Tutto è iniziato quasi per gioco. Era la scorsa estate e avevo appena terminato un’immersione in mare assai faticosa, ma bella, quando ricevetti sul telefonino una chiamata nella quale mi veniva proposto un corso nel quale avrei dovuto parlare per un’intera settimana solo ed esclusivamente in inglese.
Appena mi fu possibile controllai la mail e lessi alcune informazioni su un’associazione chiamata Lunaria che aveva intrapreso una collaborazione con l’unione italiana ciechi.
Decisi che al mio ritorno dalle vacanze avrei approfondito la cosa.
Purtroppo al ritorno dalle vacanze fui costretta a rifiutare l’offerta, ma mi riproposi di valutarla non appena sarebbe stato attivato un nuovo progetto.
Fortunatamente non è trascorso tanto tempo e nel gennaio scorso mi venne nuovamente proposto di prendere parte a The perfect Match. Qualche leggera esitazione, ma nel giro di pochi giorni dissi finalmente sì.
Ma adesso tocca spiegare con precisione cosa sia The Perfect match.
Dunque, riordiniamoci le idee e cerchiamo di chiarirle anche ai lettori.
The perfect match è un progetto organizzato da Lunaria in collaborazione con l’Unione Europea che permette a giovani provenienti da varie parti d’Europa di scambiare le proprie conoscenze e arricchire il proprio bagaglio personale entrando in contatto con persone di varie estrazioni sociali, varie culture e talvolta anche differenti disabilità.
I partecipanti durante la settimana acquisiscono nozioni per diventare facilitatori di gruppi eterogenei nei quali si hanno partecipanti con differenti abilità e competenze, provenienti da più parti del mondo.
Comprendo che la descrizione sia ancora sin troppo riduttiva e per far capire quanto possa essere formativa tale esperienza non mi resta che parlare del corso “the perfect match” al quale ho preso parte.
Lo scambio si sarebbe tenuto in una località non molto lontano da Roma e più precisamente nella campagna reatina.
Nascondo di aver avuto sin troppe perplessità quando ho letto nel materiale illustrativo che mi era stato inviato che avrei dovuto dormire per una settimana abbondante in un sacco a pelo.
Il mio primo pensiero è stato: ma non me ne potevo stare a casa!
Ma le sfide sono fatte per essere affrontate e ho provato a mettermi in gioco.
Io e gli altri italiani siamo arrivati a Poggio Mirteto verso le 16 di una domenica marzolina piuttosto fredda ed uggiosa.
Abbiamo subito preso possesso delle nostre stanze. La mia era una quadrupla e avrei dovuto dividerla per una settimana abbondante con due ragazze greche e una spagnola.
Le avrei incontrate qualche ora dopo durante un gioco di gruppo e sarei entrata in sintonia con loro sin da subito.
Il primo pomeriggio lo avremmo trascorso parlando con tutti gli altri partecipanti che stavano raggiungendo l’Italia.
Qualche leggera difficoltà per ricordare tutti i nomi e tutte le nazionalità: eravamo pur sempre in 32 tra corsisti e facilitatori e la mia vista non è di certo quella di un’aquila, quindi avrei dovuto fare affidamento solo sulle voci.
Il primo luogo di socializzazione sono state delle sedie poste vicino ad una stufa a pellet che riscaldava i nostri corpi infreddoliti e anche le nostre idee assai confuse.
Ricordo di aver parlato con le ragazze greche della mia passione per la loro cucina, come è ovvio il cibo unisce sempre, e della situazione economica e politica del loro paese. Politica e economia, invece, dividono sempre, ma questa volta non è andata proprio così.
La prima mezza giornata è trascorsa velocemente e il lunedì mattina eravamo già pronti per lavorare.
Ammetto che il lunedì mi abbia entusiasmato, ma mi attendevo da quel corso qualcosa che solo nei giorni successivi sarebbe arrivata.
Ci serviva una scossa, una di quelle scosse che fanno saltare in aria, che fanno perdere il terreno da sotto i piedi, spingendo a muoversi, a fare gruppo, a confrontarsi e magari anche a scontrarsi.
Il martedì la scossa è arrivata.
Siamo stati divisi in piccoli gruppi e ogni gruppo avrebbe dovuto costuire un ponte fatto di sole corde.
Facile a dirsi, difficile a farsi, se in ogni gruppo venivano inserite persone bendate o già cieche di fabbrica, permettetemi di ironizzarci sopra, persone zoppe o azzoppate per la situazione e muti resi tali all’occorrenza.
