Ancora una volta ho letto con estremo interesse e piacere un ampio ed erudito articolo del GRIDS dal titolo: “La differenza fra il paradigma inclusivo e quello integrativo”, pubblicato sul numero di mercoledì 15 di “SUPERANDO”.
Anche questa volta, ne ho condiviso i principi: quelli di una pedagogia inclusiva che faccia della scuola un reale luogo di inclusione. A dimostrazione di questa mia condivisione non “di facciata , ma anche della proposta e della necessità di tempi lunghi per una sua implementazione al sistema scolastico, mi permetto di richiamare alcune mie considerazioni degli anni ’70 , lo faccio, non certo con il linguaggio forbito del ricercatore universitario, ma con quello del “pragmatico ruspante” ,quale mi ritengo nei confronti delle scienze pedagogiche.
In quegli anni, anche sulla base dell’inserimento nelle scuole comuni dei primi bambini con disabilità visiva da me seguiti, sostenevo che la Pedagogia
e la didattica che vanno bene per l’alunno disabile, vanno meglio per il compagno “normodotato” e che la presenza del disabile in una classe è paragonabile alla funzione della cartina di tornasole in chimica: rileva la validità o meno dell’azione pedagogica del gruppo dei docenti. Allo stesso modo, quale convinto
sostenitore dell’eliminazione delle scuole speciali in quanto fondavano le ragioni del loro esistere su una idea pedagogica che muoveva , anziché dall’attenzione alla “persona” nel suo complesso, da quella verso la disabilità, ero Convinto che la pedagogia , in quanto scienza dell’educazione, dovesse essere “for all” , Tuttavia, in seguito , nel pieno sviluppo del processo di integrazione scolastica, anziché l’affermarsi l’insegnamento della pedagogia fondata su un “paradigma inclusivo” , nelle nostre università sorgevano le cattedre di “pedagogia speciale” che facevano riferimento ad un “paradigma integrativo”. A me, sostenitore dell’”uguaglianza nella diversità” , ciò mi sembrò un ritorno al passato, ma gli amici docenti universitari me ne spiegarono le motivazioni, ed io , esperto della scuola “in atto “ come docente prima e come dirigente scolastico poi, nel rispetto dei reciproci ruoli , anche se non del tutto convinto, ho accettato le conclusioni della ricerca pedagogica. Ecco perché condivido quanto scritto nell’articolo dal GRIDS sulla necessità di una pedagogia inclusiva, però , a questo punto, mi sembra corretto sottolineare che l’idea di separatezza ed il riferimento a paradigmi integrativi , nascono e si sviluppano nell aule universitarie: non è facile per l’”uomo comune” (e forse neanche per il docente comune) comprendere che gli alunni sono tutti uguali nella diversità, ma per l’educazione dei bambini si studia la pedagogia , mentre per educare i bambini con disabilità c’è la pedagogia speciale.
Ciò detto, sempre dal punto divista di chi la scuola e il processo di inclusione l’ha vissuto e lo vive , con ruoli diversi, ma sempre sul campo e lo interpreta da “pragmatico ruspante”, credo altresì che perché le idee sostenute dal GRIDS possano diventare patrimonio comune a livello universitario prima, e concretizzarsi in “sistema” educativo poi, sia necessario un tempo che l’attuale situazione dell’inclusione scolastica non può più aspettare. Di qui la proposta del “possibile” qui ed ora, al quale mira la proposta di legge FAND/FISH che pur avendo quale obiettivo la scuola inclusiva come quella descritta dal GRIDS, non può prescindere da una realtà dove da anni i docenti sono stati formati secondo paradigmi integrativi, senza prevederne l’”accompagnamento” verso il modello inclusivo.
Vanno in questa direzione: la richiesta di certificazione secondo il sistema ICF, la formazione continua obbligatoria in servizio dei docenti , il potenziamento della “rete” di supporto attraverso la valorizzazione dei CTS, ma anche, al di là dell’apparenza, come cercherò di chiarire più avanti, una maggior specializzazione dei docenti per il sostegno e l’istituzione dello specifico ruolo .
In merito a questa ultima “vexata quaestio” ribadisco , ancora una volta, che creare il ruolo di sostegno chiarendo che il docente specializzato è a supporto del contesto(docente, consiglio di classe, di dipartimento, collegio docenti, ecc.) e non dell’alunno con disabilità , lasciando , in tal modo, la totale responsabilità del suo apprendimento ai docenti titolari, mettendo questi ultimi al centro dell’azione educativa di tutta la classe, a nostro avviso, vuol dire lavorare nell’ottica di una pedagogia inclusiva.
Una pedagogia inclusiva che va insegnata nelle aule universitarie, ma , nel contempo per trasmetterla sin da subito e per accelerarne il processo di consapevolizzazione, va anche disseminata e supportata nelle scuole.
Parlare di uguaglianza nella diversità , significa altresì conoscere le “diversità” e farle conoscere è il ruolo del docente specializzato il quale affianca l’istituzione nel suo commplesso per attenzionarla al rispetto delle differenze ,suggerendo metodologie , strumenti operativi e organizzazione del “tempo scuola” che rendano reali pari opportunità di apprendimento all’alunno con disabilità; è questo il compito di “funzione strumentale “ (figura contrattualmente prevista) al quale il docente di ruolo specializzato potrà assolvere. Questo ruolo verrà a perdere di importanza via, via che la diffusione dei principi della pedagogia inclusiva, la maggior specializzazione dei docenti e dei dirigenti scolastici , farà assumere al sistema formativo dei docenti ed alla scuola sempre maggior consapevolezza nella pedagogia for all, ponendo fine, allora sì, agli aspetti “duali” e di separatezza dell’attuale modello di inclusione.
Luciano Paschetta