libri di testo in braille, ingranditi o accessibili; serve un sostegno per insegnare l’uso del pc con le periferiche assistive al momento giusto; serve un sostegno per una educazione all’autonomia personale , di lavoro e di movimento per rendere capaci gli alunni con disabilità visiva ad essere sempre più autonomi negli spostamenti e nel lavoro didattico; serve un sostegno per illustrare ai docenti titolari l’uso degli strumenti e dei sussidi didattici specifici; serve un sostegno con specifiche competenze per rendere efficaci gli insegnamenti di discipline particolari quali l’educazione musicale ed artistica .
E’ questo tipo di sostegno che ha permesso ai nostri ragazzi in passato di frequentare autonomamente e con successo la scuola di tutti senza docenti di sostegno, ed è questi servizi che l’Unione e gli “enti collegati” , facendo squadra e lavorando ad un comune progetto, dovrebbero fornire per i nostri ragazzi.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario pensare ad una loro federazione che possa diventare un’ autority delle scienze tiflopedagogiche capace di essere: il luogo della ricerca, del rilancio, della diffusione e della formazione tiflopedagogica e tiflodidattica e di essere un riferimento autorevole per scuole ed università sulle metodologie e gli strumenti per l’inclusione scolastica dei disabili visivi.
Un sogno? Forse, ma ,…”Se a sognare sei solo, il sogno resta un sogno, ma se a sognare siamo in tanti, il sogno può diventare realtà.”.
Sostegno o docente di sostegno, di Luciano Paschetta
Autore: Luciano Paschetta