Come è giusto che sia alcuni, invece, non avevano disabilità alcuna, ma dovevano essere di supporto per coloro che avevano ricevuto il Jolly.
L’obiettivo finale da raggiungere era quello di costuire il ponte per poi poterci camminare sopra.
Insomma se lo si costruiva male si finiva faccia a faccia con il terreno e si baciava terra come Colombo.
Per quanto gli stranieri amassero l’Italia non credo avessero l’ardire di finire nella terra come Napoleone.
Dunque, non restava che rimboccarsi le maniche e costruire il ponte dei Sospiri, emh emh emh quello si trova a Venezia, volevo dire, il ponte Vecchio, a no quello è a Firenze, direi allora il ponte di Poggio Mirteto, con la speranza di non poggiare al suolo il proprio corpo.
Le squadre si sono messe subito a lavoro e tutti i membri del gruppo hanno compreso che ogni individuo avrebbe dovuto mettere a disposizione le proprie conoscenze e le proprie abilità.
Direi che il risultato sia stato raggiunto, visto che i 4 ponti sono stati costruiti, tutti abbiamo vagliato la loro resistenza e nessuno è andato a fare visita al Pronto Soccorso.
I giorni sono trascorsi velocemente e abbiamo provato altre esperienze similari a quella descritta in precedenza, ma anche attività di altro calibro e altra portata.
Se mi soffermassi a descriverle tutte avrei bisogno di un intero libro, piuttosto che di una sola pagina di giornale.
Vorrei, però, soffermarmi su altre esperienze di integrazione che abbiamo avuto durante la settimana.
Il giovedì abbiamo fatto una scampagnata e in quella occasione penso di essere tornata ad essere una bambina.
Mi sono arrampicata su un albero e ho avuto il piacere di sedermi su un ramo dello stesso.
Fosse stato per me su quel ramo ci avrei passato tutto il pomeriggio, ma le cose belle, come è noto, durano poco meno di una sigaretta, forse direi di un caffè.
Il vero scambio internazionale è avvenuto quando abbiamo organizzato la cena internazionale.
é stato allestito un enorme tavolo sul quale erano state disposte pietanze provenienti da differenti paesi europei: formaggi francesi, bruschette con insalata greca, salsicce e salami, ma anche birre e tanti tanti dolci.
Chi, o meglio cosa, avrebbe potuto rappresentare pienamente il nostro paese, oltre alla pizza o alla Lasagna? Un bel piatto di spaghetti alla carbonara.
Penso di non aver mai visto un pentolone con così tanti spaghetti: chissà quante uova ci saranno volute per fare quella Carbonara?
A fine serata il pentolone era vuoto e per smaltire tutto quello che avevamo mangiato ci siamo messi a ballare i balli Greci e balcanici!
Mamma mia: il ballo di san Vito è quasi più tranquillo!
Ma il momento più bello di tutta la serata è stato quando abbiamo suonato e cantato in allegria.
Un bicchierozzo di vino rosso per scaldare gli animi, un organetto suonato da un francese, una chitarra e tutto quanto una cucina potesse offrire per essere usato all’occorrenza come strumento musicale.
Poi ancora, le nostre voci, i nostri piedi e le nostre mani, per creare un tripudio di allegria, gioia e serenità.
Se qualcuno ci avesse sentito in quel momento avrebbe pensato che la nazionale di calcio aveva appena vinto i mondiali.
Ma in quel momento non c’era la gioia di un solo paese, ma l’allegria di tante nazioni messe insieme.
C’era lo spirito caliente degli italiani, dei greci e degli spagnoli, la razionalità dei tedeschi e dei francesi e la gioia di sentirsi europei degli ungheresi e degli Slovacchi.
SE qualcuno di voi si stesse chiedendo cosa sia The perfect Match, potrei rispondere: un’esperienza irripetibile, nella quale ti sembra di aver girato il mondo, pur avendo tenuto i piedi nella propria nazione.
Potrei spendere fiumi dìinchiostro e parlare ancora per ore, ma penso che per conprendere cosa sia realmente the perfect match non resta che provare.
Io credo che si potranno provare emozioni bellissime, difficili da descrivere e da esternare.
Per adesso non mi resta che ringraziare tutti i facilitatori che erano presenti a Poggio Mirteto, con la speranza di poter ripetere, un giorno, questa bella esperienza, magari potendola sperimentare dall’altra parte della barricata, ovvero dal punto di vista dei facilitatori.
Marta Ghelli